Il Designato: Romanzo - 03

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d'una solitudine amorosa, senz'occhi indiscreti.
I cavalli trottavano ora in piano, in direzione opposta a Nufenen.
Erano le sei del pomeriggio e il sole si ritraeva man mano,
lumeggiando le case più alte, il cimitero e la chiesetta di Splügen,
senza malinconia, quasi con un senso largo di quiete abituale.
Al passo, traversammo il ponte di Splügen e dal ponte ci arrestammo
sulla piazzetta del villaggio, innanzi al _Bodenhaus Hôtel_, dove un
gruppo di contadini raccolto pel riposo della sera, ci salutò con
amichevol deferenza.
In un angolo della piazzetta, ci aspettava la carrozzetta del signor
Pfaff, linda e ripulita, colla giumenta saura; e mentre ajutavo Lidia
a scendere, il signor Pfaff, uscito dal _Bodenhaus Hôtel_, mi si fece
incontro tenendo il cappello tra le mani.
Piccolo, tozzo, formidabilmente quadrato di spalle, col viso senza
neppure i peli delle sopracciglia, con due furbi occhi cilestri,--il
signor Pfaff non era in nulla mutato dall'ultima volta ch'io l'aveva
visto, e dimostrava una diecina d'anni meno de' suoi sessanta.
Egli mi strinse la mano, felicitandosi del mio ritorno, in una specie
di dialetto lombardo, da lui imparato per frequenti corse nell'Alta
Italia ad acquisti di vini e di bestiame; poi guardò Lidia, ch'era
presso di me, esile e dùttile figurina d'adolescente.
--La mia signora!--dissi.
Egli s'inchinò sùbito, ma compresi che Lidia non gli piaceva. Non era
un tipo svizzero; le mancavano le allegre tinte alle guance, il seno
turgido, i fianchi rotondi, e una sola mano del signor Pfaff sarebbe
bastata a piegar Lidia come un virgulto. L'istinto, che in quei paesi
fa valutar la donna secondo la capacità a lavorare e a produrre
attestata dal suo corpo, dava una delusione al signor Pfaff. Lidia era
un essere inutile, a suo credere.
Quando fummo nella carrozzella, guidata dal signor Pfaff e seguìta a
distanza da un carro coi nostri bauli, io approfittai della solitudine
che si ritrovava appena fuori di Splügen, per baciar lungamente la
bocca di Lidia. Era una bocca sì viva di colore e così perfetta di
linea, ch'io mi compiaceva a serrarla e a riunirla fra le dita per
meglio sentirla sotto le mie labbra.
In quel momento, il signor Pfaff si volse dal suo sedile verso di noi,
ma rigirò sùbito la testa, allo spettacolo, e la tenne poi
ostinatamente fissa in avanti, per non disturbarci.
--Ho fatta posticipare la cena!--egli disse, senza guardarci.
--Va bene. Avete molti viaggiatori all'albergo?--domandai.
--Due francesi.
--Maschio e femmina?
--Maschi tutt'e due.--
Volevo chiedere se fossero giovani, ma mi rattenni, vergognandomi
dell'impulso. Pensai che fossero due solitarî com'ero io qualche anno
prima, e li compiansi; tutto quanto viveva all'infuori del mio amore,
estraneo a Lidia, mi giungeva perdutamente sconsolato, ed ero già
disposto a considerare i due francesi come anime in pena.
La strada, a sinistra di Splügen, discendeva per breve tratto, poi
saliva e si stendeva piana, a gomiti, costeggiata quando dal Reno,
quando dalle pinete, su ambo i lati. Il Reno, che interessava Lidia,
quasi un personaggio storico di cui si son lette e udite mirabili
gesta sanguinose, era nel tramonto quieto, assai sonoro; una lieve
brezza moveva le cime dei pini circostanti lambendoci il viso; il
cielo, privo di sole, pareva una gran vôlta sulle nostre teste, e mai
quanto allora ne compresi la maestosità.
--C'è ancora molto?--chiese Lidia.
--Tre chilometri,--rispose il signor Pfaff, rigido al suo posto.
--Sei stanca?--domandai io alla donna. Ella negò col capo e mi volse
la bocca in modo ch'io fui costretto a ribaciarla.
Traversando il primo dei ponti che s'incontrano su quella strada,
vedemmo il Reno orribilmente serrato fra due montagne a picco, furioso
di spuma. Il vecchio fiume balzava, tutto bianco, irrompeva,
accelerando la corsa verso i luoghi dove gli sarebbe stato possibile
allargarsi immortale e magnifico....
Anche oggi, mentre scrivo, il Reno ulula così sotto quei monti; ma chi
lo guarda cogli occhi amorosi coi quali noi lo guardammo?
Il crepuscolo ci avvolgeva in un manto cenerognolo, passandoci
nell'animo il presentimento d'un gran riposo, nella casetta bianca e
ilare che ci aspettava a poca distanza; pareva aleggiassero le sforate
d'una ballata di Göthe fra i rami dei pini, inclinati in uno stormir
discreto. Non v'era altro che pace, all'intorno, e ombra, e mitissimo
grado di calore.
S'incontravan qualche contadino, qualche addetto alla manutenzione
della strada; levavano il cappello, augurando buona sera. Non era il
saluto al nostro amore? Buona sera, veramente, quella in cui arrivammo
all'albergo del signor Pfaff! Buona sera, che cancellava dallo spirito
anni dolorosi d'errori e mi offriva la fede in qualche cosa,
nell'avvenire, in me stesso!
Quando la casetta s'abbozzò nell'ombra, la giumenta saura aumentò
l'andatura, nitrendo; dalle finestre si scorgevano i lumi accesi della
sala di conversazione e della sala da pranzo, unici fari in mezzo ai
pini, ormai simili a spettri. Prima che la carrozzella si fermasse,
baciai di nuovo Lidia.
Sulla soglia, la signorina Silesia Pfaff, coi capelli neri
accuratamente ravviati e la tipica faccia rubiconda, comparve insieme
a Leo, il grosso cane di Terranova al quale ero insoffribilmente
antipatico.
La signorina mi porse la mano, Leo m'abbajò contro, secondo il solito.
Ancora, Lidia fu una delusione per Silesia, per quanto questa
s'affrettasse a salutare ossequentemente; ma certo pensò che se avessi
sposata lei, avrei fatto miglior negozio.
Ci avevano approntate al primo piano due camere da letto comunicanti,
un salottino e una specie di studio colla scrivania, dove avrei potuto
sognar di lavorare; luce e fiori dappertutto, la quale particolarità
mi parve assai gentile e mi obbligò a ringraziar vivamente Silesia
Pfaff che ci accompagnava.
Quando fummo nel tinello per la cena, potei notare che le razze hanno
istinti non mai fallaci e sconfessabili; perchè, se Lidia aveva delusa
l'aspettazione degli svizzeri tedeschi, provocò l'ammirazione dei due
francesi che ci avevano preceduti; un'ammirazione rispettosa, ma
chiara per qualche sguardo e per quell'impaccio quasi piacevole che
una bella donna ispira sempre ai giovani.
I due viaggiatori, sulla trentina, eleganti per abitudine, compìti per
esperienza di società, eccellenti parlatori, si contentarono di
discutere fra loro alcune questioni superficiali di letteratura; ma in
modo che se la buona volontà non mi fosse mancata, avrei potuto io
pure esprimere delle opinioni, concordi o contrarie, il che era
affatto indifferente a me e ai due francesi.
Io aveva ben più dolce esca alla mia attenzione. Lidia, dai cupi occhi
azzurri e dalle labbra vermiglie, appariva serenissima, e la grande
notte silvestre che calava, prometteva un'immensa voluttà di silenzio.


IV.

Per tutto quel mese di luglio milleottocento ottantasette, uno
spettacolo di saltimbanchi e una passeggiata notturna furon le sole
digressioni nella gran calma felice della nostra vita.
All'albergo eran sopravvenuti altri forastieri, i soliti dogliosi in
cerca d'oblio; ma noi li vedevamo di rado, non intervenendo alla mensa
comune. Intuivo parecchi intorno a noi che sorridevano del nostro
appartarci; quei due francesi incontrati pei primi, dovevan filosofare
mirabilmente sull'idillio che presentavamo loro, e una vecchia dama
bisbetica sogguardava Lidia con qualche acredine, incolpandola
d'essere nata cinquantacinque anni dopo di lei.
Ciò non era molto doloroso e noi gustavamo con tanta intensità il
nostro egoismo a due, che per tutti gli altri ci sentivamo feroci.
V'erano e vi sono, in quell'angolo delizioso dei Graubünden,
lunghissimi tratti di strada quasi per null'affatto frequentati e
secretissimi e riparati fra la verzura e simiglianti a certi selvatici
e vergini paesaggi, dal pennello più presto imaginati che riprodotti
fedelmente; ora chiusi come interminabili chioschi, ora aperti come
giardino signorile, dove la vigile attenzione dei paesani ha collocati
opportunamente i sedili pei rari passanti.
Noi sceglievamo sempre quelle vie, procedendo fin che il Reno
sopraggiungeva ad accompagnarci, scapigliato di schiuma, e spesso, non
contenti dell'impreveduto e del mistero, lasciavamo la via segnata,
inoltrandoci pei boschi, salendo pei greppi che i lichéni avevan
ricoperti di morbidissimi tappeti naturali, qualche volta anche
arrischiandoci su rocce a picco, dalle quali si poteva veder sotto il
ruinar vertiginoso del fiume.
Lidia, cogli abiti a chiare tinte, formava in quella varietà di cose
belle per dolcezza o per orrore, un inarrivabile complemento, che io
ammirava col rammarico di non sapere in modo alcuno descrivere.
Quando,--pel timore che le crittogame delle rocce non nascondessero
qualche falla del terreno,--Lidia s'attaccava alla mia mano e
camminava così a capo chino, studiando il passo, sorridendo un po'
nervosa, aiutandosi col bastone ferrato e chiedendomi cogli occhi una
parola incoraggiante, io non trovava altra parola che il bacio, dato
sulle labbra fresche, volonterose.
Qualche incontro inaspettato animava le nostre escursioni; dei
camosci, a gruppi di tre o quattro, s'allontanavan lentamente,
rivolgendo la testa a guardarci coi neri occhi oblunghi; degli
scoiattoli bruni fuggivan d'albero in albero, la coda ritta, le
piccole orecchie calate per la paura; ed eran graziose macchie sullo
sfondo verdastro dei tronchi antichi.
Talora, alti cumuli edificati pazientemente con fuscelli di pino,
c'indicavano il soggiorno delle formiche rosse, e innanzi a quei
meravigliosi risultati dell'intelligenza animale, Lidia ed io ci
soffermavamo a lungo. Quelle formiche, d'un'audacia e d'un coraggio
diabolici, si rizzavan sull'addome appena tocche, s'avventavano con
furore contro la punta del mio bastone, eran tremendi guerrieri capaci
dei più inauditi eroismi; se io gettava loro qualche insetto, era un
accorrere da ogni dove, un fermarlo, un assalirlo per quanto esso
potesse sembrare smisurato al confronto degli assalitori; se
scoperchiavo il formicaio, le abnegative abitatrici del luogo correvan
tosto a nascondere e a riseppellire le uova così esposte, e si
rizzavano a guardar donde venisse l'attacco, e senza frapporre indugio
rimediavano alla catastrofe, ricostruivano immediatamente le
abitazioni distrutte. Spettacoli non poco umilianti pel mio orgoglio
d'_homo sapiens_. Fu giusto al ritorno da una di quelle passeggiate
istruttive, che, seguendo un sentiero in mezzo ai campi, protetto su
un lato da un filar d'ontani, Lidia s'arrestò ad osservar le incisure
che mani ignote avevan fatte nel tronco degli alni; eran lettere
intrecciate, numeri e motti stentatamente segnati nella corteccia,
ricordi sentimentali.
La donna mi domandò il coltellino per aggiungere i nostri nomi
all'elenco sospiroso; girò intorno al tronco per trovarne una faccia
priva di segni, e vedendo una S circondata da mirabili ghirigori, mi
chiese:
--Quando hai inciso questo, Sergio?
--Mai, cara,--risposi.--Lo vedo ora per la prima volta.--
Più sotto alla S, v'era un'A, e più sotto ancora, la S e l'A s'univano
in un monogramma, come due amanti che dopo battuta diversa via, si
ritrovano e si congiungono per sempre.
Lidia mi restituì il coltellino, prese il mio braccio e s'incamminò
meco senza far parola.
--Via, bambina;--dissi.--Che cosa c'è? Tutte le S indicheranno Sergio
e tutti i Sergi non potranno essere altri che io? Ti ho già detto come
io sia sempre venuto solo in questi luoghi.
--Sei diventato pallido,--osservò Lidia.
--Pallido no,--risposi;--triste sì, pel tuo sospetto ingiusto.--
E sciogliendomi dal braccio della donna, mi fermai. Provavo un
tormento, improvviso, crudele.
Come mai Lidia mi credeva abbastanza vano e vile da condurla dove
avevo condotte le mie amanti, da permetterle di scrivere il nostro
nome sotto il nome d'un'altra donna ch'era stata mia?
--Perchè mi giudichi così male?--domandai, guardando la donna
fissamente.--Chi ti ha parlato di me?
--Nessuno mi ha parlato di te, Sergio,--ella rispose, ritta, immobile
come un'accusata.--Ho creduto io; ma non ti ho detto niente, non ti
avrei detto niente mai.--
La sera calava con quella solita maestà non priva di tristezza che i
grandi paesaggi posseggono. Di fronte a noi, sull'altra strada che
conduceva ad Andeer, risonavano le campanelle delle mandre reduci dal
pascolo; le foreste di pini, stese lungo i fianchi dei monti,
ispessivano il loro verde fino a diventar nere e lucide.
--Mi credi, dunque?--domandai, avvicinandomi a Lidia.
--E tu, mi perdoni?--ella rispose.
Procedemmo in silenzio; il brevissimo episodio m'aveva ancor
rammentato ch'io nulla aveva detto a Lidia de' miei anni precedenti, e
simile lacuna poteva ben giustificar nella donna qualunque sospetto.
Infine, ella m'aveva sposato perchè mi amava, i suoi m'avean data
Lidia perchè io conveniva loro; ma sapevano essi chi io era, non
riguardo al mondo, non riguardo alla vita vissuta, ma in faccia alla
coscienza e alla vita dei sentimenti? Nulla sapevano essi; potevo
esser un cinico, un corrotto, un libertino, un ipocrita che avesse
trascinata l'esistenza senz'infamia e senza lode, sol perchè gli eran
mancate le occasioni di far diversamente.
Rimaneva perciò un malessere tra me e Lidia, prodotto da quel velo
steso sul mio passato, e bisognava rimediarvi, presto, sùbito, perchè
non si prolungassero oltre i motivi a sospetti e a dubbi.
Quella sera medesima, dopo cena, quando Lidia fu nella sua camera, io
ve la raggiunsi. La serata aveva chiuso con un acquazzone formidabile,
dando un tracollo alla temperatura, divenuta quasi fredda; nel nostro
appartamento le stufe russavano.
Trovai Lidia ben disposta ad ascoltarmi, seduta in una poltrona con
dei giornali sulle ginocchia. C'illuminava chiaramente una lucerna
posta a fianco di Lidia, sopra una piccola tavola. Mi sedetti presso
la donna, le presi le mani, e le dissi:
--Vuoi ascoltarmi, amica mia? Debbo parlarti a lungo.--
Dal movimento di viva attenzione che seguì in Lidia a queste parole,
compresi ch'ero arrivato a tempo e che s'ella non aveva osato mai
chiedere, non aveva per ciò men desiderato quell'istante di
confidenza. Quanto a me, studiai di dare alla mia voce l'inflessione
più affabile di cui era capace, e per la durata dell'esordio, non
abbandonai le mani della donna, fattasi grave subitamente.
--Debbo dirti chi sono io,--cominciai sorridendo,--e come ho vissuto
fino al giorno del nostro incontro. Io ne ho il dovere, ma ti parlo
piuttosto per desiderio d'una piena confidenza, che per stimolo di
soddisfazione ad un obbligo. Sai che io ho perduto mia madre a
vent'anni e che d'allora, fino all'altra dolorosa scomparsa di mio
padre, io sono stato sempre con questi, accompagnandolo in tutt'i suoi
viaggi per l'Italia e fuori; ma non sai quale notevolissima influenza
sulla mia indole abbia esercitato questo genere di vita. Mio padre,
vecchio colonnello di cavalleria, era di quegli uomini maravigliosi
che han conosciuto l'entusiasmo e che, dopo essere stati eroi in tempo
di guerra, non s'eran dimenticati d'essere onesti in tempo di pace.
Per me aveva una benevolenza sollecita, e io credo d'aver destata in
lui compassione non meno che affetto; ero esile, gracile, e presso
l'uomo che aveva scritta la propria storia a colpi di sciabola, parevo
un virgulto, non abbastanza bello per essere interessante e non
abbastanza interessante per essere perdonato della sua gracilità.
Quindi, mio padre credette ottima idea d'evitarmi le noie e le ansie
degli studî, supplendovi coi viaggi, ed io confortai questi col
tuffarmi a corpo perduto nella lettura di qualunque libro, di
qualunque giornale, di qualunque opera pesante od allegra mi fosse
dato trovare. Ciò non era grave, alla fine; conobbi molte cose
superficialmente e nessuna con profondità, ma non dovendo votarmi ad
alcuna professione, la cultura saltuaria mi rese eguali servigi, nelle
conversazioni, dove tutta la scienza si limita ad un accenno....
Gravissime, invece, furono le conseguenze morali di quella vita
febbrile e diffusa. Io non ebbi abitudini, perdetti la nozione della
famiglia, non amai nulla di quanto si conveniva alla mia età; come i
viaggi m'insegnavano che non v'era luogo così bello da escluderne
altri migliori, la vita mi si presentava quasi un viaggio lungo, ed
ogni avvenimento quasi un incidente di via, che al primo gomito della
strada si sarebbe dimenticato. Perciò, io dispersi le forze
intellettuali e non potei indirizzarle ad un determinato scopo;
dispersi le forze affettive, non raccogliendole sopra alcuno oggetto.
Feci una pausa. Lidia osservò con voce tranquilla:
--Io non vedo gran male in tutto questo. Avrai avuta una giovinezza
molto fredda e senza peripezie.
--No,--risposi.--Allora pareva anche a me che non vi fosse gran male,
perchè ero assai giovane, e quello stesso metodo di vita m'era
d'ostacolo ad interrogarmi, a studiare se in fondo all'animo io non
sentissi qualche irrimediabile amarezza. Ma quando mio padre morì,
m'accorsi tosto d'essere straordinariamente solo nel mondo, inutile al
punto che la mia vita e la mia morte dovevan riuscire indifferenti
fenomeni agli altri, non pure, ma a me stesso. Non avevo alcuno scopo,
non avevo amici, non rappresentavo nulla, non ero una forza,
considerevole o mediocre, nella, meccanica della società; se fossi
sparito, nessuno si sarebbe doluto della mia scomparsa. A tale idea io
soffersi molto, e fui così malcontento, così irritato, che invece di
tentar qualche cosa, venni in questo paese a rodermi internamente de'
miei anni sciupati. Capisci questo, amica mia? Lo spettacolo
dell'attività altrui, invece di spingermi all'emulazione, mi stremò di
forze e mi tolse ogni speranza di poter fare.
--Come mai?--domandò Lidia, rizzando la testa a guardarmi.
Nel mentre andavo parlando, m'accorgevo che, diversamente da tutte le
aspettative, la confessione mi riusciva facile, e che enunciando e
sintetizzando il mio passato, illuminavo me stesso su cose prima
oscure. Avevo anche avvertita una certa impazienza in Lidia, e me ne
davo ragione sapendo che la donna non poteva contentarsi di quelle
linee generali, ma voleva la confessione di argomenti assai più vicini
a lei e più pericolosi.
--Come?--ripetei.--Non so. Saranno effetti nervosi, ma certo
senz'alcun rimedio; avrei avuto bisogno di trovare gli altri molto
addietro; li vidi al contrario molto innanzi, e lo spazio che mi
separava da essi, mi diede un vero spavento, quasi una vertigine.
--Così, tu non hai fatto bene e non hai fatto male?--chiese Lidia.
La voce della donna s'oscurò di tristezza, e mi penetrò in fondo al
cuore.
--No,--confessai,--no, io non ho fatto alcun bene....
--Non hai amato?--incalzò Lidia, rizzandosi sul busto e stringendomi
le mani.
--Non ho fatto alcun bene,--dissi nuovamente.--Ero preso da quella
specie di malattia della volontà, e divenni maligno, contro di me e
contro gli altri; fui dei più pronti a schernire, dei più volonterosi
a negare; fui un essere colmo d'odio, perchè invece d'incolpar me
della mia vuotaggine, incolpai non so quale fatalità avversa.
--E le donne non riuscirono a toglierti quell'asprezza, a
consolarti?--
Appena pronunciate queste parole, Lidia arrossì vivamente; ma nel
medesimo tempo, il mio viso ebbe forse un'espressione così dolorosa,
che la donna porse la destra sulla mia bocca, aggiungendo:
--No, no, non dir nulla, se non vuoi, Sergio!--
E si chinò a baciarmi.
Nell'atto ch'ella avanzava e serrava le labbra contro le mie, io
chiusi gli occhi ed ebbi come un'immensa visione di tutta
l'impossibilità a parlare. Lidia era ancora, una fanciulla; donna solo
fisicamente; il suo animo era incontaminato, il suo pensiero casto, i
suoi costumi ingenui. In che modo potevo io dire?... Perchè bisognava
farsi comprendere, cioè sviscerare i fatti, analizzarli....
Quando Lidia staccò la bocca dalla mia, io aveva già divisato di non
parlare.
Mi diedi a passeggiare per la camera, comprendendo che non potevo
tacermi immediatamente, se non col pericolo d'ingenerar nello spirito
di Lidia chi sa quale stranissimo sospetto di mistero. La donna mi
seguiva dello sguardo, e per la prima volta s'insinuò fra noi il
dolore di non sentir le nostre anime sopra una medesima via.
--A che giovano i fatti?--io ripresi, avvicinandomi a Lidia e
sedendomi sullo sgabello a' suoi piedi.--In amore e per l'amore, sono
stato un perverso. Non mi chiedere altro, amica mia; non ti dirò di
non avere amata alcuna donna prima di te; la cosa, più che mirabile,
sarebbe ridicola. Ma è certo, è vero, è sacro che dal primo giorno del
nostro incontro, ogni altro amore cessò e ho voluto mutarmi.
--Sono contenta,--disse Lidia con semplicità.--Sono contenta e ti
credo: però....--
Tacque un istante, esitando; poi si chinò fino al mio orecchio e
soggiunse a bassa voce:
--Però.... vorrei sapere se fra le donne ch'io conosco, ch'io
conoscerò e che ci verranno in casa, vi sia qualcuna che tu hai
amata.--
Non era ancora finita la frase, che Lidia se ne pentì, poichè
corresse:
--No, no, in casa; non dubito; ma v'è qualcuna ch'io conosca?
--Nessuna,--risposi prestamente, e volsi il capo perchè Lidia non mi
leggesse in viso la menzogna.
Una, ve n'era; ben conosciuta da Lidia, che l'ammirava per la superbia
e l'eleganza; una, che frequentava la casa Folengo, e m'aveva irritato
colle carezze finte prodigate alla fanciulla. Ma perchè dir questo a
Lidia? Non era inutile e pericoloso?
--Vedi,--continuai dominandomi.--Vedi ch'io non ho nulla di buono nel
mio passato e ch'io ti debbo una totale rigenerazione? Sono un
vagabondo arrestato dalla tua potenza.
--E tu mi ami quanto non hai amato alcuna donna, è vero?--domandò
Lidia, ancor dubitosa.
--Puoi ben crederlo,--esclamai,--se a te lego tutta la mia vita!--
Vagamente e con un'indefinita paura, io rilevava uno strano fatto; che
la mia confessione era inutile, perchè non poteva esser chiara, e che,
lasciando Lidia più calma di quanto io non m'aspettassi, aveva invece
turbato me oltre ogni previsione. La colpa era mia, non avendo io il
coraggio necessario a spingermi fin dov'era possibile; la colpa era
anche di Lidia, la quale, sorvolando ai miei mali dello spirito, aveva
voluto giungere sùbito ai fatti, agli amori, alle donne, alle persone
che da un istante all'altro ella poteva incontrare.
In fondo, Lidia non aveva capita l'amarezza della mia esistenza,
tormentata da un inutile desiderio di fare e di lavorare: non aveva
viste che delle rivali, non aveva tremato che di gelosia. Così, mentre
io credeva la mia confessione dovesse prolungarsi, era invece finita
d'un tratto, proprio sul limitare della piena confidenza.
Io guardai la donna; delicatissime apparivano la bianchezza rosea del
suo volto, l'espressione degli occhi lunghi, ombrati da palpebre
simili a minuscoli ventagli, coronati da ciglia simili a leggiere
strisce arcuate di pennello.
Ed io poteva condannarla, s'ella non comprendeva l'infinita
melanconia, l'infinita vacuità dell'uomo che le parlava? Anche troppo
presto se ne sarebbe avveduta quando la nostra casa si fosse aperta
agli amici miei, agli uomini che seguivano una via ben chiara,
incontro a una meta ben decisa. Lidia era, del resto, come tutte le
donne, chiusa entro i limiti della vita pratica; non poteva supporre
occupazioni oltre la famiglia, o supponendole non le avrebbe trovate
necessarie.
Io solo, che avevo sognato di giungere alla fama, ero giudice della
rovina che al sogno aveva tenuto dietro invece della realtà.
Non avevo mai saputo chiuder la vita entro limiti così precisi che
arginassero le incomposte tendenze, dirigendole robustamente a un
fine; proclive a più cose ed avido di conoscere, avevo dispersa
l'energia creativa, atrofizzandola in un vuoto compiacimento di
sapere; privo di vanità nella sua forma più eletta ch'è l'ambizione,
m'ero limitato ad ammirar l'opera altrui, spesso semplicemente
induttiva, e m'ero sfiduciato al pensiero di muovere i passi dove
uomini eminenti avevan talora dubitato ed erano anche caduti numerosi;
e se di tanto in tanto il peso dell'inerzia vergognosa mi diveniva
intollerabile,--guardandomi intorno e vedendo i già noti e battaglieri
preparar nuove opere e nuove battaglie, la mia nervosità
suggestionabile soffriva d'un contraccolpo mortale, la mia volontà si
rannicchiava al cospetto di volontà più illuminate e più esperte.
Rimaneva poi verissimo quanto io avevo detto a Lidia: che al vuoto del
quale arrossivo avevo sempre trovate altrettante giustificazioni,
considerandomi vittima di complicate e malaugurose vicende; e il
tempo, la solitudine, l'incontentabilità, le difficoltà materiali per
farmi conoscere, la lenta progressività dell'esito futuro, mi
sbigottirono e mi relegarono decisamente fra l'immensa caterva di
coloro che vivono come possono e che una tomba inonorata accoglie e
dissolve.
Nei giorni susseguenti a quel colloquio con Lidia, io ebbi più volte
l'opportunità di spiegare alla donna quanto fossi insoddisfatto
dell'indirizzo preposto alla mia giovanezza. Lidia accoglieva questi
discorsi con una duplice espressione: lieta, perchè notava come le
donne del mio passato fossero totalmente scomparse dalla memoria;
triste, perchè avrebbe voluto altrettale oblio de' miei sogni e dei
proponimenti frustanei. V'era nel suo modo di rispondere,
nell'angoscia rinnovellata ad ogni apparire de' miei rimorsi,--un
chiarissimo sottinteso, ch'io aveva sùbito spiegato così:
--«Non ti basta la realtà del mio amore? Non ti basta la vita ch'io ti
offro?»--
Ora, quando in addietro lottavo, cercando di dedicarmi alla
letteratura per la quale credevo di aver qualche disposizione,--m'ero
sempre tolto a quelle spaventose lotte col medesimo pensiero: tuffarmi
nella vita reale, godere quanto era più vicino e più facile ad ogni
uomo.
E quel pensiero d'allora, germinato spontaneo, e quel sottinteso
d'adesso, nascosto nelle parole di Lidia, concludevano in un'egual
rinuncia, avviandomi sulla strada comune, dove non si trova gloria, ma
la calma è solenne, l'indifferenza grande, il benessere sicuro. E
poichè questa volta l'esortazione alla rinuncia veniva da una bocca
giovanile e cara, io credetti poterla obbedire, e per lungo tempo i
rimorsi della vanità delusa tacquero, mortalmente.


V.

In quella dissonanza d'anime, lievissima e tuttavia avvertibile, sorta
fra Lidia e me dalla sera in cui ella non aveva capito il mio tormento
e non aveva temuto che per donne immemorabili,--so e affermo che,
quantunque io volessi negarlo a me stesso, noi non potevam giudicare
la giornata trascorsa se non al cominciar della notte.
Era nell'alcova di Lidia che io vedeva sciogliersi i nodi aggruppati
durante il giorno; erano il sorriso o l'impaccio, il desiderio o la
sommissione della donna, che mi davan la misura di quanto noi fossimo
all'unìsono, o delle modificazioni lentissimamente verificatesi nella
nostra vita felice. Appena ombre, appena gradazioni d'una fuggevolezza
così rapida che ad uomo chiuso all'investigazione, sarebbero andate
perdute.
Lidia, per la prima, non aveva nulla rilevato, e si credeva senz'alcun
dubbio ancora a quell'altezza di passione che aveva riscaldati i primi
giorni della nostra intimità. Io stesso osservava a scatti, e soltanto
ora, studiando quei tempi, vedo la strada percorsa, digradante con
infinitesimale declivio.
Colui che batteva all'uscio di Lidia era il medesimo, l'identico uomo
che due mesi avanti aveva passata la soglia della camera virginale e
aveva pianto alle lagrime della dedizione? colei che permetteva
all'uomo d'entrar nell'alcova, era la medesima, l'identica Lidia che
aveva tremato di paura e non aveva trovato requie nell'aspettazion
timorosa?
No.
Oramai, eravamo diversi da quelli.
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