Il Designato: Romanzo - 08

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me e lei come il suo sarcasmo, trovai miglior partito rispondere a
Gian Luigi:
--Un'idea curiosa e originale, davvero! Di buone intenzioni è
lastricato l'inferno! Certo, se ne può fare un poema d'angoscia o un
capolavoro di satira....
--È l'una e l'altra cosa,--disse freddamente Lidia, colla tranquillità
delle donne che non han mai capito nulla.
Gian Luigi fece un gesto, sorridendo, quasi a declinar l'elogio
smisurato.
--Mi son guardato intorno, ho cercato di dire la verità; ed ecco
tutto!--egli concluse modestamente.
--Ed ora, sta preparando qualche cosa di nuovo?--domandò la bruna,
seduta presso il caminetto.
--No: sono piombato nell'ozio più vergognoso,--disse Gian Luigi
volgendosi verso di lei.
Non so come, respirai di piacere. Gian Luigi oziava; ciò me lo rendeva
simpatico.
--È stato a Sestri, non è vero?--chiese Lidia.--Me lo annunciò Sergio.
--Sì, signora. A Sestri, al ritorno da Saint-Moritz.--
M'ero allontanato alcun poco, andando a sedermi presso una signora, i
cui occhi neri e umidi pareva dicessero agli uomini: «Sì, fratello: io
seguo il mio triste destino d'appassionata». E di quegli occhi, di cui
credevo aver tradotta finalmente l'espressione, io studiava i
possibili sogni e le veemenze, lasciando che nell'angolo, ov'era
Lidia, continuasse il discorso d'ammirazione e di vanità.
Poi, lentamente, i visitatori presero commiato, e come l'ombra serale
precipitava, restai nel salotto, vedendo ancora davanti al caminetto
la bruna dal sorriso consolatore, e l'altra dagli occhi mesti.
Quella sera, a pranzo non avevamo che mio suocero, Pietro Folengo.
Donna Teresa era rimasta a casa, un po' indisposta. E un penoso
silenzio regnò fra noi tre, quantunque io fossi pronto a seguir Pietro
in tutte le idee vecchie di cui volesse farsi il profeta.
Lidia, sulla tovaglia disegnava dei geroglifici col manico della
forchetta; assaggiava appena le vivande ch'ella medesima aveva voluto
le prescrivesse il medico, perchè ormai l'anemia e la malaria
dominavan la sua vita; e benchè io l'avessi più volte interrogata, non
aveva spinto il discorso oltre la forma monosillabica. Stringeva le
labbra, di tanto in tanto; sintomo di malcontento represso.
--Vediamo, figli miei,--disse Pietro a un tratto, guardando Lidia e
me.--Che cos'avviene?
--Niente!--dissi io.
--Niente!--disse Lidia.
--Come, niente!--esclamò Pietro con la sua logica di ferro.--Niente
produce niente. Ora niente non può essere la causa, se un broncio è
l'effetto!
--Un broncio? Ma non siamo stati mai di migliore accordo!--io risposi.
--Mai, proprio mai!--confermò Lidia, terminando con attenzione la
curva d'un geroglifico.
Pietro s'accarezzò i favoriti, come quando stava per dire qualche
bella cosa.
--Trovate il modo d'intendervi su questi _niente_ così
disastrosi,--egli consigliò.--A' miei tempi non s'usavano!--
Quindi passò a raccontar di nuove instanze che la Casa commerciale di
Cairo gli faceva, obbligandolo a prendere una decisione.
--Quando entreresti in carica?--domandò Lidia.
--Fino al prossimo anno non se ne parla, rispose Pietro,--ma capisci
--che una volta data una promessa, il tempo non conta, e un uomo serio
--deve mantener la parola.--
Io non feci alcuna osservazione, credendo aver bastantemente criticato
quel disegno assurdo di lasciar l'Italia e di correr venture a
cinquantasei anni, pel solo ùzzolo della novità; anche Lidia tacque.
Nell'appressarmi alla finestra, levate le mense e restando Pietro e
Lidia innanzi alla tavola,--lo spettacolo della sera, già assai dolce
e limpida, m'istigò un vivo desiderio d'uscire e veder gente.
Le carrozze passavan numerose, coi lucidi fanali proiettanti,
nell'amplissima via; correvano a trasportar uomini e donne al piacere
e alla soddisfazione di mille vanità, cui avevo imparato a irridere
senz'esser convinto del loro nulla. Mi scoprivo d'un tratto ancor
troppo giovane per rinunciarvi e, in fondo, l'innocenza di quei
godimenti mondani, creati per vedere un poco e per esser molto
veduti,--mi sembrava il loro più bello elogio; non s'era mai sentito
dire che, all'uscir da una festa o da un teatro, le signore avessero
abbandonato il marito per cader fra le braccia degli ammiratori;
bensì, ai teatri e alle feste, si tessevano le fila prime degli
inganni: ma se le feste e i teatri non fossero stati, gl'inganni non
si sarebbero tessuti egualmente? L'indole è tutto.
Una sola occhiata a Lidia mi persuase che avrei parlato indarno.
Ella andava irrigidendosi ogni giorno più nella risoluzione di
sfuggire il mondo; e come il passato carnevale s'era sottratta agli
inviti, ora si sottraeva a qualunque proposta di svago. Varie amiche
l'avevan pregata di prender parte a delle gite; la campagna nei
dintorni di Milano, che lasciava il suo manto invernale per
ricolorirsi a poco a poco, era deliziosa, e allettava a farvi delle
escursioni; ma Lidia aveva da qualche tempo assunto per divisa il
motto: questo m'è indifferente,--ch'ella ripeteva a frustrar
qualunque insistenza.
Non partecipai, dunque, la mia idea a Lidia, acconciandomi a subire la
conversazione di Pietro. Egli difendeva il Ministero; dacchè io lo
conosceva, Pietro non aveva fatto di meglio, ne' suoi discorsi di
politica; taceva solo fra una crisi parlamentare e l'altra; quando il
Ministero era costituito, se ne estasiava, ripetendo le considerazioni
dei giornali officiosi, quantunque pochi giorni avanti si fosse
estasiato d'un Ministero affatto opposto. Ma Pietro Folengo era
ministeriale per costituzione psicologica e avversarlo sarebbe stato
come fargli un salasso.
Alle undici se ne andò; sùbito, Lidia mi disse:
--Vado a letto; mi sento poco bene.--
Si levò dalla sedia con apparente fatica, e finse trascinarsi fino
alla soglia della sua camera. Qui, si rivolse e appoggiò una mano alla
fessura della finestra, ch'era nell'angolo.
--Queste serramenta,--disse,--non potrebbero essere più cattive.
Soffiano aria da ogni dove.--
Tossì, portandosi il fazzoletto alla bocca, e uscì con andatura
stanca.
Le parole eran quelle; ma il loro significato particolare m'era
sufficientemente noto per non prendere abbaglio; senza muovermi dalla
mia sedia, io sapeva che le serramenta funzionavan benissimo e che
l'aria non vi soffiava punto, e che Lidia non era affaticata nè
indisposta. Ogni sera, le parole mutavano, ma rimaneva il loro
significato di preghiera; Lidia non voleva essere disturbata; la sua
alcova era chiusa per me.
Da parecchio, ella non desiderava più il mio amore; ma era obbligata
ad aspettare che io desiderassi il suo; leggiera prostituzione,
inevitabile in tutte le buone famiglie amiche della quiete, nelle
quali la donna si concede fredda per adempiere a' suoi doveri e non
obbligare l'uomo a cercarsi una femmina altrove.
Lidia non mi conosceva così da indovinare che tale sommissione mi
faceva somigliar la donna a una specie di medicinale vivente, di cui
si prendon quelle dosi notturne che riescano a calmare i nervi; e non
conoscendomi, l'ora di ritrarsi nella sua camera sembrava penosissima
a Lidia; non si coricava più per riposare, ma perchè si sentiva poco
bene; evitava d'incontrare i miei sguardi per timore di leggervi una
domanda; talvolta faceva la storia delle sue indisposizioni; non si
decideva a muoversi se non ben certa ch'io era compreso di tanti
malanni.
Le nostre abitudini erano invariabili; io non mi coricava alla mia
volta o non usciva di casa, prima d'esser passato nella camera di
Lidia a salutarla.
Vi trovai, quella sera, ancora Geltrude occupata a riporre le vesti.
Io m'avvicinai al letto, dove Lidia stava col busto appoggiato ai
guanciali e i capelli sciolti per le spalle; un bel quadro, senza
dubbio, ricco di luce e d'ombra.
Geltrude augurò la buona notte ed uscì. L'astuta cameriera, un tipo
segaligno di giovane trentenne,--conoscendo, i nostri usi dei migliori
tempi, aveva spinto vicino al letto una poltrona, in cui mi sedevo
abitualmente a chiacchierare con Lidia. Allontanai la poltrona,
osservando che sul tavolino da notte stava un romanzo francese, pel
quale Lidia non si sentiva poco bene.
--Vuoi leggere?--domandai, accennando il volume.
--Ah no, mio Dio!--esclamò Lidia.--Mi farebbe male alla testa.
--Buona notte.
--Buona notte.--
Allungò la mano, che strinsi freddamente, e tossì di nuovo.
Quell'esagerazione ostentatrice, mi diede una rabbia improvvisa.
--È inutile,--dissi,--tutto questo apparato. Lo so.
--Che cosa?--fece Lidia, volgendomi la testa in piena luce.--Che cosa
sai?--
Mi strinsi nelle spalle, incamminandomi verso l'uscio.
--Favorisci un istante,--ripetè Lidia.--Che cosa sai?
--Il significato di queste malattie d'imaginazione,--risposi, nel
mentre mi fermavo e mi rivolgevo.
--Malattie d'imaginazione! L'anemia.... la malaria?...
--No; la freddezza, la stanchezza, la ripulsione. E dico
ingiustamente: _malattie_; perchè questi sentimenti sono
naturalissimi, d'una fisiologia irreprensibile....
--Ah ecco! La solita. Noi siamo malate, e loro pretendono una salute
di ferro, un'invariabile disposizione a subire i loro capricci!
--È strano,--dissi,--come tu abbia già appresa la logica delle signore
maritate, e il giro del periodo _ad hoc. Noi; loro; i signori uomini;
se facessimo noi altrettanto_; frasi di prammatica.
--È vero o no,--rispose Lidia,--che tu mi vorresti come nei primi
tempi?
--Come nei primi tempi!--esclamai, preso dalla nostalgia.--Se ciò
fosse possibile....
--Ma ciò non è possibile, amico mio,--finì Lidia.--Perchè io ora sono
malata.--
M'appressai di nuovo al letto, strinsi la mano di Lidia e la baciai;
poscia uscii, mentre Lidia, dimenticando il mal di testa paventato, si
disponeva a leggere tranquillamente il romanzo francese.
Ettore Caccianimico aveva previsto tutto ciò da un pezzo.
Noi ci eravamo amati troppo in fretta.


XI.

Già nella parvenza fisica, Ettore Caccianimico stupiva, perchè i suoi
cinquant'anni erano attestati non da altro se non dalla canizie e
avevan sorvolato alla sua struttura magra, rigida, soldatesca. Sul
viso sbarbato rimaneva l'impronta d'una volontà decisa; gli occhi, di
colore indefinibile, tra il grigio e l'azzurro, potevan turbare con la
fissità dello sguardo. Se la forza di volere s'indovina dal naso
forte, da labbra sottili, dal mento angoloso,--certo il profilo
d'Ettore Caccianimico era l'espressione della massima imperiosità di
cui è capace animo d'uomo.
E lo scherzo della natura stava in questo; che tutti quei segni
mentivano; che l'uomo di bellezza così maschia da farlo supporre uno
sfidator di tempeste, era un ingenuo.
E ancora, perchè meglio sfuggisse a una definizione * esatta, non era
ingenuo se non a intervalli, alternando pensieri ed azioni da
fanciullo a imprese da tenace esperto; ora in preda a entusiasmi
ingiustificati, ora scorato per un ostacolo illusorio; ora senza
scrupoli, ora accasciato da rimorsi ingiusti.... Qualche volta lo si
poteva credere uomo da calpestar tutto per giungere anche a un
capriccio; qualche volta, un imbelle che si spaventa d'una parola.
Onde, la sua vita era in preda ai mille fattori che costituivano il
suo carattere; e la definizione più vera d'Ettore Caccianimico poteva
limitarsi a considerarlo uomo senza linea di condotta e fors'anco
senza mai un perchè d'azione. In questo senso, egli era cieco; si
buttava a un'impresa o ne rifuggiva con terrore, egualmente; e se
avesse dovuto spiegar la sua esistenza, avrebbe scoperto che quei
motivi i quali l'avevano annientato in una vicenda, erano i medesimi
che in altra vicenda eguale l'avevano infiammato di volontà.
Così, era stato ufficiale di cavalleria, poi commerciante audace, poi
ricco e instancabile cosmopolita, zerando oggi l'opera d'ieri; marito
per caso; amico dubbio; non convinto di nulla, nemmeno dei propri
diritti; intollerante di doveri certi e scrupoloso per doveri
fantastici.
Benchè già fossero valicate le tre del pomeriggio quando passai la
soglia di casa Caccianimico, trovai Ettore in veste da camera.
Lo studio, dalla tettoia vetrata, era illuminato di luce diurna; non
troppo ampio, d'esatte dimensioni, con due finestre prospicienti la
strada; a fianco dell'una stavan la scrivania e le poltrone di pelle a
borchie d'ottone, e innanzi all'altra una giardiniera con alcuni vasi
di fiori dai freschi sbocci. La parete cui s'appoggiava la poltrona
della scrivania era coperta fino a metà altezza da una cornice
rettangolare contenente schizzi d'autore, piccoli paesaggi, teste a
tempera; e immediatamente sotto la cornice, un divano di seta color
giallo scuro, con avanti un tavolino ingombro di barattoli e di volumi
rilegati. Addossati alla parete di contro, la libreria e uno
scaffaletto; poi, senz'ordine voluto, qua e là, diverse poltrone,
della medesima stoffa e del medesimo color del divano.
Un odore forte di sigaretta aleggiava per la camera e si mischiava a
un altro profumo, più sottile, meno dominante, come riposto e ad ora
ad ora agitato dai nostri movimenti.
Era un profumo non ignoto alle mie nari, ma snaturato alcun poco dal
luogo; cosicchè m'arrestai sulla soglia, fiutando e fissando Ettore,
che sedeva innanzi alla scrivania, colla testa appoggiata alle mani.
--Addio,--egli disse, guardandomi dall'alto in basso, con un'occhiata
ch'io sapeva caratteristica delle più negre ore dell'uomo.
--Odore di violetta, d'eliotropio, d'avventura proibita!--risposi,
inoltrandomi e stringendo la mano del Caccianimico.
--Ah sì!--egli fece con aria annoiata.--Laura Uglio è venuta a trovar
mia moglie ed è passata di qui a salutarmi. Dovreste esservi
incontrati sulle scale.
--No,--dissi.
--Siediti. Laura Uglio non viene in casa tua?
--No.
--Per che cosa? Perchè c'è stato fra te e lei?... che
sciocchezze!--esclamò Ettore, stirandosi e sorridendo d'un pessimo
sorriso.--Acqua passata non macina più. Vien pure in casa dei tuoi
suoceri, Laura.
--Appunto. Ed è per questo, anzi....
--Sì, sì, capisco,--osservò Ettore, alzandosi con un movimento
rapido.--Tu sei ai primordî, e si fanno sempre di questi progetti sui
primordî. Si redige l'elenco di quanti entreranno in casa e di quanti
ne staranno fuori. Poi, tutto ciò passa, come un soffio....--
Cacciate le mani nelle tasche, Ettore s'avvicinò al quadro dei
disegni, osservandoli attentamente, come li vedesse per la prima
volta; non sembrava parlare che per sè, quasi senza guardarmi.
--Tutto questo non passerà,--dissi con intonazione ferma.
--E Angela Tintaro?--domandò Ettore d'improvviso, abbassando lo
sguardo su di me.
Io mi morsi le labbra. Angela Tintaro veniva in casa mia da qualche
tempo e Lidia le rendeva le visite; un piccolo incidente, una semplice
seccatura, causata dalla mia indolenza. M'era parso che le accuse
contro Angela Tintaro non fossero così provate da poterle sostenere e
da impedire a Lidia quella relazione.
--Una cosa ben diversa,--osservai.
--La medesima cosa, l'identica!--ribattè il Caccianimico.--È tanto
certo che la Uglio tradisce suo marito, quanto che la Tintaro seduce
le donne. Fra l'un vizio e l'altro, fra le due corrotte, non so come
tu possa fare un'eccezione per la seconda....--
Durante la breve pausa che seguì, mi domandai involontariamente se
Ettore avesse il diritto di parlarmi in tal modo. Ero rimasto, seduto
sul divano, attonito per il curioso indirizzo che la conversazione
aveva preso, e alla domanda appena concretata in mente mi vedevo
costretto a rispondere che Ettore poteva con arditezza giudicare e
criticare quanto avveniva in casa mia.
Solo volgendo il pensiero ad alcuni anni prima, la figura di Ettore
m'appariva assai più simpatica di quel che non fosse al presente.
L'uomo aveva forse avuto un'unica vera amicizia per me, un'unica
devozione per mio padre; più d'un viaggio in Italia e fuori era stato
fatto con lui; più d'un consiglio opportuno m'era stato dato da lui in
varî casi, e se io non aveva corriposto con pari affezione, ciò era
avvenuto pel leggiero disgusto che io provava nel vedere un uomo così
saggio per gli altri, così incoerente e lato di coscienza con sè
medesimo.
--Tu, dunque, mi consiglieresti di ricevere anche Laura
Uglio?--ripresi.
--Ma sicuro, ma indubbiamente,--egli rispose con una risata che non mi
piacque.--Non la riceviamo noi? Non la ricevono tutti? Vediamo: quante
persone veramente oneste possono entrare in una casa? Dieci, non di
più. E ogni casa ne riceve cento. Del resto, questa vecchia utopia del
considerar disonesta una donna perchè non si ferma al primo uomo,
dovrebbe far ridere oramai gli spiriti aperti e intelligenti.--
Andò allo scaffaletto in mogano, ne tolse una bottiglia e versandone
il liquore in piccoli bicchieri, me l'offerse.
--Mi pare,--dissi, riponendo il bicchiere sulla sottocoppa,--che tu
non abbia un umore eccellente.
--Pessimo,--rispose Ettore.--Sto per commettere una cattiva azione.
--Ci sei obbligato?
--Non avrei la forza d'evitarla. Sarà l'ultima.--
Pronunciò queste parole con amarezza, quasi l'idea di non avere a
commettere cattive azioni in séguito, gli dolesse infinitamente. Come
io sorrideva per la frase e pel modo con cui era stata pronunciata,
Ettore soggiunse:
--Tu puoi ben ridere.... Non sei felice? Non hai trovata la donna
unica per bellezza, per amore, per onestà? Non v'accordate nelle cose
più insignificanti?--
Ripetè, guardandomi fisso:
--Non sei felice?
--Senza dubbio,--risposi.
E notai che mentre formulavo tale affermativa, Ettore, ancora in
piedi, s'inclinò leggiermente dal mio lato, come per meglio afferrare
il tono di sincerità con cui accompagnavo le parole. Poi si ritrasse,
occupando nuovamente il suo posto innanzi alla scrivania, in modo che
la luce diurna solcò di tratti argentei i capelli bianchi e lunghi
dell'uomo.
--La signora Clara?--domandai, un po' impacciato dal silenzio che ci
minacciava.
--Sta bene.--
Io m'alzai in piedi, congedandomi. Sentivo, all'improvviso, una ferita
viva nel cuore per le teorie d'Ettore e per quella freddezza che senza
causa s'era d'un tratto infiltrata nella nostra conversazione; mi
scoprivo irritato contro il Caccianimico, il quale professava le sue
idee senz'alcun riguardo per me, che avevo moglie; e mi dimenticavo
che poco tempo addietro, mi ero invece irritato contro quelli i quali
non avevano osato professare le loro idee, appunto per tal riguardo.
Ettore m'accompagnò fino alla soglia di casa; mi vi trattenne un
istante in discorsi senza importanza; poi, scesi le scale, malcontento
di me e di lui.
Le giornate di marzo avevano una serenità fredda e tragica. Il cielo
azzurro non era tuttavia lieto e doveva riuscire terribilmente feroce,
a quanti soffrivano; di tanto in tanto, dei periodi di vento furioso
facevano discendere la temperatura, portavano ancora dei brividi, e
disordinavano le abitudini di chi aveva già salutata quella primavera
fallace.
Appunto in uno dei giorni in cui più forti soffrivo la molestia della
stagione e la paura del mio ozio,--mi rammentai d'un tratto che Laura
Uglio abitava sul corso Alessandro Manzoni, e una viva curiosità mi
spinse da lei.
Io non imaginavo come la donna avesse spiegato a Giorgio, suo marito,
l'indifferenza sorta fra lei e Lidia; non imaginavo che cosa ella
medesima pensasse di me; e per saper tutto questo, salii le scale
della sua casa, premetti il bottone elettrico, e mi trovai
nell'anticamera di Laura prima ancor di considerare quale accoglienza
mi aspettasse.
Laura riceveva, mi disse la cameriera, prendendomi il soprabito e il
cappello. E spalancò la porta a vetri che dava passaggio nella sala
ampia, soleggiata.... Un calore insopportabile mi afferrò sùbito alla
gola; era acceso il caminetto, e così carico di legna scoppiettanti,
come a pena era logico nel più immite gennaio...
Innanzi al caminetto stava Laura Uglio, ravvolta nella pelliccia. Ella
volse il capo al mio entrare, mi fissò un istante, dubbiosa; poi fece
una esclamazione di gioia, s'alzò, e mi corse incontro, lasciando che
la pelliccia le cadesse dalle spalle e s'arrestasse sui fianchi.
Era uno straordinario inganno del momento? un'illusione prodotta dal
luogo?... Io non trovava più sul suo viso quell'espressione cinica,
dura, spudorata, volubile, che m'aveva ferito a Pallanza; i suoi occhi
non avevano sguardi equivoci, il suo sorriso non era rapido, facile a
mutarsi in sogghigno. Si sarebbe quasi detto che una rigenerazione
fosse avvenuta nella donna e si trasfondesse in ogni linea del viso,
pallido ora, bene rischiarato da occhi tristi e grandi. Il vago
sentimento d'implorazione, che notavo in tutta la fisonomia di Laura,
era disceso alle labbra e le aveva come addolcite agli angoli, creando
nella bianchezza del volto una curva rossa e deliziosa di vita.
La massa di capelli bruni, ravvolta a diadema intorno alla fronte di
Laura, attirò ancora la mia attenzione, quasi fatto d'una gravità
nuova e pericolosa; avevano un colore sì schiettamente cupo, quei
capelli, che ne soffersi, come pel caldo esagerato della sala.
Tutto il colloquio sembrò prender l'intonazione da quell'effetto
inaspettato della bellezza di Laura. Ricordo ch'ella fu singolarmente
carezzevole, rimproverandomi la mia freddezza e quasi il disprezzo
ostentato altra volta; ch'ella mi domandò se non fosse divenuta
brutta, perchè era malata, e lo domandò con ansia in cui palpitava
tutta la sua apprensione di donna elegante; che io, per rassicurarla,
quasi mi lasciai sfuggire di bocca delle parole passionate, veementi;
e che avvedutomi del pericolo, troncai bruscamente la visita.
Poi, ebbi per l'intero giorno la sensazione della sua mano calda fra
le mie. Ero rimasto troppo vicino a Laura, guardandola con intensità,
nei momenti in cui non fissava gli occhi ne' miei; ora, quei capelli
bruni, quel viso pallido, quel corpo aggraziato, senza busto,--mi
spingevano a un atroce confronto con Lidia, non meno bella, più
giovane; ma bionda, fiorente di salute, fredda nell'animo, e mia.
Non trovavo agio in casa; l'angolo del salotto di Laura, nel quale
ella ed io eravamo rimasti a chiacchierare, mi pareva assai più
desiderabile che non l'intero mio appartamento.
Laura era malata; indubbiamente, poichè era sopravvenuta in lei quella
mutazione, così dolce.... Chi le era vicino?... Chi la confortava?...
Non aveva osato pregarmi di sacrificarle qualche ora; ella si
ricordava le scortesie di Pallanza, il ridicolo desiderio di
sfuggirla, mentre, infine, io l'aveva perduta pel primo, ed ella aveva
ben diritto a un posto nell'archivio del cuore....
Non avrei voluto essere vanitoso; ma, riandando gli atti e le parole
di Laura, mi convinsi ch'ella mi amava tuttavia e ciò mi trasse alle
labbra il più trionfale dei sorrisi....
Mentre io pensavo a questo, Lidia sul divano, sbadigliava, cercando di
farmi capire ch'era sofferente, molto sofferente, molto stanca, e che
la sua alcova sarebbe rimasta inaccessibile anche quella notte....


SECONDA PARTE.


XII.

Noi eravamo in tre; così disposti: Lidia e Gian Luigi Sideri innanzi
al tavolino verde; io seduto più basso, guardando il loro giuoco, e le
carte che passavano e ripassavan sulla tavola, e le mani che si
sfioravano, diverse di bianchezza sotto la luce delle due lampade a
lungo stelo.
Gian Luigi vinceva da un quarto d'ora e i gettoni di Lidia restavano
inoperosi: il vincitore tentava sorridere come per iscusarsi, ma
Lidia, cogli occhi sulle carte, la testa un po' chinata in avanti, non
lo vedeva; era una pessima giocatrice, Lidia; non aveva sangue freddo,
non sapeva mascherare la sua emozione, che si tradiva in graziose
smorfie del viso. Non volgeva mai lo sguardo verso di me, sentendo il
mio su di lei, un po' ironico; non parlava, appena la fortuna le
volgeva le spalle, riprendendo invece, al primo colpo riuscito, un
chiacchierio civettuolo, che non so come non confondesse Gian Luigi.
Questi era freddo ed elegante nelle sue mosse, come al Circolo,
innanzi a una somma vistosa. Le piccole mani senz'anelli davan le
carte lentamente; non si lasciava sopraffar dal pensiero di giuocare
con una giovane signora; esercitava tutt'i suoi diritti, e negava
spesso a Lidia il favore di cambiar le carte, avanzando la testa e
dicendo:
--Prego,--con un sorriso dolce e irritante. Lidia, poi lo
contraccambiava di pari moneta, e s'egli concedeva, mutava carte due o
tre volte, dicendo:
--Propongo,--con voce fredda e squillante, quasi enunciasse una grave
necessità.
Il giuoco durava fin dopo mezzanotte, ed era Gian Luigi che lo
troncava; Lidia avrebbe giuocato fino al mattino, senza dar segno di
noja, senza frapporre un respiro fra l'una partita e l'altra;
generalmente vinceva, e allo stupore di Gian Luigi per quella fortuna
ostinata, ella s'abbandonava sulla spalliera della sedia, ridendo, e
confortandolo con parole sarcastiche. Poi, quando Gian Luigi
riprendeva, Lidia marcando due gettoni annunciava:
--_À vol_,
e dava in un nuovo scoppio di risa; al Gian Luigi intontito.
Ma quella sera in cui ci trovavamo soli noi tre, le buone carte
parevano accorrere fra le mani di Gian Luigi, troppo generoso per
ridere della disdetta di Lidia, quantunque ne avesse quasi il diritto.
A una partita più avversa delle altre, Lidia, che non aveva fatto un
punto, mi si rivolse:
--Vuoi mutar posto, Sergio? Credo che tu influisca male sul mio
giuoco....--
Gian Luigi ebbe un moto di stupore. Io m'alzai, dicendo:
--Sei una giuocatrice perfetta; non ti mancava che la superstizione.--
Ella diede le carte, mentre io mi sedeva a fianco di Gian Luigi.
--Marco il re,--dichiarò la donna trionfalmente.
Diede un piccolo colpo alla sottana, come per disporsi meglio ad
accogliere la fortuna che ritornava, e in breve giro di carte vinse la
partita. Gian Luigi volse il capo sorridendo verso di me.
--Vedi se non influivi sul mio giuoco?--osservò Lidia, con voce
carezzevole.--Ora influisci sul signor Sideri.--
Certo, Gian Luigi non sapeva di concorrere indirettamente a una pace
coniugale. Io aveva deciso quella sera di riavvicinarmi a Lidia;
vagliando bene le cause della nostra freddezza, le trovavo così
ridevolmente futili da non meritare la discussione; una sola preghiera
da parte mia sarebbe forse bastata a riconquistare Lidia e a infondere
nuovo sangue vitale nell'amore intiepidito.... Avevo bisogno anche di
dimenticar la scossa prodottami dalla visita a Laura; una scossa
duratura, perchè non s'era fermata ai sensi, ma giungeva a toccarmi
nel sentimento e a suscitar ricordi assai temibili....
Se Gian Luigi vinceva, io era ben sicuro che Lidia sarebbe divenuta
intrattabile e qualunque tentativo di riconciliazione avrebbe
naufragato. Era così suscettibile la donna, da considerare una
sconfitta al giuoco come un'umiliazione. Io seguiva per questo le
vicende delle carte con un interesse affatto insospettato da Gian
Luigi, il quale pareva già pronto a vedersi battuto su tutta la linea
come sempre e probabilmente desiderava ch'io mutassi posto di nuovo e
tornassi a zerare la vena di Lidia.
Il sopraggiungere d'Angela Tintaro interruppe il giuoco per un
istante; Gian Luigi si levò, e nel mentre Lidia parlava colla Tintaro,
egli mi condusse innanzi alla finestra, dicendomi con inflessione
maliziosa:
--Una buona notizia, dunque. Un ritorno all'antico!--
Le sue parole rispondevan così bene al mio pensiero costante di quella
serata, ch'io credetti stranamente Gian Luigi avesse indovinato il
desiderio di riconciliarmi con Lidia. Egli soggiunse tosto:
--Laura Uglio m'ha detto della tua visita di ieri. Mi congratulo. Era
ben giusto che tu ti mostrassi indulgente con quella buona signora!--
Il punto interrogativo ch'esisteva fra me e Gian Luigi a proposito di
Laura, fiammeggiò d'improvviso nella mia mente. Se sapevo afferrar
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