La vita intima e la vita nomade in Oriente - 10

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la sorte lo condusse sulle rive del ruscello che scorre a qualche
passo dalla moschea. Se questo luogo era allora come è oggi, non mi
meraviglio che il sultano siasi deciso a fissarvisi pel resto de' suoi
giorni. A breve distanza dalla spiaggia, dietro una siepe selvatica
di arboscelli in fiore, un corso d'acqua abbastanza largo, ricco di
acque chiare e limpide, si snoda tortuoso per una prateria di circa
centocinquanta metri quadrati ch'esso abbraccia e quasi interamente
racchiude. Verso il centro di questa prateria, in cui il fresco ed il
verde durano in ogni stagione, grazie all'acqua del ruscello che filtra
nel sottosuolo, un albero immenso, di cui non saprei dire il nome,
stende i suoi rami ombrosi sopra la terrazza che corona la moschea.
Se da un rifugio così calmo e verdeggiante voi levate gli occhi in
giro, voi scorgete da un lato una serie interminabile di boschetti e
dall'altra il mare, in riva al quale sono ancora ritti gli avanzi di
un anfiteatro romano. Il sultano Ibrahim comprese la bellezza di quel
luogo, risolse di stabilirvisi e di terminarvi i suoi giorni nella
meditazione e nella preghiera. La sua vita fu corta e la leggenda
non ci dice quale sia stata la causa della sua morte prematura.
Cadde forse vittima sotto i colpi di qualche orda sanguinaria? Gli
fecero difetto le cose indispensabili alla vita, anche a quella di
un anacoreta? La sua costituzione formatasi fra gli agi ed i piaceri
non resistette alle austere aspirazioni della sua anima? Non sappiamo
nulla. La leggenda ci mostra soltanto la madre del giovine sovrano che
lascia la Corte tosto dopo suo figlio, ne segue da lungi le orme, le
perde oggi per ritrovarle domani e giunge finalmente sulle sponde di
quel limpido ruscello dove io stavo seduta ad ascoltare questa storia
narratami da un vecchio santone arabo. Non trovò di quel figlio così
a lungo cercato che il cadavere ancora caldo. La leggenda descrive
coll'enfasi dell'Oriente il dolore di quella madre in lagrime. «È
giunta dunque troppo tardi? Tanti giorni passati sulle strade deserte,
fra i pericoli, tante sofferenze, tante privazioni non avranno nessun
risultato? Non può essa più nulla per quel figlio ch'era venuta a
cercare e di cui voleva dividere l'esistenza? No, non può esser così;
le rimane qualcosa a fare per lui; essa gli innalzerà un monumento
che perpetuerà il ricordo delle sue virtù e Dio saprà bene mostrare
ai fedeli che il corpo sepolto sotto quelle volte è stato d'uno de'
suoi eletti.» Qui finisce la leggenda, ma il santone soggiunse a modo
di conclusione: «La _validè_ (sultana madre) eseguì il suo progetto
e Dio ricompensò la sua fede. Da seicento anni cioè, dacchè il corpo
del sultano Ibrahim riposa in questa moschea, innumerevoli miracoli
sono stati compiti sulla sua tomba e tutti i viaggiatori che passano
da Gubletta vengono a farvi le loro preghiere ed a deporvi la loro
offerta. Tu, che sei cristiana, non rivolgerai le tue preghiere
al sultano Ibrahim, ma se vuoi sarai ammessa nell'interno di quel
monumento e ricompenserai chi ti avrà procurato questo favore.»
Io non domandava di meglio che di ricompensare quel buon santone e
lo seguii rispettosamente fino nella sala funeraria che racchiude
l'immenso catafalco del sultano Ibrahim. Non vi trovai nulla di più
di ciò che aveva visto in tutte le moschee che custodiscono ceneri
illustri. Una cappella, o per dir meglio, una camera collocata nella
parte più remota dell'edificio e separata dalla moschea propriamente
detta contiene un cofano gigantesco posto su un piedestallo di legno
che lo rialza ancora e che è coperto da tappeti, scialli indiani e
piume. La luce del giorno non penetra che debolmente in quel recinto e
vi è sostituita da una moltitudine di lampadine ad olio che diffondono
fumo piuttosto che raggi di luce. Tutt'intorno alla stanza sono sospese
le offerte, come in alcune delle nostre chiese.
I nostri cavalli attendevano insellati ed imbrigliati alla porta della
moschea, avevamo la prospettiva di una lunga marcia ed ero impaziente
di trovarmi in aperta campagna; ma non fu facile l'escire. Ho detto che
ero dispostissima ad esprimere la mia riconoscenza al santone che mi
aveva narrato la leggenda; sgraziatamente quella leggenda era unica,
i santoni erano parecchi ed i pretendenti alla mia gratitudine si
assiepavano in una tal folla all'escita della moschea che arrischiai
di rimanerne soffocata. Anche in Europa vi sono molti mendicanti, ma
ricevono quello che voi date loro o si ritirano senza far rumore se
voi non date loro nulla. I mendicanti arabi sono d'una specie molto
diversa. Non havvi differenza fra essi e i briganti, salvo che questi
cercano i luoghi solitari a teatro delle loro gesta, mentre quelli
esercitano la loro professione in mezzo ad una popolazione che sta a
vedere guardandosi bene dall'intervenire. Malgrado la protezione del
console di Russia e delle mie guardie non so cosa sarebbe accaduto di
me se avessi rifiutato l'elemosina a questi mendicanti. Non vi pensai
neppure, ma la mia buona volontà fu inutile. È una massima generalmente
ammessa e praticata nel Levante che non bisogna mai accontentarsi di
ciò che vi si offre quand'anche vi si offrisse il doppio di ciò che
vi proponevate di chiedere. Ho ritrovato traccie di questo sistema, a
Venezia, ove certamente è stato introdotto da negozianti levantini. Un
bottegaio delle Procuratie mi domandava un prezzo stravagante di non
so più quale oggetto. Non piacendomi di mercanteggiare, gli volsi le
spalle; ma il mercante mi richiamò e mi disse:
— Diavolo! signora mia. Come scappate! Non si domanda il prezzo che si
vuole avere!
Strano principio di cui non ho ben compreso tutto il valore che dopo il
mio soggiorno in Oriente!
Fortunatamente i miei cavalli stavano alla porta della moschea. Il
console frugò nelle sue tasche, ne trasse tutti i quattrini che aveva
e li gettò in aria in modo da farli cadere un po' lontano da' miei
persecutori. Appena il suono della moneta, che batteva sulle lastre del
tempio, si fece udire, il cerchio che mi chiudeva si spezzò e mi trovai
libera. Ne profittai per lanciarmi a cavallo e partire di galoppo,
gettando uno sguardo pieno di rimpianto all'anfiteatro diroccato che
avevo dovuto rinunciare a visitare. I miei compagni di viaggio, che non
erano entrati nel sepolcreto del sultano Ibrahim, avevano percorso,
in compenso, le rovine romane e ne ritornavano incantati. A parer
loro, l'anfiteatro di Gubletta era un monumento del miglior stile ed
in un raro stato di conservazione. Ci seguiva la numerosa scorta di
«Basci-bozuk» che dovevano lasciarci quando avessimo oltrepassato
un certo posto considerato molto pericoloso. Fu nondimeno in tal
punto che ci fermammo a far colazione e vi avrei passato volentieri
qualche giorno a dispetto di tutti i briganti dell'universo, tale era
il fascino di quel luogo. Le rive del mare sono generalmente molto
aride, in Siria più che in qualunque altro luogo; ma non so per quale
segreta influenza le leggi fisiche sono talora annullate in questa
terra prodigiosa ed i paesaggi più meravigliosi si spiegano d'un tratto
ai vostri occhi là dove non credevate di incontrare che sassi, roveti
e sabbie. Talune oasi della Siria sfuggono a tutte le spiegazioni,
a tutte le ipotesi e per la loro estensione e per la natura degli
ostacoli che hanno vinto. L'aria salata del mare non dovrebbe agire
allo stesso modo su tutti i terreni che costituiscono la spiaggia? Come
accade che, dopo aver camminato intere giornate nel greto sabbioso,
fra arbusti nani e rattrappiti, vi troviate d'un tratto alla soglia
d'un giardino inglese? La sabbia cede il campo all'aiuola; i cespugli
e le boscaglie sono sostituiti da alberi vigorosi di tutte le specie,
ricoperti di fiori. Questi fiori smaglianti di colore, con ampie
corolle, deliziano gli occhi e rendono balsamica l'aria; gli uccelli
cantano a migliaia con un ardore ed un'energia che gli uccelli dei
climi più temperati non potrebbero raggiungere. Per esempio, le nostre
rondini gettano durante il volo un grido monotono e null'altro; ma
quella d'Asia, più piccola delle nostre, con ali lunghe ed una coda
allungata a forchetta di un bel turchino metallico, col petto ed il
collo di color arancione, canta presso a poco come un usignuolo. Il
timbro della voce è più profondo, ma il suo canto si scosta assai
poco per ritmo e per melodia da quello del nostro grande concertista
boschereccio. La natura orientale rivela qui la sua potenza e non ci
era mai apparsa così meravigliosa come nell'oasi ove ci siamo fermati
dopo aver lasciato Gubletta. Un vecchio castello, non so di quale
epoca, dominava una piccola altura a pochi metri dal mare. Non era
facile di distinguere a prima vista le rovine, coperte com'erano da
una tunica di edera e di altri arrampicanti. Ogni screpolatura di
quei vecchi muri non sembrava aperta che per lasciar passare ciuffi
di fiori. Tutt'intorno il paese aveva la medesima colorazione datagli
da una ricca vegetazione e, sebbene il sole fosse già abbastanza alto
sull'orizzonte, l'ombra di alberi immensi si disegnava sulla prateria
con larghe chiazze scure. Impossibile d'imaginarsi in un tale paradiso
nulla che non fosse dolce, ridente, soave. Occorre una cornice ad
ogni quadro ed una scena di sangue e di violenza avrebbe spezzato in
modo criminoso tanta armonia fra quel mare, quel cielo, quelle rovine
coperte di fiori, quei prati e quei boschetti. Mi si narrava che quel
vecchio castello era spesso riparo di briganti, ma io non lo potevo
credere. Nondimeno le guardie che ci dovevano accompagnare fino a
Tripoli (Tarabulus) ci facevano premura ricordandoci che mancavano
ancora dieci ore di marcia di cammello per arrivare a Tortosa ove
dovevamo pernottare. Convenne cedere alle loro insistenze e mi
staccai molto di malumore dal vecchio castello, dal suo velario di
fogliame e di fiori, dalla verde prateria e dall'ombra opaca. Quando
si abbandonano di questi paesaggi siriani si finisce per dire: «Non
vedrò mai più qualcosa di così bello!» È triste, perchè vi sono grandi
probabilità che sia proprio così.
La giornata che seguì quella simpatica sosta fu molto gravosa. Dalle
11 del mattino alle 4 del pomeriggio il caldo divenne intollerabile. Ci
fermammo qualche tempo sotto le mura di Baynas[26], città antica le cui
fortificazioni rimontano all'epoca delle crociate e sono evidentemente
un lavoro europeo. Lambivamo il mare e circa un'ora prima del cader
del sole scorgemmo dinanzi a noi, all'estremità di una lingua di terra
che si avanza nel mare, una massa nerastra e frastagliata che ci fu
detto essere Tortosa[27]. Accanto al promontorio e quasi aderente alla
terra è un'isola chiamata l'isola delle donne. Ha ricevuto questo nome
perchè è quasi esclusivamente abitata da donne, madri, sorelle o figlie
di pescatori e marinaj che trascorrono la loro vita sulle onde. Ci
facemmo coraggio allo scorgere Tortosa. Una delle nostre guide osservò:
Non vi siamo ancora! Se tale riflessione gettata in viso ad un povero
viaggiatore sfinito dalla stanchezza è ben irritante, l'esperienza che
avevo ormai acquistato delle delusioni solite dei viaggi nel Levante,
mi sforzava purtroppo ad ammettere che la guida poteva aver ragione.
La notte scese rapidamente: la luna non compariva, ma le notti in
Oriente non sono mai molto nere. Sembrano piuttosto un crepuscolo.
Talora il paesaggio è così ben rischiarato verso mezzanotte come poteva
esserlo un'ora dopo il tramonto, sebbene voi non scorgiate una stella
perchè il cielo è completamente coperto di nubi. Checchè ne sia, la
notte era scesa, una di quelle notti dubbie, in cui si è più esposti
a perdere la strada che in mezzo alle più folte tenebre. Si scorgono
gli oggetti circonvicini, ma se ne vedono anche altri che non sono
vicini, anzi non esistono, e quelli reali vi appajono talora sotto
forme interamente nuove e quasi irriconoscibili. Avevamo intravisto
Tortosa quand'era ancor chiaro, credemmo riconoscerla a notte fatta.
Era là, dinanzi a noi, ad una piccolissima distanza. Ecco, dicevamo,
le sue antiche mura fortificate, ecco la sua vecchia torre; la città
occupa una distesa di terreno molto notevole: dev'essere abbastanza
importante. E così commentando, camminavamo sempre verso la nostra
città. Una svolta della strada ce la nascose un istante, ma, appena
girata la punta che ci stava dinanzi, non potevamo esserne molto
discosto. Svoltiamo e non vediamo nulla: il fantasma della città s'era
dileguato nell'aria e dovemmo camminare ancora più di due ore prima di
raggiungere le mura che avevamo creduto un momento di poter toccare.
Non ho visto a Tortosa che le strade che dovetti percorrere per
arrivare al mio alloggio; ma ciò che ne ho veduto assomiglia ad una
vecchia cittadina europea. Le case, fabbricate in pietra, si aprono
sulla strada, mentre ovunque qui le vie consistono in una serie di
muri di cinta, e le case sorgono al di là di quei muri, rimanendo
nascoste agli sguardi dei passanti. La camera dove passai la notte
era costruita a volta come lo sono in genere le case di Gerusalemme e
di tutte le città della Siria nelle quali i Crociati hanno dimorato
a lungo. Traversando la città, l'indomani, rilevai parecchi edifici
costrutti all'europea, che mi ricordavano certi palazzi municipali
della Normandia. Hanno un aspetto cupo, in fondo triste; ma havvi nulla
di triste per l'esule in ciò che gli ricorda la patria lontana?
Da Tortosa a Tripoli vi è la stessa distanza che da Gubletta a Tortosa.
La prima giornata ci aveva mal preparato alla seconda; alcuni dei
nostri cavalli erano ancor peggio disposti di quello che non fossimo
noi, e per completare la serie dei nostri guaj non ci si offriva
un solo rifugio lungo la strada. Circa alla metà della giornata
scorgemmo per altro in vetta ad un pendio un villaggio arabo, il primo
della sua specie che abbia veduto, composto in tutto di una dozzina
di tende in stoffa bruna, tessuta in pelo di capra o di cammello.
Non so dove fossero gli uomini; ma le donne custodivano le tende e
pensammo che fosse possibile trovarvi del latte. Fu una cattiva idea.
Avevamo creduto che quelle donne arabe fossero donne come le altre.
Fummo sgradevolmente sorprese allo scorgere esseri bizzarri che
si precipitavano fuor dalle tende al nostro arrivo: enormi cani le
precedevano, abbajando, urlando, mostrando i denti e lanciandosi tra
le gambe dei nostri cavalli. Ma quei furibondi mastini erano ancora
cortesi in confronto alle donne. Esse erano vestite d'una tunica di
tela turchina e uno straccio dello stesso colore avvolgeva la loro
testa e ricadeva sulle loro spalle; una cintura in cuojo le stringeva
alla vita; la loro pelle nera e grassa era coperta di tatuaggi neri e
bleu; e in particolar modo le labbra scomparivano completamente sotto
uno strato d'indaco e la punta del loro naso non era che un ricettacolo
di girasoli non ancora sbocciati, di anelli d'oro e di rame oppure
di fiorellini di filagrana. Fra queste donne ve ne dovevano essere
di giovani, ma tutte sembravano avere la stessa età, cioè una molto
rispettabile; tutte parevano ugualmente di umore intrattabile. Ci
mostravano i pugni facendoci delle orribili smorfie con accompagnamento
d'ingiurie e di maledizioni, tutto ciò perchè venivamo a domandar loro
qualche tazza di latte. Così edificati sull'ospitalità delle signore
dalle labbra turchine, non volevamo prolungare le trattative. Lanciammo
i nostri cavalli al galoppo, cosa poco comoda, con tutti i calci che
quelle povere bestie tiravano continuamente ai cani che mordevano loro
le gambe e non rallentammo il passo che dopo esserci messi fuori del
tiro delle loro grida e dei sassi che facevano piovere su di noi. Mi
ripromisi, mentre mi allontanavo, di non domandare mai più latte a
donne arabe.
Quella sera non fu molto più gradevole della precedente. I nostri
cavalli ci deposero, dopo una marcia faticosissima, e già a notte
fatta, a Tripoli[28], innanzi alla casa del console d'Austria, cognato
dei miei ospiti di Latakiè e di Gubletta. I due consoli avevano dovuto
scrivere a quell'agente per annunciargli il mio arrivo e mi avevano
incaricata di molti messaggi per la loro sorella. Era dunque colla
maggiore fiducia che io battevo alla porta del console d'Austria a
Tripoli, pregustando il piacere delle buone notizie che recavo alla
sua famiglia e della gioja che stavo per procurarle. Mandai il mio
dragomanno ad annunciare il mio arrivo, ed attesi il suo ritorno, a
cavallo, nella strada, stentando a lottare contro la stanchezza ed il
sonno che si erano impadroniti di me. Siccome il ritorno si faceva
aspettare al di là del prevedibile, pregai uno de' miei compagni di
viaggio di andare a riconoscere lo stato delle cose. Egli ritornò dopo
qualche istante col viso acceso per informarmi tutto sconvolto che
il console non sembrava affatto disposto a riceverci e faceva valere
tutti i pretesti immaginabili per dispensarsi dall'aprirci la sua
porta. Ero così bene avvezza all'accoglienza amabile degli orientali,
poveri e ricchi, che il modo di agire di quell'agente consolare mi
indignò davvero. La mia stanchezza scomparve come d'incanto, ed avrei
volontieri passato la notte su un paracarro, se ve ne fossero stati
a Tripoli, piuttosto che mettere i piedi in quella casa così poco
ospitale. Doveva per altro esservi un mezzo termine fra il paracarro
e il palazzo del console d'Austria, e m'informai dai curiosi, che
malgrado l'ora avanzata si erano riuniti intorno a noi, per sapere se
conoscessero alcuno che potesse riceverci per buon cuore od in cambio
di denaro. Vi era, è vero, un convento di Carmelitani, ma situato
all'estremità opposta della città; le porte non erano più aperte
dopo una certa ora ed era dubbio che le donne vi fossero ammesse. Mi
avevano affidato una lettera per il medico della quarantena, ma era
assente. L'opinione comune era che non avrei trovato in nessun luogo
un alloggio così buono come in quel consolato; ed ognuno sembrava
ritenere che la via più spiccia e più savia fosse quella di proseguire
le trattative per ottenere di entrarvi. Quanto alla questione della mia
dignità offesa, agli occhi dei cittadini di Tripoli era un particolare
completamente impercettibile.
Ne eravamo a questo punto, e confesso che col nostro discutere non
avevamo fatto un passo innanzi, quando il mio dragomanno e quello del
consolato comparvero e mi annunciarono, coll'aria di gente che aveva
appena terminato una lotta accanita, che il console mi attendeva e
che potevo far scaricare i nostri bagagli. Esitavo ancora, ma come
fare? Era quasi mezzanotte, non conoscevo nessuno a Tripoli nemmeno di
nome; uomini e bestie erano al limite delle loro forze e della loro
volontà. Seguii dunque i due dragomanni. Traversai una vasta corte
lastricata in marmo, curata colla più squisita nettezza e circondata da
vigne. Il primo vestibolo ben illuminato e le cui luci si riflettevano
sulla superficie lucida dei marmi e dei rivestimenti in legno come
su specchi di Venezia, mi abbagliò al primo mio entrare. Nella camera
vicina, quasi altrettanto grande che il vestibolo, ma meno rilucente
e più ammobigliata, il terribile console stava steso sul divano con
un berretto da notte in testa ed il corpo avviluppato in una veste
da camera. Dal primo colpo d'occhio mi avvidi che non si era ancora
riconciliato colla necessità alla quale si arrendeva, non so neppure
se avrebbe potuto dominarsi abbastanza per negarsi la soddisfazione
d'indirizzarmi un complimento di cattiva lega; ma non gliene lasciai
il tempo. Egli era molto malcontento e quindi di cattivo umore; io non
ero che in collera, ciò che è sempre molto meglio. Pertanto, camminando
dritta verso di lui mentre egli si moveva sul suo sedile come per
alzarsi, gli dissi con una voce molto chiara e scandendo le parole: «Vi
prego di credere, signore, che non mi sarei presentata a casa vostra
se la vostra famiglia non me ne avesse insistentemente pregata, ed in
questo momento stesso io escirei da questa casa se potessi trovare un
altro alloggio. Io non accetto quindi da voi che quello che non potete
rifiutarmi, un asilo per questa notte. Il vostro vestibolo mi basterà
e domattina all'alba proseguirò il mio viaggio.» Il console d'Austria
non era punto un uomo cattivo e non aveva avuto l'intenzione di farmi
una scortesia. Era semplicemente un uomo di cattiva salute, nervoso,
ipocondriaco; quelli che hanno vissuto lungamente in Oriente hanno
perduto l'abitudine di frenarsi, e quelli che non ne sono mai esciti
non l'hanno mai imparata. Gli era stato annunciato che una ventina di
persone reclamava la sua ospitalità alle undici di sera; ne era rimasto
imbarazzato ed aveva mostrato il cattivo umore che gli era derivato
dal trovarsi così in impiccio. Quando s'avvide di avere veramente
offeso i suoi ospiti, ne ebbe dispiacere e me lo manifestò colla stessa
vivacità e la stessa schiettezza colla quale aveva prima dato sfogo al
suo malcontento. La mia ira si dileguò subito come per incanto. La mia
attenzione si era del resto riportata sopra un oggetto infinitamente
più attraente che non fosse il console. Sua moglie, la sorella de' miei
ospiti di Latakiè, era seduta nell'ombra quando io entrai. Essa non
parlava e non capiva che l'arabo; ma indovinò facilmente che suo marito
ed io non stavamo scambiandoci frasi troppo tenere. Si alzò, con grande
dolcezza si accostò a me, mi prese la mano e mormorò a bassa voce
qualche parola araba che non compresi, ma di cui intuii il significato.
La moglie del console d'Austria a Tripoli è forse la più bella donna
che abbia veduto in Siria e la sua acconciatura era la più graziosa,
la più carina di tutte quelle che avevo ammirato prima di allora.
Fece segno al dragomanno del consolato di avvicinarsi e lo incaricò
di dirmi tutto quello che il suo bel viso m'aveva già detto. La mia
camera era già pronta, essa stessa andava a prepararmi la cena e
voleva servirmela; suo marito si era messo di cattivo umore temendo
ch'io non trovassi in casa sua tutti gli agi ai quali avevo diritto
d'aspettarmi. Era malato e la menoma agitazione lo metteva fuori di sè;
ma essa lo aveva rassicurato promettendogli che non mi sarebbe mancato
nulla o che almeno essa otterrebbe il mio perdono per ciò che essa non
riescirebbe a procurarmi. Mentre parlava così ed accompagnava le sue
parole coi più graziosi sorrisi e con uno sguardo in cui una punta
d'inquietudine si mescolava alla lieta dolcezza che sembrava essere
nella sua natura, io aveva bell'e dimenticata la mia ira e la causa
che l'aveva procurata. Guardavo via via quella donna ancor così bella,
così giovane ed attraente, un gruppo di bambini che giocavano in un
canto serbando un silenzio che rivelava un certo timore, ed il padre
di famiglia, il marito, il padrone, avvolto nella sua veste da camera
e nel suo malumore. Mi venivano in mente altre coppie europee, viventi
sulle stesse basi, offrenti lo stesso contrasto, e dicevo a me stessa
che la natura umana è la medesima sotto tutte le latitudini e con tutte
le usanze.
Bisognò seguire senza cerimonie la bella padrona di casa nella sala
da pranzo, e ricevervi dalle sue bianche mani tutto ciò che le piacque
offrirmi. Qualche momento più tardi, io gustavo il riposo più assoluto
in una camera confortevolmente ammobigliata. L'indomani il nostro
console si rivelò d'eccellente umore. Mentre io dormivo ancora, egli
aveva ricevuto la lettera de' suoi cognati che annunciava il mio
arrivo e che aveva avuta in ritardo per un incidente inatteso. Partii
dunque da Tripoli soddisfattissima del breve soggiorno che vi avevo
fatto, e perfettamente riconciliata coll'ottimo console che, dopo
tutto, era semplicemente un galantuomo, d'umore un po' vario e molto
malato. Quattro sole ore di marcia ci separavano da Badun[29]; il tempo
era bello e caldo, i nostri bagagli ci avevano preceduto, secondo il
solito, ed eravamo liberi da ogni noia; ma è precisamente in mezzo ad
una sicurezza completa che quasi sempre ci accadono guai.
Ci era impossibile di smarrirci durante la prima parte del nostro
viaggio verso Badun, poichè non dovevamo lasciare la spiaggia del mare,
ma fatalità volle che noi raggiungessimo un promontorio che segna il
punto dal quale la strada si stacca dal mare proprio quando la notte
spegneva gli ultimi bagliori del crepuscolo. Un'altra circostanza
molto disgraziata, di cui risentii gli effetti durante tutto il tempo
del mio viaggio, fu di avere per dragomanno un uomo altrettanto vano
quanto sciocco ed ignorante. Piccolo di statura e molto brutto, questo
personaggio, alternatamente ossequioso ed arrogante, era di origine
europea, perchè era nato a bordo di una nave danese che recava sua
madre nel Levante. Questo bastimento era tutto ciò che avesse mai
conosciuto dell'Europa, e la sola lingua occidentale che fosse riescito
a balbettare era l'italiana. Stabilitosi a Costantinopoli egli era
riescito, non so come, ad occupare una discreta posizione. Durante il
primo anno del mio soggiorno in Asia, lo avevo impiegato per qualche
mese nella fattoria, poi avendolo incontrato al mio passaggio da Angora
avevo acconsentito ad ammetterlo di nuovo nella mia scorta. Dacchè ero
entrata nella Siria, mi ero però accorta che l'arabo non gli era meno
straniero degli altri idiomi orientali ed occidentali e rimpiansi, ma
troppo tardi, di avere ingrossato il mio seguito con quell'importuno.
Ai suoi occhi, il titolo d'interprete e quello di primo ministro
si equivalevano: pertanto egli profittava di ogni occasione per
mandare innanzi il grosso della carovana e darsi la soddisfazione
di pavoneggiarsi al mio fianco, col fucile in ispalla, sul più alto
de' miei cavalli e ostentando un'immensa sciarpa rossa guarnita di
pugnali e di pistole. Se questo bizzarro dragomanno non fosse stato
che inutile non avrei preso al tragico l'impiccio della sua presenza;
sgraziatamente, non meno ignorante in geografia che in linguistica,
egli aveva la pretesa di possedere nei menomi particolari la carta
dei paesi che percorrevamo. Il giorno della nostra marcia su Badun
riconoscemmo a nostre spese quanto questa pretesa fosse infondata.
Guidati dal personaggio testè descritto, seguimmo dapprima la costa
fino al promontorio che taglia la strada di Badun. A partire da
quel promontorio, la via fa una svolta a sinistra, attraversa alcuni
avvallamenti e poi ritorna a sboccare sulla riva a breve distanza da
Badun. Il nostro dragomanno, giunto al promontorio, ci avviò verso le
alture; ma, invece di seguire la strada tracciata, ci gettò dietro a
lui nel letto di un torrente che, non solo ci allontanava dalla nostra
direzione, ma opponeva ai nostri cavalli numerosi ostacoli. All'escire
dal torrente ci trovammo sul declivio di un'alta montagna faccia a
faccia con un cumulo di roccie che chiudevano da ogni lato l'orizzonte.
Era evidente, dall'aspetto desolato di quel paesaggio, illuminato dalla
luna, che la nostra guida si era ingannata e questa volta anche la
sua fiducia sembrava scossa. Avremmo dovuto passare la notte all'aria
aperta? Dovevamo proseguire, tornare indietro o fermarci? Dibattevamo
melanconicamente queste varie soluzioni, quando uno di noi credette
di riconoscere un sentiero che doveva condurre ad un villaggio. Non
c'era da esitare: non era più Badun, ma un rifugio qualsiasi che
avevamo premura di raggiungere. Prendemmo dunque la direzione indicata
da alcune traccie, che fortunatamente non ci ingannarono, perchè ci
condussero sulla spianata di una montagna donde scoprimmo un villaggio
abbastanza vicino. Non fu difficile arrivare alle prime case, ma il
penetrarvi, giacchè le strade silenziose in cui eravamo assomigliavano
ai viali di una necropoli e le case non avevano all'esterno nè porte
nè finestre. Era evidente che i pacifici abitanti di quel villaggio
avevano adottato tutto un sistema di precauzioni notturne contro le
tribù erranti, di cui avevano certamente dovuto subire più di una
volta le incursioni. Due o tre dei nostri erano andati frattanto in
una capanna che sorgeva all'ingresso del paese e che sembrava meno
barricata e meno inaccessibile delle case vicine. In fatti la porta che
seppero scovare cedette ai loro colpi ed essi ricomparvero ben tosto
spingendosi innanzi un uomo mezzo svestito, mentre lamenti di donne
cominciarono a levarsi da tutte le abitazioni finitime, come un segnale
d'allarme. Dovemmo penar molto per convincere il nostro prigioniero
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