Il Designato: Romanzo - 04

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Innanzi tutto, nel mio animo s'era risvegliata l'attenzione che m'era
particolare; a luogo di procedere fidente, gli occhi chiusi, come nei
primordî della nostra unione,--io sorvegliava. A che cosa? A nulla e
ad ogni cosa; a Lidia, a me, ai sorrisi, alle parole, a corrugamenti
di ciglia, a strette di mano, ai baci, alle forme di piacere, alla
durata dei desiderî, al bisogno di confidenza, all'intensità di
molestia causata da presenza d'estranei.
In quei giorni di Sufers, io aveva ripresa l'abitudine d'archiviare
dei fatti, e per lunghissimo tempo, a Sufers ed altrove, tutto si
ridusse a questo.
Onde, da quel risveglio, io aveva soltanto percepito che avvenivano
delle modificazioni; eufemismo col quale si stabilisce il principio
d'una catastrofe; fiocco di neve, che rotola pel versante, s'ingrossa,
si dilata e forma la valanga.
I fatti eran d'una sola entità. Ne ricordo alcuni:
Quando noi ci recavamo il mattino a Splügen, era nostra abitudine
seguir la strada men battuta, che partendo dalle spalle dell'albergo,
giunge a quel villaggio per discreti viottoli ombrosi. Non saprei dir
quante volte noi ci fermassimo e le nostre labbra si cercassero
avidamente; non saprei dire con quanta diligenza io vegliassi a che
Lidia non s'affaticasse di soverchio. Da qualche tempo, i baci eran
diminuiti; Lidia, dicendo di voler imitare gl'inglesi, camminava
innanzi a me, senza darmi mano; se ci soffermava l'improvvisa bellezza
d'un mattino estivo, ammiravamo silenziosi, nè sentivamo il bisogno
d'esser vicini, d'interrogarci e di commoverci insieme. Una volta, al
ritorno da Splügen, invece di riprender la via secreta, m'incamminai
sulla via postale, ch'era più breve. Lidia mi seguì, senza mostrar
noia o stupore; giungemmo a casa, privi di baci, e risaliti in camera
non ci ripagammo di quell'insolita astinenza. Peggio: da quel giorno,
le strade postali furono le preferite.
Ancora: noi non parlavamo che del nostro amore, in principio, e non ci
curavamo se all'intorno si vivesse; il bel tempo e il cattivo erano
egualmente benvenuti e con egual piacere si rimaneva in casa o si
usciva a passeggio. Da parecchio,--avevo cominciato io,--i nostri
discorsi parlavan degli altri; si faceva la caricatura ai compagni
d'albergo, ci si chiedeva che potessero pensar di noi i genitori di
Lidia e i miei amici. Peggio; si facevan disegni per altri luoghi, si
evocavano i ricordi della città; si prediligevan le passeggiate, nelle
quali s'inframmettevano fra noi mille oggetti e variati spettacoli; e
si leggevano i giornali.
Queste modificazioni eran necessarie; accennavano al passaggio
dall'amor violento, dalla frenesia giovanile a un più calmo possesso,
a una più tranquilla felicità; passaggio inevitabile, poichè sarebbe
stato pericoloso e sovrumano che avessimo continuato come nei
primissimi tempi. Nè mi potevano esse spaventare, nè eran brusche ed
aspre così da lasciar fra l'inizio e il presente una visibil lacuna;
ma avevan tuttavia qualche cosa di caratteristico, d'indefinibile,
prodotto dalla graduale conoscenza reciproca delle nostre indoli.
Certamente, per noi i giorni dipendevan dalle notti, la vita
dell'anima s'informava alla vita dei sensi, e conservo a tal riguardo
la memoria di due episodî, che segnano a mio credere due punti ben
chiari e diversi della nostra parabola amorosa.
Com'io aveva indugiato una sera nella mia camera a scorrere diverse
lettere, ed era inavvertitamente valicata la mezzanotte, l'ora
classica in cui mi presentavo a Lidia,--sentii presso l'uscio un tenue
fruscìo d'abiti, e sulla porta l'errar d'una mano in cerca della
gruccetta. Aguzzai l'orecchio; il fruscìo pareva ripetersi; ma sempre
tenue e dubitoso. Mi diressi all'uscio, l'aprii sveltamente e vidi
Lidia, immobile, fulminata dalla propria audacia.
--Oh!--ella esclamò, giungendo le mani, con voce tra la gioia e il
malcontento.--Oh non pensar male di me! È già mezzanotte; non ti
vedevo, temevo che fossi indisposto. Non pensar male!--
Io risi prendendola fra le braccia.
--Mi duole, o signora,--dissi, mentre la portavo sopra una
poltrona.--Mi duole immensamente, ma io sono costretto a pensar male
di voi!--
E le diedi più baci sugli occhi e sulla bocca....
Questo era avvenuto non molto dopo il nostro arrivo all'albergo; ma
v'era anche il riscontro a quella scena d'impulso; riscontro causale
di cui io aveva la maggior colpa.
Leo, il cane del signor Pfaff, s'era fatto singolarmente ringhioso e
per dimostrarmi che la sua antipatia aveva concluso nel più strano
odio, mi guardava con occhi torvi e brontolava se appena osassi
avvicinarlo. Talchè, scendendo solo, un mattino, e trovando Leo
disteso nel corritojo, lungo e stretto, che seguiva alla scala, tentai
d'accarezzare il cane, di persuaderlo all'amicizia con qualche buona
parola. Leo s'alzò veemente e visto chiuso l'uscio che dal corritojo
metteva alla strada, ringhiò, in atto di difesa; per punir l'animale
dell'accoglienza eccessivamente incivile, staccai dalla parete la
frusta del signor Pfaff, drizzandone la punta al muso del cane; ma
questo senza darmi tempo di colpirlo, spiccò un balzo con un latrato,
mi si lanciò contro così veloce, ch'io riuscii a mala pena a schivarne
l'urto. Quasi nel medesimo istante, sulla scala che mi era alle
spalle, risonò un grido acuto e volgendomi scorsi, abbrancata alla
ringhiera, Lidia, pallidissima, cogli occhi aperti su di me. Leo parve
ammansato dalla inattesa comparsa della donna; io corsi a Lidia, la
riaccompagnai nella sua camera, dov'ella, cedendo a un moto nervoso,
diede in dirotto pianto, tutta scossa da un tremito.
Non so perchè, quelle lacrime innocenti m'irritarono e mi sconvolsero
in modo che invece di chieder perdono a Lidia d'averla così turbata
colla mia improntitudine, non apersi bocca e aspettai ch'ella avesse
rasciugati gli occhi e si fosse dominata; nè per quanto i suoi sguardi
invocassero una scusa, io fui capace di formularla.
Ci trattammo con molta freddezza pel resto della giornata, poichè,
sapendo d'aver torto, mi dicevo e mi persuadevo d'aver ragione, ed ero
arrivato ad aspettarmi io una spiegazione dello spavento di Lidia.
Quando calò la sera, ci lasciammo al limitare delle nostre camere, e
nessuno di noi due tentò una riconciliazione, venuta solo l'indomani.
Se questo chiaroscuro aveva potuto svelare a Lidia la dominante
incoerenza del mio carattere, ben ve ne furono in séguito, che
squarciarono altri veli. E, per esempio, rammento che all'arrivo della
diligenza avendo una volta osservata con qualche attenzione una
signora assai giovane ed elegante, che vi si trovava, rincantucciata
in un angolo,--rammento come Lidia soffrisse di quella mia curiosità
senza scopo, e me ne chiedesse con insistenza delle ragioni che non
potevo dare, poichè non esistevano.
E, ancora, Lidia tradiva a poco a poco la smania, l'impazienza di
tornare in Italia, di ritrovarsi fra gente conosciuta, d'ascoltar dei
discorsi e delle narrazioni di fatti. I fatti soli la interessavano,
mentre su di me esercitavano una noia indicibile, specie se raccontati
con quella minuzia di particolari che Lidia voleva.
Gli stupendi paesaggi a noi d'intorno, eran piaciuti a Lidia, non per
sè medesimi, ma per la loro novità; laddove io, conoscendoli assai
bene, li amavo perchè me n'ero fatto padrone e ne sapevo ogni
inflession di linguaggio; cosicchè avveniva che a me l'abitudine
faceva il soggiorno più caro, e a Lidia il soggiorno non piaceva se
non vario di gite e d'escursioni. Abituato a mutar luogo dalla prima
giovanezza, nulla dei costumi stranieri mi riusciva molesto o
inaccettabile; m'allignavo così prestamente in qualunque paese da
dimenticare in pochi giorni d'avere altri costumi. Lidia, vissuta
sempre sotto la tutela assorbente di donna Teresa, trovava
insopportabile la minima variazione alle sue abitudini; aveva sofferto
d'insonnia perchè il letto non era collocato di fronte alla finestra,
e dopo più di due mesi, ancora arricciava il nasino quando le
avvenisse d'ascoltar gli svizzeri parlare il dialetto grigione o il
romancio; la cucina dell'albergo le aveva tolto l'appetito; il romore
del Reno la spaventava come al primo giorno; e osservando ch'io non
pativa punto di questi disagi, s'irritava leggiermente.
Perchè, la collana di screzî che sono andato enumerando, era, infine,
così sottile da notarsi appena, e ancora sopra tutto dominava l'amor
nostro, che appianava le piccole difficoltà e conservava il color
roseo a quei primi mesi; nessuno di noi due, certo, ingrandiva le
scabrosità di carattere dell'altro, ma al contrario, ciascuno si
studiava di sorriderne con affetto e d'obliarle tosto.
Sul cominciar di settembre, donna Teresa ci scrisse, manifestando il
desiderio di riveder Lidia e mi parve opportuno cedere alla preghiera
nonostante che Silesia Pfaff e suo padre si rammaricassero assai della
nostra partenza.
--Perchè così presto, quest'anno, signor Lacava?--osservò Silesia,
all'annuncio.
Perchè così presto, infatti? Abitualmente, io aspettava la prima
tormenta di neve, a levar le tende; ciò mi offriva la varietà d'un
ritorno in islitta. Ma il mio volere era ormai dimezzato; io non
poteva più vivere a capriccio. Quando tentai di far capire questo a
Silesia, ella di nuovo deve aver pensato che se avessi sposata lei,
avrei potuto viaggiare in islitta otto mesi all'anno.
Un ultimo incidente segnò la vigilia della partenza. Avevo
raccomandato a Silesia che provvedesse a prepararci le bagaglie, e
tornando da un'escursione d'addio, trovai invece le due cameriere
dell'albergo, che si limitavano ad aiutar Lidia, la quale faceva i
bauli da sè.
Chiamai questa nella mia camera, e la pregai di lasciar fare ai
domestici.
--Come!--esclamò Lidia stupita.--Non vuoi ch'io sorvegli?
--Sorvegliare sta bene,--risposi.--Ma tu eri inginocchiata ad
accomodare le robe nel baule.
--Bisogna fare così con costoro che non capiscono niente!--Lidia
concluse, e tornò alla sua camera e riprese ad accomodar la roba.
Io mi morsi le labbra. Fra tutte le cose meno tollerabili per me, la
buona massaja, questa creazione della società borghese, questa
tiratrice di colli d'oca, era la più urtante.
Avevo della donna un concetto quasi orientale, in cui m'ero conservato
con tenacità; rivedevo sempre mia madre, finissima signora, le cui
sole mani innamoravano, e rivedevo tutte le donne di mia conoscenza,
anche le men belle, allevate per gli agi e per occupazioni
aristocratiche. La concordanza di tali fatti, la vita errabonda che
avevo condotta con mio padre, avevano generato in me l'assurda
opinione che la donna fosse un oggetto prezioso, degno di prezioso
contorno; una specie di regina di delizie. Ed io voleva la donna così,
io poteva averla così; nè m'ero sognato mai di considerar la sorte di
quelle che così non erano e non potevano essere.
Lidia, bianca, bionda, leggiadra,--giocattolo inestimabile--doveva
farsi una di queste signore inutili, uno di questi fiori esili e
delicati il cui apparire è pien di regalità, come lo sboccio è
luminoso d'iridescenze.
Buona massaja no! Io mi sarei opposto con ogni mezzo.
Lasciammo l'albergo sul far del giorno, mentre piovigginava,
nell'incertezza d'un'alba fredda; e l'indomani eravamo alla Villa
Folengo, tra Pallanza ed Intra, sul Lago Maggiore.
Io sentiva che avevam bisogno degli altri e che la solitudine a due
aveva rischiato di sgretolar con lenta marcia un grande edificio
d'amore. La società, gl'indifferenti, i curiosi, gli amici, le
esteriorità che avevam dimenticate durante il soggiorno nei Graubünden
e che eran così soavi ad abbandonare in quei tempi, ci tornavan
graditi ora, ci scuotevano salutarmente.
Lidia, in ispecie, mandava ogni poco dei trilli di gioia, e si buttava
fra le braccia di sua madre. Donna Teresa, superato un certo impaccio
nel darmi del tu, era commossa della felicità che avevo portata in
casa sua, e il signor Pietro Folengo trovava il nostro matrimonio
bello e prezioso quanto una partita doppia scritta senza errori in
eleganti calligrafie.
Per una festa data da Ettore Caccianimico nella propria villa a
Pallanza, ebbi occasione di ritrovar parecchie conoscenze; Ettore
Caccianimico, innanzi tutto, l'interessante uomo la cui vita contava
per due, così era stata violenta di passione, ricca d'avventure e
febbrile; a lui mi legava grandissima amicizia, nonostante la
disparità ragguardevole d'anni. Portava lunghi i capelli bianchi e
vestiva con eleganza; avendo vissuto in quasi tutte le capitali
d'Europa, conosceva la storia di molte genti e ne inventava di molte
altre. Non aveva trovato il tempo di far la solita evoluzione senile
verso gli scrupoli religiosi.
--Amo i divertimenti onesti, la compagnia dei giovani ed i ricordi dei
vecchi,--diceva.--Quando sarò di peso, mi farò saltar le cervella.--
Sua moglie, Clara Caccianimico, la quale in trent'anni di matrimonio
non s'era visto vicino Ettore per più di quattro mesi di séguito, era
una donna alta, robusta, rossa in viso, cordiale. Non appena ci vide
entrare, s'impadronì di Lidia, l'abbracciò, le presentò una ventina di
cavalieri caricandole il taccuino di tanti nomi, ch'io a stenti
riuscii a fissare un giro di valzer con lei.
Appoggiato alla porta che metteva dalla prima alla seconda sala,
Ettore Caccianimico mi stava al fianco enumerandomi le qualità dei
convenuti. Io da lontano osservava Lidia, che pareva difendersi assai
bene e rintuzzar con prontezza i complimenti dei sùbiti corteggiatori.
Ella era un po' accesa in volto, e i suoi occhi fosforici ogni tanto
mi cercavano, venivano a salutarmi, sfuggivano. Per l'abito lilla che
indossava, avevo lasciato fare a lei e a donna Teresa; ma ora mi
sembrava oltremodo scollato, e quel movimento del seno alternato ad
ogni respiro, quel giro di perle attorno al collo, quei fiori nei
capelli, che io aveva tanto ammirati in casa, mi davan fastidio come
troppo procaci.
Quanto a Lidia,--quand'ella appariva dalla porta, di fronte a quella
ov'io era con Ettore,--studiava il movimento delle mie labbra per
intuire quel che dicessi; e non appena avevo qualche signora al
braccio e mi disponevo a ballare, la distrazione di Lidia arrivava al
punto che il cavaliere di lei parlava, interrogava, senz'ottener mai
risposta.
A quella festa, la presenza di Giorgio Uglio mi stupì non poco.
Bell'uomo, Giorgio Uglio, dalle membra flessibili per assidui esercizî
di scherma; un po' vano, così da meritarsi il soprannome di
_uomo-camelia_ che il Caccianimico gli aveva dato a indicar la sua
fatua eleganza.
Quand'io era partito con Lidia per la Svizzera, a Milano si parlava
molto della riconciliazione di Giorgio con sua moglie Laura; non già
perchè il perdonare alla più volte adultera fosse cosa inaudita, ma
perchè la pace in casa Uglio s'era ristabilita con sì stretti nodi,
che Giorgio e Laura parevano innamorati novelli e avevan trovato nel
museo dei loro affetti una fioritura di tenerezze sbalorditoie, una
passione d'anime disgiunte che si riuniscono a dispetto del destino.
Mentre chiedevo al Caccianimico perchè Giorgio fosse solo, Giorgio
stesso mi venne incontro a mani aperte.
--Caro, caro!--egli esclamò.--Così presto tornato? La tua signora è
maravigliosa d'eleganza e di bellezza. Contate di ripartire? Un giro
per l'Italia, m'hanno detto.... Laura è nell'alta Engadina coi
parenti; soffre molto, lontana; sarà qui a giorni e spero ti
tratterrai per salutarla. Ella sarà felice di riveder la tua signora
che le era così simpatica da fanciulla....--
Ettore Caccianimico,--nell'angolo d'osservazione cui ricorreva durante
gl'intermezzi,--sorrideva malignamente. Quando Giorgio si fu
allontanato, domandai conto ad Ettore di quel sorriso.
--Che cosa vuoi?--rispose.--Fa bene veder tanta intimità fra vecchi
amici.--
E aggiunse:
--Hai sentito? Laura soffre molto, lontana. Lontana da chi? Lontana da
lui, si capisce. Dio mel perdoni, l'idea è comica.--
A me, nell'animo, s'era piantata un'angoscia indicibile per le parole
di Giorgio Uglio. Nella solitudine dalla quale uscivo, m'ero
dimenticato affatto che un giorno avrei dovuto incontrarmi con persone
che desideravo evitare; la scelta mi sembrava facile, e non ricordavo
quanto la libertà di azione fosse circoscritta nel mondo, sottoposta a
compromessi di peso granitico. Avevo una ragione chiara, plausibile,
per non ammettere Laura Uglio in casa mia? Ella era accolta dovunque,
poichè il marito perdonava e ne magnificava le virtù; non avevo
speranza che nel tatto di Laura, la quale avrebbe forse compreso
ch'era di cattivo gusto una sua visita a Lidia.
--Donna sul far della sera!--mi susurrò il Caccianimico, mentre
passava Angela Tintaro al braccio d'una giovanetta bruna.--Piacevole,
però. Non è piacevole? Ti sfido a scoprirle un amante.--
Anche Angela Tintaro! Questa no; questa, poi, in casa mia, non avrebbe
messo piede. Ella si dirigeva ora verso di me, sola.
--C'è la sua signora, qui, non è vero?--domandò offrendomi la
mano.--L'ho vista. Quanto è carina! Di un'eleganza tutta francese:
molto giovane, molto bella!---
--La conosceva già?--disse il Caccianimico.
--Non avevo e non ho quest'onore,--rispose Angela Tintaro.--Stavo
appunto chiedendo al signor Lacava....--
Ma prima di lasciarle terminar la frase, Ettore Caccianimico le prese
il braccio e se la portò via, esclamando:
--Come, non l'hanno presentata? Ma che cosa fa dunque mia moglie?--
Quando l'orchestra attaccò il valzer, raggiunsi Lidia, che l'aveva
fissato con me. Dalla stretta istintiva del suo braccio, dal sorriso
risplendente con cui la donna mi accolse, indovinai ch'ella pure
soffriva, soffocava fra la folla.
--Andiamo via, dopo,--ella pregò sottovoce.
--Sì, sì,--risposi.--Sono stanco. Ti hanno presentata Angela Tintaro?
--Un momento fa. È stata molto gentile; piena di cortesie.
--Lo so,--mormorai inavvertitamente.
--Come lo sai?
--Volevo dire ch'è naturale,--corressi.
--Mi ha invitato a renderle visita, all'Hôtel Pallanza. Ci andremo?
--Ti dirò poi,--risposi.
Al cominciar del valzer, vidi che tutti gli occhi erano su di noi,
ed ebbi una tremenda e voluttuosa soddisfazione di vanità. Quegli
uomini che seguivan dello sguardo le movenze agili di Lidia e
aspettavano l'aria mossa dal suo abito quasi come cosa sua; quelle
donne che l'odiavan già dell'odio più femminile; quell'Angela
Tintaro che aveva preso posto in un divano per goder tutta la
visione di Lidia,--sapevano, dal primo all'ultimo, ch'io solo poteva
amarla, ch'ella era per me solo. Le loro diverse sofferenze
formavano il più bello perchè il più volontario degli omaggi alla
nostra felicità. Anch'io in altri tempi avevo sopportate per altre
donne simili torture; il contrappasso era perfetto. Poco importava
se qualche imbecille facesse dei disegni di conquista; ciò non
guastava nulla.
Amavo Lidia in quell'istante come non l'avevo forse amata neppure il
primo giorno della nostra unione; io la teneva fra le mia braccia,
sotto quegli occhi invidi e desiderosi; il profumo di gardenia saliva
dal suo busto, si diffondeva da' suoi capelli ad inebbriarmi, come
l'onda musicale che avrei voluto sempre accompagnasse la mia donna.
--Il signor Uglio ha detto che Laura desidera salutarmi,--Lidia
riprese, mentre, lasciato il posto alle coppie seguenti, ci
attardavamo a far coda.
--L'ha detto anche a me,--risposi.--Ti piace Laura?
--Dev'esser finta.
--Aspetteremo che venga lei a visitarci.--
Quando il valzer finì, Lidia declinò tutti gl'inviti pei balli
successivi, e appena fu possibile, ci congedammo.
Angela Tintaro, Giorgio Uglio, Clara Caccianimico, parecchi altri
sopraggiunsero, e in un attimo fu una ressa d'inviti a visite, di
cortesie d'una noiosità sorprendente.
Ettore Caccianimico mi strinse la mano, gridando:
--Non è permesso, non è permesso andar via a quest'ora!--
E a bassa voce mi aggiunse:
--Sta bene attento: voi vi amate troppo in fretta!--


VI.

Avveniva in me da qualche tempo un fenomeno eminentemente nuovo.
Avveniva che dopo i maggiori trasporti d'affetto, dopo le ore più
confidenziali, io vedessi a un tratto in Lidia un'estranea, una donna
messasi al mio fianco io non sapeva perchè.
Mai simile fatto erasi avverato con altre donne, destinate a passar
velocemente; ma con Lidia sì, poichè ella doveva essere per legge e
per diritto non altro che una ripetizione del mio animo, e quasi il
sangue mio doveva trasfondersele, ed ella rappresentava la famiglia,
il legame alla vita, il perchè della vita.
Ora, io mi chiedeva:
--«Può ella diventar tutto questo? Chi è Lidia Folengo? In qual modo
ho io creduto che fossero in lei tali affinità da permetterle questa
mutazione di sentimenti?»--
Io, ripeto, vedeva in Lidia un'estranea; ma non con amarezza, bensì
con maraviglia profonda.
Era come se in una corrente d'aria caldissima, d'improvviso
precipitasse una folata diaccia di nevischio, rapida così che appena
avvertita finiva, per dar di nuovo il posto all'aria calda. Avevo
degli stupori mentali, in cui mi trattenevo a forza dal gridare alla
donna:
--«Chi sei, chi sei? Come hai sperato di farti un altro io? Puoi
rinunciare alle tue idee, alla tua educazione, alla tua anima per
accogliere la mia? Sai tu dove io ti conduco? Mi conosci tu bene? No,
no, non affermarlo, perchè io stesso non l'oserei!»--
Ed uscivo da quelle visioni fulminee più innamorato che avanti, e
stringevo Lidia al mio petto con tenerezza infinita. Povera bimba!
Ella non sapeva nulla; le avevano offerto di sposarmi e mi aveva
sposato senza darsi conto di ciò che fosse il matrimonio; non aveva io
fatto altrettanto, seguendo l'impulso del cuore?
Nè lei nè io somigliavamo a suo padre e a sua madre, nati in altri
tempi, vissuti fra altre genti, cresciuti senz'audacia di discussione.
Lidia ed io eravamo giovani, fra un consorzio deturpato dalla civiltà;
io, decisamente moderno; lei, ancora involuta, ma pronta ad accogliere
il soffio turbolento, irrisorio, demolitore, dell'età nostra.
Sotto l'influsso di tali pensieri, io mi alzava qualche volta a piena
notte, e mi recavo nella camera di Lidia.
L'oscurità vi era piena, e mi dirigevo, guidato dall'abitudine, fino
al letto della donna, ascoltandone il respiro isocrono, sfiorandone le
mani, la braccia, i capelli, dicendomi mentalmente:
--«Chi dorme qui? Chi è venuto qui?»--

E se mi rispondevo:
--«Colei che è tua per sempre, colei alla quale sei per sempre
legato,»--
io sorrideva, crollava la testa quasi non comprendendo.
Non dovevo aver più segreti? il mio cuore doveva essere aperto agli
occhi di Lidia? Ma come, ma perchè, ma era ciò naturale? Invece di
creder la mia personalità duplicata compenetrando anche quella della
donna, io la sentiva rimpicciolita e meschina.
Il posto che Lidia prendeva nella mia vita mi pareva enorme,
grottescamente sproporzionato a quello che io prendeva nella sua. Per
lei, per un suo tradimento, io doveva dare il sangue, o fare uno
scandalo e coprirmi di ridicolo; per me, per un tradimento mio, ella
veniva ad acquistar l'aureola d'una vittima e ad aumentar la simpatia
della quale godeva. Ella era la donna, la classica debole, cui tutto è
perdonato, di cui si esagerano la bellezza, lo spirito, l'eleganza, la
grazia.... S'io avessi osato annoiarmi al suo fianco sarei stato un
barbaro, un ottuso, un triviale.... Ma io non osava, perchè i
pregiudizi avevano effetto su' miei impulsi.
Non potevo procedere in quest'analisi irritante; correvo da Lidia, la
facevo parlare, la volevo l'intero giorno vicina; non era noiosa, no;
non era esagerata la fama della sua bellezza e della sua grazia. Io
m'era irritato pel principio, evidentemente, non pel mio caso
speciale. E, alla scoperta, baciavo Lidia lungamente e andavo con lei
in barca, la sera, remando io, sotto il pulviscolo lunare, ch'era
tutta una retorica.
Una notte ch'ero penetrato nella camera di Lidia, questa si svegliò,
mi prese le mani dicendo:
--Sei tu, lì? Che fai?
--E tu, chi sei?
--Io? Io sono la tua bimba, la tua bimba piccola!--ella rispose colla
voce assonnata.
Le passai una mano sul viso; ella aveva gli occhi serrati e teneva le
labbra raccolte per ricevere un bacio. Nell'oscurità me la figurai
così graziosa, vinta dal sonno e tuttavia offrendosi per istinto
affettuoso, ch'io sentii svanire d'un colpo le mie crudeli discussioni
d'indole generale.
Ma me ne riprendeva bene la necessità, quand'eravamo tutti riuniti,
donna Teresa, Pietro, Lidia ed io, pel pranzo o per qualunque altro
motivo.
La villa Folengo era quanto di più inestetico avessi mai visto, con
un'architettura che non si poteva incolpare ad alcuno stile antico o
moderno; e nel villino, il salotto di riunione era il capolavoro di
quell'assenza di gusto. Già le cose m'urtavan di per se stesse; già io
comprendeva di non poter trovarmi ad agio in una casa dove si voleva
far del lusso senza spendere quanto è necessario per essere almeno
convenienti. Le persone, poi, compievano quell'impressione disgustosa
e non riconoscevo loro alcun diritto alla mia reverenza.
Pietro Folengo era un imbecille, nonostante i suoi favoriti bianchi da
diplomatico. Un'assoluta mancanza di critica lo costringeva alla
pecorina devozione alle critiche già fatte; un'incurabile povertà
d'iniziativa gl'impediva d'agir diversamente da come s'è agito sempre;
un cieco rispetto per le tradizioni, per tutto quanto è costituito e
nei termini legali, per ogni titolo accademico, per ogni apparenza, lo
sommetteva alla massa, della quale abbracciava immediatamente il
giudizio e applaudiva al gusto. Se si fosse occupato di politica, non
avrebbe mai osato rovesciare un Ministero; se si fosse occupato
d'arte, non avrebbe riconosciuto mai dell'ingegno a chi non avesse
seguìti e finiti gli studi prescritti; entrato nel commercio, lo
continuava nelle proporzioni in cui l'aveva intrapreso. Sempre, e in
ogni caso, la fortuna gli era stata propizia. Per altro, non gli si
poteva far colpa se la natura non gli aveva largita una mente
d'aquila, e se l'educazione di casa aveva cooperato a foggiargliene
una da gallina; bensì, era d'uopo tener conto della sua onestà in
tempi così difficili, e dell'eccezionale avventurosità che aveva
presieduto ad ogni speculazione di lui anche alle più strane. Egli non
era nè ingenuo, nè furbo; evitava con somma cura le idee isolate, per
accogliere quelle col battesimo della popolarità; fra l'aforisma d'un
uomo intelligente e un proverbio vecchio, s'atteneva a quest'ultimo,
senz'esitare.
Donna Teresa non era ammiratrice del marito se non in quanto l'esito
era sempre favorevole a lui e pareva dargli ragione; ma ella ammetteva
che in teoria il signor Folengo s'era arrestato a cinquant'anni
addietro. Donna Teresa non aveva alcun difetto capitale; trasmodava
spesso e volentieri nel raccontare un fatto, gonfiandolo sensibilmente
e svisandolo fino a dar forma tragica al caso più insignificante.
Troppo facile ad accettar le opinioni altrui, da qualunque parte
venissero, si contraddiceva con imperturbabilità olimpica, e parlava
d'ogni cosa, ora con vedute audaci, ora con frasi fatte.
Ciò produceva un vaniloquio intollerabile, del quale andavo ogni
giorno meglio sentendo la tortura; e cominciava a crescermi in cuore
uno sdegno irragionevole contro donna Teresa, che obbligava Lidia a
descriverle il nostro viaggio, minutamente, a renderle conto dei
camosci e degli scoiattoli incontrati nelle nostre escursioni, per poi
raccontar tutto questo ai visitatori e agli amici di casa.
--Figuratevi,--diceva ella un giorno ai Caccianimico,--figuratevi che
mia figlia ha trovato a Splügen un centinaio di camosci, che le son
corsi incontro....
--Perdòno,--io interruppi, seccato;--i camosci erano tre e invece di
correrci incontro, son fuggiti con molta naturalezza.--
Per questo semplice incidente, donna Teresa mi tenne il broncio un
giorno intero, durante il quale compresi d'aver mancato e di non poter
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