La vita intima e la vita nomade in Oriente - 09

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opposto, ma non devo preoccuparmene se il mio non ha dato cattivi
risultati. Ho attraversato paesi assai pericolosi, a giudicare da
quanto mi si diceva, e non ho mai subito gravi noie.
La mia decisione di non unirmi alle truppe del pascià era più facile
da prendere che da eseguire. Quando si parte dallo stesso posto, si
cammina nella stessa direzione e presso a poco collo stesso passo,
non si può rimanere distanti uno dall'altro. Potevamo rimanere
indietro di una o due giornate, ma sarebbe stato tempo perso e non
ne avevamo da gettar via. Ci esponevamo inoltre, in tal guisa, a
non trovare nei villaggi che magazzeni vuoti ed alloggi infestati
d'insetti. Ci rassegnammo dunque ad oltrepassare i soldati ed a
lasciarci oltrepassare ad ogni tratto, talora fino dieci volte in un
giorno, ripromettendoci bene di non trascurar nulla per convincere gli
indigeni che i nostri incontri colle truppe non erano che fortuiti e
passaggeri. Ogni volta che noi eravamo raggiunti dai soldati questi
ci inviavano una salva di maledizioni turche che mettevano a dura
prova la mia pazienza. Un corpo d'armata che insulta una ventina di
viaggiatori! Converrà ammettere che è spingere un po' lontano l'abuso
della forza; solo a gran fatica mi rassegnai a non rendere a quegli
insolenti armati anatema per anatema. Il mio cavallo diede prova il
primo giorno di quella marcia da Antiochia a Latakiè di un grado di
intelligenza e di sensibilità che mi sorprese. La tappa era lunga,
il tempo piovoso e la strada, scavata dalla pioggia, serpeggiava
attraverso alla vallata o sul fianco dei monti. La giornata era sul
finire e la stanchezza aveva rotte le nostre fila: i cavalli più deboli
si erano lasciati distanziare dai più forti e coraggiosi e, quando
le curve della strada nascondevano alcuni cavalieri agli sguardi dei
loro compagni, quelli che erano in testa si fermavano e chiamavano ad
alte grida i ritardatarii, non rimettendosi in cammino che dopo aver
udito la voce o scorto la figura di ciascuno dei viaggiatori. «Kur»,
che non conosce nè pigrizia nè stanchezza, era come sempre il primo
della fila. «Kur» è il nome del mio cavallo bianco perchè kur significa
bianco in turco e quel cavallo non ha un pelo che non sia del più puro
candore. Osservo di passaggio che nè turchi nè arabi fanno grandi
sforzi d'imaginazione per dar nome ai loro cavalli ed ai loro cani.
Quasi sempre il nome della bestia è dato dal colore del manto. Possiedo
per altro un bel stallone arabo il cui nome vale: «Cavallo verde» per
quanto sia grigio pomellato. È del resto un nome di razza, di famiglia
e non un nome proprio. Eravamo giunti ai piedi di una montagna ripida
su cui la strada tracciata colla più primitiva semplicità si lanciava
verticalmente dalla base alla cima. Kur fece esattamente come la
strada, per quanto lo invitassi colla voce e colla briglia a temperare
i suoi ardori. Egli non mi ascoltava: ritto il capo e le orecchie, le
narici dilatate, sembrava ch'egli aspirasse avidamente l'emanazione
inebbriante recatagli dall'aria dei monti; ai miei richiami rispondeva
con un nitrito sordo, a sbalzi, fremente, ed accelerava maggiormente
il passo. Quasi sulla vetta la strada aveva una piccola svolta che Kur
nella sua impazienza si guardò bene dal seguire. Mirando dritto dinanzi
a sè, egli raggiunse la cresta che dominava a picco l'opposto versante
o piuttosto una specie di voragine incorniciata dalle grandi roccie
strapiombanti all'ingiro. Con un movimento naturale ed involontario
tirai la briglia, ma prima che avessi l'agio di riflettere che forse
io faceva in quel momento l'ultima galoppata della mia vita, eravamo
ai piedi di quelle roccie precipitando dal monte con altrettanta foga
quanta ne avevamo messa a salire. Soddisfatta di questo esito scorgevo
con gioia sullo stesso pendio pel quale scendevamo a precipizio il
villaggio dove dovevamo pernottare ed ammiravo la forza e l'elasticità
dei garretti del mio cavallo preoccupandomi solo del suo stato morale,
giacchè non è necessario d'essere arabo per affezionarsi a quelle
bestie così eroiche quanto miti e così miti quanto belle. Il mio povero
Kur, dicevo fra di me, è divenuto pazzo; quand'ecco scorsi in mezzo
alla strada che conduceva al villaggio un arabo su un bel cavallo
riccamente equipaggiato, che aveva l'aria di aspettarci. Mi affrettai
a balzare a terra avendo constatato che non vi era più alcuna speranza
di far partire Kur in qualsiasi direzione. I due cavalli uniti da una
misteriosa amicizia, che dava la spiegazione della corsa sfrenata
di Kur, nitrivano, scalpitavano, facevano i salti più straordinari
e si rizzavano sulle gambe posteriori agitando le anteriori come se
avessero accarezzato l'ambizioso disegno di stringersi la mano. Il
cavaliere arabo, che era stato mandato dal capo di quella località
per offrirmi la sua casa, pose termine al mio stupore narrandomi
che i nostri due cavalli erano compatriotti e, fors'anche un po'
consanguinei, che un pascià li aveva comprati entrambi nello stesso
villaggio, ch'egli stesso aveva acquistato il suo da quel pascià e
che i due amici, riconosciutisi da lontano, esprimevano a modo loro
il piacere che provavano a rivedersi. Aggiunse che nulla era più
normale dell'attaccamento che i cavalli arabi sentono per esseri della
loro specie e che i loro sensi sono così raffinati da rivelar loro a
grande distanza l'avvicinarsi di un essere amato od anche di un luogo
famigliare. Pregai l'arabo di far chiudere i due cavalli nella stessa
scuderia per procurare loro qualche ora di gradevole convivenza,
ed egli mi promise di esaudire la mia domanda. La riunione dei due
amici si prolungò più che non avessi supposto dapprima, giacchè il
cattivo tempo ci obbligò a passare il giorno seguente nel villaggio
e le truppe giunte qualche ora dopo di noi imitarono in ciò il nostro
esempio. Passai la giornata a visitare malati. Il governatore locale,
bellissimo uomo, molto ricco ed affarista poco scrupoloso, mi confessò
bonariamente che riscoteva le imposte, ma non le versava al fisco.
Ed alzava le spalle dicendo: «Come potrei pagarle? Non mi rimarrebbe
abbastanza denaro per la mia famiglia e per me». Egli era inquieto
per la sua salute soffrendo di attacchi di nervi, di una vista molto
indebolita e talora anche di un tremito alle gambe. Mi condusse nel
suo harem e mi presentò alle sue due spose, che mi parvero due delle
più belle persone ch'io avessi veduto in Asia. Erano però spudorate
quanto belle e le manifestazioni erotiche che esse prodigavano al loro
signore e padrone in mia presenza erano sorprendenti. Egli stesso ne
parve sconcertato; ma le due signore dal viso di bronzo non erano di
quelle che si turbino così facilmente. In un altro harem dello stesso
villaggio potei assistere ad una scena intima molto più di mio gusto.
Due giovani donne sposate da qualche anno ad un vecchio Effendi non
avevano mai avuto figli, ma la terza sposa dell'Effendi era morta
mettendo al mondo un piccolo infermo che passava la sua triste vita a
gemere ed a piangere. Nulla di più commovente delle tenere cure colle
quali le due giovani madri addottive circondavano il gracile orfanello
figlio della loro rivale. Rimasi con esse qualche tempo studiando
quel quadretto interessante di vita famigliare mussulmana. Il bimbo
mancava di grazia e di bellezza, la sua testa troppo pesante per il
suo corpo ricadeva talora sul petto e tal'altra si rigettava indietro
come se dovesse scivolare lungo la sua schiena; le sue gambette gracili
ed arcuate non sembravano destinate a poterlo mai reggere; eppure
vi era nella sollecitudine di quelle due giovani donne per il povero
orfano un misto di ingenuo e di grazioso, di pietà, d'ammirazione e
di rispetto; un certo imbarazzo nel loro modo di curare quel malatino
mostrava esaurientemente che esse non avevano mai dedicato tali cure
ad un figlio delle proprie viscere. Così, assorte in un compito nuovo
e delicato, quelle donne erano certo felici, più felici che molte gran
signore di Costantinopoli.
Partimmo all'indomani, sfidando le minaccie del tempo e le truppe
turche fecero altrettanto. La strada si allontanava sempre più
dalla riva del mare ed errava traverso a valli, gole e montagne. Il
paese era magnifico, tutto fresco e verde e scorgevo ad ogni tratto
deliziosi rifugi sotto i folti pergolati formati dagli arrampicanti.
Come erano pure le acque che zampillavano a quelle ombre, e scorrevano
con un dolce mormorio in mezzo ai prati in fiore! Come si disegnavano
armoniose le linee delle montagne che si profilavano da lungi su un
azzurro immacolato! Suppongo che durante l'estate infuocata della
Siria questi luoghi perdono molto del loro fascino, mi figuro che
questo spettacolo incantevole di freschezza, di forza e di opulenza,
che questa calma serenità della natura scompaia presto e duri appena
qualche tempo; ma fu appunto durante quei giorni privilegiati che
attraversammo il paese e non potrò mai dimenticare le impressioni che
suscitò in me.
La scena non aveva mutato l'indomani. Ci avvicinavamo a Latakiè ed
al mare, che scorgevamo talora da lungi, dall'alto dei monti. Il
tempo era capriccioso; a delle pioggie torrenziali di breve durata,
succedevano intervalli di pace luminosa nei quali si potevano vedere
le goccioline d'acqua sospese alle foglie riflettere i raggi del sole.
L'arcobaleno si lanciava spesso da un monte all'altro quasi fosse un
ponte gettato dagli spiriti dell'aria. Durante una di quelle brevi
burrasche ci dirigevamo verso un villaggetto che sembrava invitante
e dove speravamo di potere asciugare le nostre vesti e prendere un
po' di cibo. Si può giudicare quale fu la nostra sorpresa quando,
avvicinatici al villaggio, ci scontrammo nelle donne, nei bimbi,
negli stessi uomini che escivano dalle case carichi di tutto ciò che
potevano trasportare, sacchi di grano e di farina, provviste di ogni
genere, materassa, coperte, spingendo pure innanzi a sè mucche, capre,
galline e tacchini. Quella popolazione terrorizzata correva verso il
monte con tutti i sintomi dello spavento e del dolore. Accelerammo
il passo colla speranza di raggiungerli, ma man mano che noi ci
affrettavamo essi facevano altrettanto sicchè presto li ebbimo perduti
di vista. Al nostro arrivo nel villaggio abbandonato, non trovammo che
una vecchia donna e due ragazzetti che, non so per qual motivo, non
avevano seguito gli altri. Domandammo loro latte e uova offrendo di
pagare ciò che avremmo consumato ed essi ne parvero stupitissimi. Si
guardavano in faccia e talora parevano pronti a concederci fiduciosi
i viveri richiesti; ma poi si voltavano a guardare dal lato donde
eravamo giunti e riprendevano a gemere e tremare. Uno dei due fanciulli
si fece coraggio sino a chiederci se gli «altri» fossero ancora
lontani ed incoraggiato dalla nostra risposta ci additò la causa di
quel misterioso spavento. Eravamo stati scambiati per l'avanguardia
del corpo d'esercito che seguiva la medesima nostra strada e gli
abitanti si erano affrettati a porre ciò che possedessero al riparo
dal saccheggio. Ecco qual simpatia esiste in certe provincie turche
fra le truppe nazionali, cioè i difensori armati dello stato e della
legge, e le popolazioni delle campagne! Ne fui tanto più confermata
nel mio proposito di rimanere durante tutta la durata del mio viaggio
all'infuori dalle autorità regolari e dai loro rappresentanti armati.
Cominciai già quel giorno a raccogliere i frutti della mia saggezza.
Quella buona gente era così contenta di non aver a che fare se non
con stranieri col denaro alla mano che frugò nei nascondigli e ci
offerse tutto quello che i fuggiaschi non avevano potuto portar
via... Poi, mentre uno dei ragazzi andava ad avvertire i suoi amici
che non dovevano temer nulla dai loro ospiti, l'altro giovanetto e la
vecchia ci raccontarono la triste storia di tutti i saccheggi di cui
erano stati vittime quegli abitanti. Questa parte della Siria è stata
il teatro di molte battaglie fra turchi ed egiziani, e dopo che è
ritornata in potere della Porta perdura la guerra civile fra i turchi
e le tribù bellicose delle montagne. I poveri contadini che lavorano
i campi, senza parteggiare nè per gli uni nè per gli altri, sono
malmenati da tutti. Nessuno li teme nè ha interesse a risparmiarli, o
per lo meno quest'interesse che non è diretto ed immediato non potrebbe
essere valutato in Asia. La stessa loro povertà non li mette al riparo
dal saccheggio perchè fin che uno vive evidentemente possiede qualche
cosa che può essergli tolta. La schiera dei fuggiaschi rientrava nel
villaggio quando noi ne uscivamo e tutti ci salutarono augurandoci buon
viaggio con cordialità e buon umore. Se ci fossimo imbrancati colle
truppe turche, quel giorno non avremmo fatto colazione.
Era destino per altro che dovessimo finire tristemente la giornata.
I nostri bagagli ed una parte della nostra gente, la cui marcia era
meno rapida della nostra, ci avevano preceduti, dandoci convegno per
la notte in un piccolo villaggio turcomano a quattro ore da Latakiè.
Il nome di questo villaggio mi sfugge; ma il guajo fu che non ce ne
ricordammo più appunto quel giorno. La strada si stendeva allora
lungo la linea delle colline sabbiose che fiancheggiano il mare,
e noi scorgevamo da tutte le parti villaggi ed accampamenti fra i
quali dovevamo scegliere. Cadeva la sera e, nella nostra incertezza,
continuavamo a camminare. Finimmo per renderci conto che avevamo
oltrepassato la nostra meta. Ci convenne di ritornare sui nostri passi
e, avendo scorto a breve distanza un accampamento di turcomani, lo
raggiungemmo per cercare di scoprire che fosse accaduto dei nostri
bagagli e della loro scorta.
Un bimbo che rincasava col suo gregge ci assicurò di aver inteso dire
che in un dato villaggio si erano alloggiati mulattieri spettanti
ad una carovana di viaggiatori. A stento consentì con una mancia
anticipata a farci da guida. Lo seguimmo per più di un'ora, ormai
in piena notte, mentre la stanchezza mi opprimeva. D'un tratto il
fanciullo fuggì dopo averci additato alcuni fuochi lontani che
annunciavano un villaggio ove, asseriva, avremmo trovato quanto
cercavamo. Sebbene questi presagi non fossero favorevoli, ad un'ora
così avanzata della notte non ci rimaneva altro da fare che di recarci
là ove ci aveva indirizzato il ragazzo e doveva evidentemente sorgere
un villaggio, per aspettarvi l'alba anche senza bagagli. Ci toccò
infatti di trascorrere in tali condizioni quelle ore notturne.
Le notti passate così sono orribili. Viaggiando in Oriente, non si
porta con sè nulla di superfluo, un materasso, qualche oggetto per
ripulirsi, un po' di zucchero, di riso e di caffè, non altro; ci si
riduce allo stretto necessario e si riesce a contentarsi. Ma più sono
semplici questi preparativi tanto più gravoso è il rinunciare anche ad
essi. E cosa vi si offre in aggiunta, supponendo che i vostri ospiti
sieno buona gente disposta ad offrirvi qualcosa? Come materassa avete
una coperta imbottita che si piega in due e nell'interno della quale
siete invitata a stendervi come tra i fogli di un libro. Il pasto
consiste di solito in un piatto di riso cotto nell'acqua e condito con
un burro Dio sa di quale data. Nelle case ben montate vi servono dei
cucchiaj di legno utilissimi per mangiare; nelle piccole case vi si
lascia la scelta o di prendere il riso colle dita o di fabbricarvi voi
stessi sul posto dei piccoli recipienti con un pezzo di pane. E bisogna
ancora spiegare che il pane d'Asia non assomiglia affatto a quello
d'Europa. Si mescola della farina d'orzo coll'acqua senza impastarla,
poi con un cilindro la si stende su di un asse lasciandole lo spessore
di un grosso quaderno di carta; si posa quindi la miscela su un largo
coperchio di casseruola o di marmitta che si avvicina al fuoco. Quando
vi è rimasta due o tre minuti, il pane è fatto. Questo pane che è molle
come il cotone deve servirvi da tovaglia, anzi da piatto, da tovagliolo
per asciugarvi le dita e per involgervi le provviste dell'indomani;
infine ne fate dei cornetti per riempirli di riso o di qualche
altra miscela poco solida e portarti alla bocca nel modo più pulito
possibile. Talora vi è servito anche un po' di latte agro e cagliato.
Ormai mi ci sono avvezza, ma a quell'epoca del mio soggiorno nel
Levante non lo potevo tollerare. Quanto al caffè, non solo è servito
senza zucchero, ma è di regola che metà della tazza sia occupata dal
fondo. Al momento di porgerlo è scosso in modo che il fondo sale alla
superficie e si mescola a tutto il liquido.
Un'altra causa d'imbarazzo per il viaggiatore rimasto senza bagagli
consiste in ciò che i pettini e le spazzole sono oggetti completamente
sconosciuti nelle campagne dell'Oriente. Fra i piccoli inconvenienti
che chiedo scusa di enumerare aggiungo l'impossibilità di versare
l'acqua in una catinella per lavarsi il viso e le mani. I catini
orientali sono, per solito, in ferro smaltato od in rame ed il fondo
ne è composto da un leggero reticolato attraverso al quale l'acqua
scorre man mano che è versata, in un secondo sudicissimo bacino dello
stesso metallo. Gli orientali tengono le loro mani sopra i fori del
primo catino mentre un servo versa loro l'acqua che si raccoglie poi
nel catino inferiore. Mentre hanno le mani bagnate in tal guisa se le
passano sul viso e sulla barba e le loro abluzioni sono terminate.
Imperfette come sono queste abluzioni sono però ripetute parecchie
volte in un giorno. Vedete a quali noie si espone il viaggiatore
europeo che faccia troppo a fidanza coi mezzi dell'ospitalità
orientale; mi basta di averle indicate senza insistere troppo.
Aggiungerò solo un particolare. Guai a chi visiti alcune parti del
Levante senza aver provvisto all'illuminazione. Nei villaggi ed anche
nelle piccole città, candele e candellieri sono sconosciuti. Vi si
bruciano scheggie di un legno resinoso che dà una luce molto viva,
ma ancor più fumo che luce. Si tengono in mano questi bastoncelli
accesi a rischio di spargere la resina infiammata su tutti gli oggetti
circonvicini e spesso sulle proprie dita, senza parlare del pericolo
che possono correre la casa e gli ospiti.
Appena alzato il sole ci rimettemmo in cammino. Dovevamo arrivare prima
della fine del giorno a Latakiè[24]. Non era ancora mezzogiorno quando
incontrammo, a poca distanza dalla città, una cavalcata composta dei
principali abitanti che veniva, secondo l'uso, a darci il benvenuto e
ad accompagnarci alla casa del console inglese dal quale eravamo attesi
ed ove ritrovammo bagagli e scorta. La casa e la famiglia del console
inglese di Latakiè dovrebbero essere additate a tutti gli stranieri
come il tipo più attraente delle case e delle famiglie arabe. Ogni
cosa vi è assolutamente nazionale, vale a dire propria dell'Oriente, e
nondimeno è difficile l'immaginare alcunchè di più elegante che questa
casa e di più rispettabile e grazioso della famiglia che vi abita.
L'uso di far comunicare gli appartamenti gli uni cogli altri è
sconosciuto nell'Oriente arabo; la corte ricollega fra loro tutte le
stanze di una casa che bastano a loro stesse. Quante sono le camere
del primo piano, altrettante le scale che terminano tutte nella corte.
Non si economizza certo così nè lo spazio nè i materiali nè la mano
d'opera, tutte cose che non costano care nel Levante, e del resto
così si usa. Si entra nella casa del console inglese di Latakiè da una
piccola porta bassa che si apre da un lato sulla strada e dall'altro
su un andito stretto e scuro che conduce alla corte. Questa ha un
pavimento di lastroni di marmo ed è circondata dai vari corpi di
fabbrica. Quello in fondo contiene la sala comune, ove si giunge da
una scala esterna in due rami come le scalinate d'accesso alle nostre
case di campagna. Il salotto è grande, rischiarato da sette finestre
che danno sui giardini e mobiliato da un divano che si stende lungo
tutte le pareti sotto le finestre; parecchi altri sofà più piccoli
sono addossati al muro. Tutti i mobili sono coperti di seta verde, le
tende delle finestre sono della stessa stoffa, il pavimento di legno è
risplendente di nettezza, un lampadario sospeso in mezzo alla stanza
ne completa l'addobbo. In faccia a questo corpo di fabbrica sorge la
sala da pranzo, vasto locale a pianterreno che non ha aperture fuor che
sulla corte e che ha in giro un rialzo riempito da file di piastrelle
e da divani. I due fabbricati laterali contengono le camere da letto,
gli uffici, la credenza ecc. La mia camera era collocata in alto
d'una scala scoperta che dava sui giardini, trovandosi allo stesso
livello delle terrazze che costituiscono i tetti delle case orientali e
sulle quali, nella stagione calda, si trasportano i letti. Il console
era un giovane arabo di Latakiè che parlava benissimo l'italiano ed
aveva tutte le belle maniere di un vero gentiluomo inglese. Mite,
intelligente ed attivo, egli esercitava un'influenza abbastanza grande
sui Drusi come pure sui Fellah e gli Ansariati dei dintorni e non
adoperava questa influenza che per calmare le passioni violente di
quelle schiatte, per mantenere o ricondurre la pace fra esse ed il
governo. Il giorno stesso del mio arrivo — non precedevo che di alcune
ore le truppe ottomane — egli aveva ricevuto una lettera del capo della
tribù ribelle, che si diceva pronto a trattare coll'amministrazione
imperiale sulla base delle condizioni che il console avesse giudicato
opportuno di proporgli. Il giovine mediatore era felice del suo
successo nell'interesse del paese e della pace in primo luogo, e poi
anche perchè sperava di acquistare un merito a Costantinopoli.
Sebbene molto giovane, il console era marito in seconde nozze di una
vedova che sembrava escita allora dall'infanzia. Questa bella giovane
indossava il grazioso costume delle donne della Siria che fa davvero
onore al loro gusto squisito. Una veste di seta di color chiaro, rosa,
celeste, viola, verde tenero, all'incirca del taglio d'una veste da
camera per uomo, aperta sul davanti ed ai lati, lascia il petto quasi
completamente scoperto. Questo abito scende fino alla caviglia ed ha
una coda che però quelle signore rialzano generalmente attaccandola con
una spilla; poi esse risvoltano i due pezzi anteriori e li attaccano
parimenti con spille sulla parte già rialzata. Larghi pantaloni rigonfi
stretti alla caviglia mostrano le loro pieghe di seta attraverso
l'abito aperto in vari punti. Una larga sciarpa di stoffa indiana o di
broccato ricinge la vita al disotto del seno che è appena velato da una
camiciola di garza di seta con lunghe maniche pendenti. Una bustina
molto attillata ricamata con oro e perle e aperta sul petto come la
veste da camera completa l'acconciatura. Le treccie scendono tanto in
basso quanto lo consentono la natura o l'arte. La testa è coperta da un
fez adorno di perle. Ecco per l'insieme del costume, ma che dire degli
accessori? Chi ha mai fatto il conto delle migliaja di bottoncini,
dei metri di passamanteria e di cordoncino che ornano la veste da
camera, i pantaloni e la camiciola? Delle catene, delle spille, dei
fermagli e dei braccialetti accumulati su quelle braccia, sul petto
e sul collo di cigno di quelle signore? Anche il fez che serve da
copricapo è ornato in cento modi curiosi. Il fazzoletto di seta di
Damasco o d'Aleppo annodato intorno al fez ricade senza pretesa sulla
spalla sinistra; molti nastri si intrecciano sul fazzoletto frammisti a
pizzi. Fez, fazzoletto, nastri e merletti non costituiscono del resto
che la simpatica intelaiatura di quell'opera d'arte: su di essa si
colloca tutta un'aiuola di fiori naturali, che occorre rinnovare ad
ogni momento. Un mazzo di rose ricade sull'orecchio, un ramo di fior
d'arancio accarezza la guancia, gelsomini, garofani, fiori di melagrano
si stendono come un diadema sulla fronte e ciascuno di questi fiori è
fissato sul fazzoletto da spilloni di diamanti di stile orientale che
arieggiano pure del fiori e delle farfalle. Le signore Siriane sembrano
aver accolto il principio che non si ha mai troppo delle cose buone e
che i giojelli sono una cosa ottima. Immaginate ora, sotto una simile
acconciatura, delle donne di statura alta e slanciata sebbene di curve
perfette, con grandi occhi neri straordinariamente scintillanti, un
colorito che avrebbe destato l'ammirazione del Tiziano, lineamenti
fini, delicati e regolari e un'espressione sempre atteggiata al più
grazioso sorriso: avrete allora un'immagine esatta della bellezza
siriaca. Dal canto mio ho veduto tipi di bellezza più notevoli, ma
ben raramente di più seducenti. Per dir tutto nondimeno soggiungerò
che le usanze europee, così poco note e così mal viste nel Levante,
minacciano di farvi breccia colla moda femminile che è forse il solo
lato del mondo mussulmano che converrebbe rispettare. Le signore
d'Aleppo cominciano ad abbandonare la veste da camera e la coda per
adottare la gonna rotonda dell'Occidente, i broccati ed i rasi d'Aleppo
e di Damasco per le stoffe di Lione e, ciò è molto peggio, i tessuti
dell'India, della Persia e del Thibet per il cachemir imitato in
Francia.
Latakiè è una cittadina fabbricata meglio delle città dell'Asia Minore;
l'architettura esteriore delle abitazioni non ha nulla di degno di
nota; ma le case vi hanno l'aria di case e non di capanne rovinate.
I marciapiedi sono così alti e le strade così sporche nel mezzo
che il solo modo di traversarle senza infangarsi fino al ginocchio,
consiste nel saltare da un marciapiede all'altro, ciò che rende il
passeggiare nella città di Latakiè alquanto faticoso. Mi recai a
visitare un arco di trionfo antico attribuito a Vespasiano; ma questo
monumento assai degradato non era forse di una grande bellezza anche
quando era intatto. Ne fui poco soddisfatta. Preferivo a quelle rovine
insignificanti i boschi di aranci, di ulivi e di fichi che circondano
la città ed i palmizi solitari che sorgono qua e là nella campagna
impregnandola a distanza del loro profumo.

LA LEGGENDA DEL SULTANO IBRAHIM — UNA SOSTA A TRIPOLI — BADUN — I
MISSIONARI INGLESI IN SIRIA
Non lasciammo Latakiè e gli amabili nostri ospiti che l'indomani
piuttosto tardi nel pomeriggio. Poco male, perchè ci aspettava solo
una tappa di quattro ore. Dovevamo passare la notte a Gubletta[25],
cittaduzza in riva al mare ove, da parecchi giorni, il fratello del
console inglese era intento a sorvegliare il ricupero di una nave
russa che aveva fatto naufragio in quei paraggi e di cui si sperava di
ritrovare il rame.
Non so se Gubletta esista perchè non l'ho veduta. Il fratello del
console inglese (che era a sua volta console di Russia) doveva
aspettarci alle porte della città, ma non trovai nè porte, nè città, nè
nulla che meritasse tal nome. Vidi soltanto una moschea ove il console
ci aveva fatto preparare un alloggio. Fui ben lieta di venire a sapere
pochi momenti più tardi ch'egli non aveva visitato quel locale e che si
era accontentato di farne escire i sotto-ufficiali della guarnigione di
Gubletta che l'occupavano. Dico che ne fui lieta perchè avevo veduto
a Latakiè la giovane moglie di quel console russo e mi sarebbe stato
penoso di dovermi formare un'opinione sfavorevole sul suo conto. Ora,
solo un selvaggio avrebbe potuto considerare come un alloggio il canile
che mi era stato offerto.
Il console non ne era colpevole e lo vidi anzi arrossire quando
gettò uno sguardo nell'interno del mio appartamento. Non posso dire
cosa questo fosse, ma è certo che le tane degli animali più immondi
sarebbero ricoveri preferibili alle camere dei sott'ufficiali della
guarnigione di Gubletta. Nonostante la fama che ha l'aria di Gubletta
dì procurare le febbri, e sebbene la sera fosse fresca e la notte
promettesse di essere addirittura fredda, mi stabilii sulla terrazza
che copre il tetto della moschea dove neppure l'aria libera valse a
farmi dimenticare un istante solo come mi trovassi nelle vicinanze
di un appartamento testè occupato dai sotto-ufficiali di Gubletta.
Malgrado tutto ciò, che bell'edificio era la vecchia moschea di
Gubletta! E come è commovente la leggenda collegata a quel monumento!
Seicent'anni or sono un sultano chiamato Ibrahim, stanco delle
grandezze, si volle votare alla vita contemplativa. Una notte, dopo
essersi procurato un abito da derviscio, escì solo dal suo palazzo e
dalla sua capitale, ed errò lungamente a caso, vivendo d'elemosina,
ma contento della sua indipendenza e della sua solitudine. Finalmente
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