Il Designato: Romanzo - 02

cortesie, e quelle delicatezze e quelle audacie che l'esperienza
m'aveva insegnate ottime, se non in casi identici, almeno in casi di
qualche somiglianza col presente, se non in una prima notte di
matrimonio, almeno in una prima notte.
Accostarmi a Lidia come un amante a un'amante, era possibile e bello;
ma Lidia, la mia amante, era una fanciulla e il nostro amore non aveva
termine, e ogni falso o corrotto insegnamento si sarebbe trasformato
in un germe pericoloso del quale avrei colto io il frutto.
Quindi, potevo e dovevo essere l'amante, ma un amante castigato,
limitato, rettissimo.
Volgendo nel mio animo questi pensieri, m'ero ritratto dalla finestra
ed ero venuto ad appoggiarmi colle braccia sul marmo del cassettone.
Innanzi, lo specchio mi rifletteva pallido con un sorriso un po'
convulso, e la lucentezza dello sparato chiuso quadratamente
nell'abito, mi dava un'aria quasi severa.
Il profumo dei fiori vibrava fortissimo alle nari; dall'uno lato e
dall'altro dello specchio, due vasi di porcellana traboccavan di
narcisi e di garofani e d'anemoni e d'altri fiori vigorosi. Levai dal
gruppo folto una gardenia, che soffriva più dei compagni e la passai
nell'occhiello.
C'eran molte persone, le quali pensavano a noi in quell'istante. La
nuova del mio matrimonio s'era sparsa per Milano e fuori con rapidità
e maraviglia. Gli amici non si figuravano me nella notte presso Lidia?
non analizzavano con cinica irreverenza il nostro amore che
s'iniziava? nell'ombra non si preparavan già delle insidie? Io avrei
trovati i mezzi d'intercludere il passaggio a qualunque insidia tesa
sulla via della mia donna.
E anche questo dipendeva dal momento in cui ero. Laura Uglio non era
tornata dalla prima notte di matrimonio così nauseata, da giustificare
il suo adulterio avvenuto tre mesi dopo? Angela Tintaro non aveva
nella prima notte di matrimonio giurato di darsi a una donna, e a
uomini mai più? Quanti mariti maldestri non avevano in poche ore
mutata una fanciulla in un'impura colomba, presto insaziabile?
Aneddoti sparsi nelle mie memorie, dei quali capivo a un tratto la
sapienza....
Secchi e sonori per l'amico silenzio, l'orologio del giardino diffuse
dodici colpi.
Li contai adagio, smorzai i lumi, lasciando accesa la sola lucerna
pensile. Mi diedi un ultimo sguardo nello specchio: la gardenia, lo
sparato candido, l'abito nero, anche il viso molto pallido, sembravano
giovarmi. Al momento d'aprir l'uscio, ero tranquillo; meglio, ero
ilare e sicuro di me; avevo un indiavolato bisogno di scherzare.
Apersi, passai nel salotto oscuro, ma grave di profumi come la mia
camera. Un sottil filo di luce rosseggiava sotto l'uscio della stanza
di Lidia: troppo intenso, non poteva provenire dalla lucerna da
veglia; era la luce d'una lampada portatile. Posta dove? Non presso il
capezzale.
Lidia aveva fatta un'illuminazione nervosa come la mia?
Bussai leggiermente alla porta di Lidia, e mi sentii sorridere.
L'orologio ribattè i dodici colpi nel giardino. Che lampo era stato e
che eternità quell'intervallo!
Avvertii un lieve romore: poi il silenzio proseguì dovunque.
--Lidia!--dissi ponendo la mano alla gruccetta dell'uscio.
--Avanti!--rispose con voce soffocata.
Apersi l'uscio e guardai.
Lidia, in accappatojo, coi capelli sciolti, aspettava in piedi presso
una poltrona. Da una tavola sotto la finestra, una lampada alquanto
attutita dal paralume a smeriglio, sprigionava luce blanda, quasi
pulviscolo azzurrato, che veniva a stendersi sui capelli, sulla
fronte, sulle guance di Lidia e le dava una stanchezza, come dopo il
ballo, al sorger dell'alba. L'atteggiamento della giovane denotava
un'apprensione vivissima, tradita pure dal respiro precipitoso che le
agitava il seno.
--Non ti sei coricata?--domandai, mentre avanzavo richiudendomi
l'uscio dietro le spalle.
Lidia fe' cenno di no colla testa.
--Hai avuto paura?--dimandai di nuovo, prendendole una mano.
Lidia fe' cenno di sì.
Mi sedetti sulla poltrona a cui ella era appoggiata, e tenendo tutt'e
due le mani di Lidia, attrassi la fanciulla sulle mie ginocchia.
--Vediamo,--dissi, posandole le labbra sulle labbra caldissime ed
immobili.--Io son desolato d'essere costretto a disturbarti; ma non
prevedevo di trovarti ancora alzata. Volevo semplicemente augurarti la
buona notte. Sorridi?... Non bisogna dubitare delle mie
parole,--aggiunsi, mentre mi scoprivo a sorridere io pure.
Noi, così seduti, avevamo la tavola colla lucerna alle spalle e di
fronte il letto; il letto sui guanciali serbava l'impronta della testa
di Lidia e le coperte apparivano già rimosse. Evidentemente, Lidia
s'era coricata, e vinta a un tratto da un'impazienza nervosa, aveva
dovuto alzarsi.
La fanciulla afferrò il mio sguardo, arrossì, e rise lievemente.
--Questa paura!--continuai.--Non t'ha lasciata riposare? Ma di che
cosa hai paura? Di me?--
Le presi la testa fra le mani e l'obbligai a guardarmi; i suoi occhi
azzurri continuavano a ridere sì piacevolmente, ch'io li avvicinai e
li baciai senza aspettare la risposta. Finalmente, le labbra di Lidia
si mossero a restituirmi il bacio. Il sistema, come il più semplice,
era dunque anche il migliore.
--Di me, no, senza dubbio,--ripresi.--Non rispondi?
--Di te, no, senza dubbio,--ripetè Lidia a voce bassa.
--Grazie. Ma allora, non capisco più nulla!
Lidia abbassò la testa, guardando la mia gardenia, un po' ingiallita.
Io sentiva il profumo del fiore levarsi dalla massa bionda dei capelli
di Lidia, dall'accappatojo, dalle braccia un po' scoperte, dal busto
senza fascetta, che mi s'appoggiava contro, in una perspicuità di
linee assai tormentosa. Presi la gardenia e tentai di collocarla sul
petto della fanciulla; ma non appena allungai la mano, Lidia portò le
proprie, arrossendo, sopra i ganci che le chiudevan l'accappatojo fino
al collo. Il sistema non era dunque il migliore.
--Perchè non hai fatta accendere la lucerna da veglia?--chiesi,
tornando a infilare il fiore nell'occhiello.
--Non ci ho pensato,--rispose Lidia.--Vuoi accenderla tu?
S'io mi fossi alzato, Lidia avrebbe preso il mio posto ed avrei
perduta una strategica posizione.
--Accendila tu!--ripetè Lidia.
La mia considerazione rapida doveva essere stata fatta anche da Lidia.
Ella si levò dalle mie ginocchia e rimase in piedi presso il letto;
nel mentre abbassavo e accendevo la lucerna, Lidia non si ricordò di
sostituirmi nella poltrona; mi guardava impacciata, colla mano destra
sul guanciale.
--Ora c'è troppa luce,--disse.
M'avvicinai alla tavola e posi innanzi a quella lucerna una specie di
ventaglio roseo, che mutò sùbito la luce viva in altra delicatissima.
L'accappatojo di Lidia prendeva una tinta deliziosa, difficile a
riprodursi, che pareva gradazione di due colori soavi compenetrati.
Rimasi un istante a gustare il quadro. Lidia continuava a guardarmi
coi grandi occhi turchini.
M'accorgevo che se avessi ceduto alla mia volontà, invece di
riprendere il posto nella poltrona, come feci, avrei abbracciata Lidia
e l'avrei atterrita coll'irruenza d'un amore represso e rattenuto per
due anni.
--Non ti senti stanca?--le chiesi, senza pregarla d'avvicinarsi.--Vuoi
coricarti? È passata la mezzanotte.
La fanciulla girò la testa intorno, come cercasse un angolo discreto.
--Io me ne andrò,--aggiunsi.--Vuoi?
--Sì,--rispose Lidia, movendosi per aprirmi l'uscio.
Quando fummo sulla soglia, ella tradì una fuggevolissima esitazione,
come ogni volta respingeva un pensiero malagevole ad enunciarsi.
--Io aspetto qui in sala.... Volevi dirmi?
--Volevo dirti questo, appunto,--ella confessò. E per nascondere il
suo turbamento, si ricoverò fra le mie braccia.
Provai tale un'impressione di tutto il suo corpo sul mio, tale una
vertigine di piacere, che dovetti ricordarmi il proposito di non fare
un'invasione da barbaro,--per resistere all'agitazione di prender
Lidia e portarla sul letto e spogliarla io. Non dubitando del cimento
al quale mi sottoponeva, Lidia rispose a un tratto al mio bacio e mi
circondò delle braccia il collo.
--Sei molto pallido,--osservò, mentre si staccava.--Non ti senti male?
--No, cara. Ho la camera zeppa di fiori; deve essere il profumo che
m'ha alterato un istante.
--Dev'essere il profumo!--ripetè Lidia chiudendo l'uscio e
accompagnando il gesto con un grazioso saluto del capo.
--«Sì, il profumo,--pensai.--Ma quale?»
Il salotto era oscuro; ciò mi servì di pretesto per accomodarmi su una
sedia vicinissima all'uscio.
Io udiva così Lidia muoversi nella sua camera; il fruscìo
dell'accappatojo sciolto e cadutole ai piedi, facendole cerchio, e
dell'accappatojo raccolto su una sedia; lo scricchiolìo del letto che
accoglieva il corpo leggiero; un fievole colpo di tosse.
--Sergio!--chiamò la voce di Lidia.
Non so perchè, l'essersi ella coricata diede ad entrambi maggiore
sicurezza. Lidia medesima sorrideva, guardandomi rientrare, sebbene si
fosse accuratamente volte intorno le coperte fino al collo; aveva
spinta la poltrona accanto al letto.
--Il mio posto?--domandai, restando in piedi.
--Il tuo posto è lì,--ella rispose accennandomi cogli occhi la
poltrona.
--Ma qui avrò freddo!--mormorai.
--Nel mese di giugno!--esclamò Lidia.--Prova.
--Proviamo.
Il posto non era brutto, sebbene non fosse il migliore. La testa di
Lidia circondata,--aureola giovanile,--dai capelli biondi, gli occhi
vividi, e quell'indefinita sola bianchezza della carnagione, propria
dell'età più bella, m'apparivano ben lumeggiati, precisi. L'astuzia
d'avvolgersi diligentemente nelle coperte, dovuta al pudore, non aveva
sortito il suo effetto, perchè le forme di Lidia si determinavano con
procace evidenza e se la fanciulla non fosse stata volta sul fianco,
le coltri sottili avrebbero delineato anche il seno.
--Sarebbe possibile,--dissi,--baciare una tua manina?
--Possibile,--rispose Lidia, sporgendo la mano destra con un sorriso.
La breve camicia lasciava il braccio nudo. Vidi passar negli occhi di
Lidia il quesito insolubile di darmi la mano coprendo il braccio; ma
cedette all'inattuabilità di tale disegno; nel movimento un po'
precipitoso, le coltri si smossero, ed io le rattenni, e per stabilire
e mantenere l'insperato vantaggio, rapidamente dalla poltrona passai
sul fianco del letto, mentre istintivamente Lidia si ritraeva
facendomi posto.
L'atto riuscì seducentissimo nella sua schiettezza; la cortesia
femminile dominava la verecondia per un lampo e si faceva incontro
alla dolce necessità di cedere. Vidi e compresi, e la improvvisa
intelligenza di quel moto mi provocò un brivido lungo.
Non ero più nè ilare, nè tranquillo; consapevole d'una veniente
tristezza. Il mio amore invadeva l'animo con tale veemenza, da
sgominarlo, e farlo debole. Sorgeva misteriosa e meglio che da
qualunque legge, da quella verginità, tutta profumo e sorriso, ch'io
stava per distruggere,--la comprensione di quanto io doveva alla
fanciulla sacrificata.
All'ultimo baluardo, invece del goloso desiderio, io incontrava una
tenerezza mesta ingiustificabile, da avaro innanzi al tesoro
lungamente accarezzato. L'avaro non avrebbe voluto spenderlo, avrebbe
voluto aspettar tuttavia, gioirne tuttavia, promettersi e negarsi la
frenetica sensazione di tuffar le mani nell'oro, forse meritarsela di
più.
Io soffriva dell'attimo fuggente e dell'irreparabilità della
conquista.
Passai adagio le braccia sotto il busto di Lidia, attirandola a me.
Ella teneva gli occhi chiusi e il suo pallore mi spaventò.
--Anima,--susurrai,--soffri?
--No,--rispose Lidia, aprendo gli occhi.
La luce delle due lampade si projettava troppo intensa. Lasciai Lidia
e smorzai quella ch'era sulla tavola; ora la penombra si faceva
tutelare e propizia; ma tornando al mio posto, di nuovo il pallore
della fanciulla mi spaventò. Ella mi guardava smarrita, e
un'agitazione ch'era male vero, cresceva in lei, le pulsava nel petto,
nelle arterie, moltiplicandone il ritmo. Tentò di togliersi alla mia
stretta e si trovò sùbito libera. Erta sul busto, colle braccia rigide
che le facevano sostegno, rimase un attimo indecisa.
--Ho paura!--esclamò poi.--Non per te, Sergio, ma ho paura! Perdonami!
Le salivano convulsi alla gola singhiozzi senza lagrime; chino su di
lei, le mie mani sentivan le ciocche de' suoi capelli, morbide e
lisce, disordinate per il guanciale. Non osavo muovermi nè parlare;
lucide, lancinanti, memorie di spose morte così fra i primi amplessi
del marito, mi si piantarono nel cervello. Ma come ella avesse intuita
la mia angoscia superiore alla sua, Lidia mi gettò le braccia al
collo.
--Perdonami!--disse nuovamente.--Ho paura!
Noi ci cercammo le labbra, e al caldo contatto infine le lacrime di
Lidia proruppero, mi caddero brucianti sulle mani, chiamarono le mie;
la crisi quietò Lidia a poco a poco, lasciandola colla testa sul mio
petto, gli occhi chiusi, da' cui angoli scorrevan deliziosissime e
infantili le lagrime. Non so quanto così rimanessimo, vittime d'un
arcano fascino.
Quasi sentivamo i gravi silenzi della casa circondarci lentamente e
addormentarci la coscienza dell'ora. Tutt'e due sulla soglia d'una
felicità agognata, rimanevamo titubanti, malinconici e paurosi, perchè
nulla più del presente doveva tornare. Ella s'era distesa nel letto,
quasi calma; io la baciava adagio sui capelli, sugli occhi, sulla
bocca, sul collo, sulle mani, naufragante in un'onda voluttuosa.
L'avaro assaporava il suo tesoro che aveva anima e forma, e si
sferzava col ricordo di tutte le caducità umane per togliersi al pazzo
bisogno di serbare il tesoro intatto.
Quindi, la fanciulla ridivenne fiduciosa. E così l'attimo fuggente si
dileguò.


III.

Parecchi anni addietro, al buon signor Pfaff, io aveva domandato un
giorno:
--Perchè non mettete un'epigrafe sul vostro ricovero di pace e di
salute?
Il signor Pfaff m'aveva guardato senza rispondere, ed era stata la
figlia a spiegargli il mio concetto.
La signorina Silesia Pfaff, dopo aver discusso alcun poco in dialetto
grigione col padre, mi s'era rivolta dicendomi in italiano sgangherato
che il padre non capiva e che se volevo porre un'epigrafe sul piccolo
albergo, la dettassi a lei.
Fu così che sul ricovero di pace e di salute lampeggiò in lettere
d'oro l'iscrizione:
VENITE, DOLENTES.
E i dolenti venivano, uscendo dalla ressa delle città, pallidi e
smunti, e cercavano il silenzio, la vita semplice, l'armistizio di
pochi mesi nella battaglia rabbiosa di tutto l'anno. E v'ero venuto io
medesimo, ora curvo per la morte di mia madre, indimenticabile figura
di donna bruna e nobile; ora freddo, caustico, per l'opprimente
perizia degli inganni; ora scosso e attonito per la morte inaspettata
di mio padre; ora vuoto ed aspro per diffidenza degli altri e di me
stesso; e ogni volta, l'anima aveva ricongiunte le ferite, s'era
dilatata nel silenzio, s'era compiaciuta di quella grande e libera
solitudine.
Al caro luogo avevo prestata quasi una simbolica potenza di farmaco.
Vi sognavo bene, come in città non era possibile, e vi attingevo
preziosi cumuli d'energia morale; talchè nelle gioje lo desideravo per
meglio compenetrarle, e nei grandi dolori per essere umile innanzi a
superbi spettacoli di paesaggio.
L'albergo del signor Pfaff era situato fra Splügen e Andeer, sulla via
per Coira, in posizione così felice che sempre, quando la diligenza vi
si fermava dinanzi, erano esclamazioni ammirative fra i viaggiatori.
Poichè, dietro la casa, i prati si stendevan verdemente fino al Reno,
indomato ancora e ruinoso; davanti eran la strada postale e la lunga
serie di pinete che costeggian quella strada per notevole tratto; la
conca nella quale l'albergo ha fondamento, è formata da montagne,
alcune ricche d'abeti e di lecci, altre brulle quasi il fuoco vi sia
passato con indileguabil traccia di devastazione. Intorno, vie
numerose conducono ai boschi, ai villaggi, ai monti; una, poco aperta
allo sguardo, dietro la casa del signor Pfaff, costeggia il Reno,
avvallata fra gli alberi fitti, e conserva l'indole selvaggia delle
strade raramente percorse.
Più in alto, al disopra dell'albergo, il villaggio di Sufers, con
quelle case metà di legno e metà di pietra, che danno sùbito l'imagine
della Svizzera, come le pagode caratterizzano l'India e gli edifici a
più tetti e a sesto acuto indicano la Cina. Spesso, in quel villaggio
di Sufers, preziosamente conservati sul davanzale delle finestre,
alcuni vasi di geranî e di garofani, risvegliano una nota d'allegria
gentile.
Noi eravamo diretti al ricovero di pace, non dolenti, ma lieti anzi
d'inesprimibile contentezza.
Avevo pregata io Lidia di seguirmi lassù, perchè mi pareva ed era
triste cosa di non aver raccolte in un sol luogo ed in un successivo
spazio di tempo le più pure nostre memorie.
Un po' di vanità femminile aveva forse giovato a convincer Lidia del
mio disegno; l'idea di varcare il confine e di veder costumi nuovi, le
era parsa men comune e preferibile a un pellegrinaggio per città
italiane, notissime a tutti; ne' suoi viaggi colla famiglia, non s'era
mai spinta oltre il lago di Como o il lago Maggiore.
Salimmo nella carrozza da posta verso mezzogiorno. L'antico veicolo
dipinto in giallo e rosso e tirato da quattro cavalli, ci poteva
illudere un istante di non vivere in un'età insopportabilmente civile
e meccanica. Noi avevamo agio a gustare la bellezza dei luoghi e ad
aspirare una purissima aria montanina, comecchè il giorno fosse ricco
d'azzurro e di sole.
Nella scossa che il veicolo ci comunicò mettendosi in moto, Lidia mi
si appoggiò tutta, ridendo, ed io le strinsi le mani. D'improvviso, mi
ricordavo una molestia patita il mattino stesso durante il viaggio in
battello da Como a Colico. V'era salito un giovane elegante, il quale
non aveva smesso di guardar Lidia con occhiate da scapolo esperto,
date a tempo e in modo che la persona osservata non se ne avvedesse.
Per l'insistenza stupida dell'ammiratore, avevo sofferto con ridicola
intensità, e pretestando l'aria troppo fresca, avevo finito per
invitar Lidia a discender meco sotto-coperta.
Era un principio di gelosia vaga? Senza dubbio, quantunque incoerente
col mio intero passato; non ero mai stato geloso d'alcuna donna, o
perchè non ne valeva la pena, o perchè sapevo allora dominarmi. Ma
indubitabilmente d'ora innanzi, gli sguardi, i sorrisi, le parole
dirette a Lidia, m'avrebbero fatto male; potevo affermarlo con
sicurezza quasi matematica.
Ciò era necessario e illogico siccome ogni paradosso di sentimento.
Lidia era bella, e non d'una bellezza così capricciosa da risvegliar
l'attenzione di pochi intelligenti; ma d'una bellezza fresca, ingenua,
assai pura, che avrebbe stimolato il desiderio perverso, quel
desiderio del male, del corrompere, dell'insozzare un'anima il quale è
peggiore di gran lunga d'ogni desiderio sensuale, e pur s'annida in
fondo al cuore di molti uomini.
Si sarebbe annidato fors'anco in fondo al mio cuore, se io fossi stato
estraneo a Lidia; anzi, peggio, vi s'era annidato già, in altri tempi,
ed io aveva commesso il delitto di pervertire _qualcuna_, pel solo
piacere di pervertirla, d'eccitarla malamente e di mutare una superba
in una donna come tutte le altre.
La cattiva esperienza m'insegnava che le anime chiarissime, incitano e
richiamano la malvagità; la fede provoca la negazione, quasi processo
di fenomeno elettrico. Forse non è lo stesso dei corpi femminili,
tanto più procaci quanto più velati allo sguardo in vesti ondeggianti,
con linea severa?
Lidia, dopo le prime esclamazioni di gioja al cospetto della vallata
che si offriva alla nostra manca,--parlava con inflessioni carezzanti
della voce colorita, e parlava d'ogni cosa, ora sorridendo alla figura
burbera del cocchiere appollajato e mutolo sul suo sedile, ora
intenerendosi alla vista dei monelli cenciosi che ne seguivano in
cerca d'un soldo. Come la carrozza, per la salita, andava al passo, i
monelli si facevano audaci, gettavano mazzolini d'_edelweiss_ sulle
ginocchia di Lidia, senza cessare dalla loro nenia mendicante. Lidia,
che credeva liberarsene coll'offrir loro qualche moneta, se li vedeva
comparir più numerosi.
V'era una bambina coi capelli arruffati, sudicia, scalza,
insistentissima; non appena un soldo veniva gettato, ella si slanciava
e lo disputava ai maschi, rotolandosi con loro per terra; la scena
crudelmente selvaggia stupiva Lidia, la quale non riusciva a
persuadersi che la monella appartenesse al medesimo sesso di lei.
Al riprender del trotto, i monelli rimasero, addietro, sparvero ad un
gomito della strada e in un nugolo di polvere. La carrozza procedeva
robustamente, e il vetturale, curvo, indifferente al paesaggio di cui
doveva conoscere ormai ogni anfrattuosità, spingeva i cavalli a
esortazioni e a tocchi di frusta.
Sui fianchi delle montagne si vedevamo sparsi poledri e giovenche,
intenti al pascolo, volgendo appena la testa al passaggio del veicolo
romoroso. Alcune fra le giovenche, piantate in mezzo alla strada con
bruta apatia, costringevano il vetturale a frustarle perchè facessero
largo, e oltrepassata la carrozza, riprendevano, la loro immobilità,
coll'occhio atono e fisso, come animali di bronzo.
Dopo il cambio dei cavalli a Campodolcino,--collocato graziosamente in
un'estesa verde di praterie,--l'aria si fece più viva, il paesaggio
intorno più tetro per maestosità di montagne, la salita più decisa.
M'ero lasciato prender volentieri dalla vivacità di Lidia; era
impossibile non esultare alla soddisfazione complessa che illuminava
la donna e le brillava negli occhi.
Discesi dalla vettura, noi le camminavamo a fianco, studiando di
precorrerla quando il terreno ce lo permettesse. La strada, scavata a
giri nel fianco della montagna, ci offriva d'accorciar di molto il
cammino che il veicolo doveva seguir tutto e ci arrampicavamo sui
rialzi per balzar dall'altro lato della strada. Lidia, coll'abito
corto da viaggio, i piccoli piedi calzati in forti stivaletti di cuojo
giallo, svelta, agile, s'appoggiava alla mia mano e spiccava il salto
con arditezza. Ma si stancò presto e dovemmo attender la carrozza, che
avevamo vantaggiosamente distanziata, per risalirvi. Il vetturale ci
guardava con occhio tenero, quasi paterno e non riprendeva il viaggio
se non certo ch'io avessi ben collocata Lidia.
Una pigra ma sicura mutazione mi faceva sentire, man mano procedendo,
che le memorie dei luoghi noti m'entravan nell'animo spalancato, ne
cacciavano ogni imagine faticosa della città, mi davano una superbia
di possesso quasi io solo fossi passato di là e solo conoscessi le
voci sonore e profonde dell'altitudini; poi, guardando Lidia,--ora
avvolta in uno sciallo da viaggio per ripararsi dall'aria
pungente,--provavo un fremito leggiero, nulla giudicando più dolce di
simile amore in simili plaghe.
A un tratto, Lidia volse il capo verso di me, i nostri sguardi
s'incontrarono, e la donna intuì il mio pensiero dilettosamente
soggettivo.
--Sei venuto spesso qui?--ella chiese.
--Cinque anni di séguito, in questa medesima stagione.
--Solo?--ribattè ella, con qualche esitanza.
--Sempre solo.... Puoi supporre?...
Ma no. Lidia non mi supponeva capace di condurla dove altre memorie di
donne vivessero, e mi pentii del sospetto, e per cancellarlo le narrai
in quali condizioni avessi scelto quel ricovero tranquillo, le dissi
dell'epigrafe sulla casa, e ormai mutabile in quest'altra: «_Venite,
gaudentes_» se _gaudente_ non avesse una significazione materiale e
volgare.
Le brevi domande, però, mi ricordarono ch'io doveva la storia del mio
passato a Lidia.
Non sapeva io tutto di lei? La sua vita fino al mio incontro era stata
così semplice, così eguale, che ponendo piede in casa Folengo, avevo
capito come ogni giorno vi fosse monotono e puro, perchè Lidia non
aveva amiche. Soffersi quindi, nuovamente, una curiosa molestia dacchè
il mio passato era ben diverso, inutilmente ricco d'intenzioni variate
e inesorabilmente vuoto di bene e di male grande; ero stato un uomo
allegro e triste, malvagio o beffardo, a seconda dei casi, e per
questo, nel mentre nulla avevo fatto che mi distinguesse da qualunque
altro scapolo,--nulla, nel medesimo tempo, era più increscioso a
narrarsi di quegli anni desolati, infingardi; chiusi nella ricerca di
commozioni, comunque fossero, anche bassamente colpose.
Stabilii, dietro la rapida sintesi, di non parlare e d'attendere che
Lidia desiderasse o in qualsivoglia modo mi ricercasse quella storia,
un po' fosca, un po' grigia.
Pel momento, la donna era assorta nella contemplazione della cascata
di Madesimo, presso Pianazzo, balzante rivo d'acqua bianchissima,
spumosa, lunga e molle, che rallegrava d'un tratto la montagna nera e
nel silenzio della strada deserta mormorava con liquida cadenza.
Madesimo, l'elegante ritrovo, era alla nostra destra e larghi affissi
sopra una casa cantoniera ne indicavan la via; ma pel bisogno di calma
ch'io sentiva, per il tepido fiorir dell'amore di Lidia, il luogo
riusciva troppo chiassoso e vivace.
Più oltre, e a più fresca altezza, attirò gli sguardi della donna il
villaggio d'Isola, giù nella vallata, disperso a gruppi di capanne
brune, dal tetto acuto, e arrampicate pel versante dell'opposta
montagna in notevole estensione e in una mutezza desolante di luce,
anche malinconica per la nudità del monte sul quale eran disseminate.
Assai piccole e quasi immobili, si scorgevan qua e là delle gregge di
mucche. E tutto appariva traverso il fogliame degli alberi che avevamo
a fianco della diligenza e che sembrava un immenso ornato, frapposto
al villaggio da un artista bizzarro.
Una particolarità del cammino erano ora le gallerie, attraversanti il
ventre della montagna, e sotto le quali passavamo. Istintivamente,
Lidia si curvò, come temesse d'urtar la testa nelle travi che
sostenevan l'opera ardita, dalle vôlte umide, stillanti, le cui
aperture, intervallate a guisa di finestre verso il fianco sinistro
del monte, illuminavano con regolar quadrato di luce.
V'eravamo giunti per una via serpentina, talchè, volgendoci, potevamo
ritrovar coll'occhio il percorso fatto.
Lidia, nella quale l'incontro delle gallerie aveva ridestata la
maraviglia graziosamente loquace delle prime tappe, si lamentava del
freddo, soffiato coll'aria violenta, che trovandoci in abiti estivi
aveva buon giuoco anche sulle coperte da viaggio cui eravamo ricorsi.
La molestia durò poco, perchè oltrepassata la vetta dello Spluga e
l'ultima cantoniera italiana, cominciò la discesa, prima quasi
insensibile, poi rapida così che i cavalli di timone dovevan resistere
all'impeto del veicolo piuttosto che favorirlo, e quelli di volata si
piegavano abilmente sul fianco per mantener l'equilibrio.
Era una bella e potente sensazione, questa della discesa. Il paesaggio
svizzero si presentava foltissimo di pini, cosicchè pareva vi ci
tuffassimo, e il profumo di resina, l'aria nitida venissero ad
incontrarci, penetrandoci beneficamente nei polmoni.
Lidia non mostrava d'essere stanca più di quanto fosse al principio
del viaggio e come il sole andava riprendendo calore, ella si toglieva
le coperte, sorridendo alla corsa piacevole, colle mani appoggiate
allo sportello e il busto eretto; l'onda d'ossigeno le prestava nuove
forze; la fatica, lo sbalordimento del viaggio, i mutamenti improvvisi
di temperatura, di cui avevo temuto per la fragile donna, svanivano
innanzi al bisogno nervoso di giungere, dal quale ella appariva
animata.
La discesa continuava veloce; vedevamo, come già prima la via
percorsa, in basso tutta la via da percorrere, a nastro, bianca e
soleggiata, ombrosa di tanto in tanto,--e lontana, diritta, eguale, la
strada che da Splügen conduce a Nufenen e a Hinterrhein. Lidia
m'interrogava sulla situazione della casa Pfaff, dimostrandosi felice
del mio disegno effettuato, sentendo inconscia ella pure la voluttà