Diana degli Embriaci: Storia del XII secolo - 10

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_Sciarif_ ha abbandonato Aroer da un mese; egli ha volto i suoi passi a
Kenat, sui confini del deserto di Zin.
— A Kenat, il castello del Dai al Kebir?
— Tu l'hai detto. —
Il vecchio Abd el Rhaman accolse l'annunzio con una smorfia, che non
prometteva niente di buono ai suoi compagni di viaggio.
— Che cos'è questo Dai al Kebir? — domandò lo scudiero, a cui non
sfuggiva un atto, un moto, del volto abbronzato di Abd el Rhaman.
— Il capo degli Assassini, — rispose il vecchio aggrottando le ciglia;
— intendo parlare degli Assassini occidentali, che vogliono avere anche
qui il loro Alamut, il loro nido d'avvoltoi. —
Il vocabolo _Assassino_ non aveva ancora pe' Cristiani il suo brutto
significato, o, per dire più veramente, non risvegliava ancora l'idea
di sicario o di ladrone. I nostri viaggiatori non dovevano dunque
indovinare la gravità dell'annunzio, che dalla cera brusca con cui lo
aveva accolto il loro vecchio ed esperto condottiero.
Che cos'erano gli Assassini occidentali, di cui parlava Abd el Rhaman?
Che cos'era il loro nido d'avvoltoi? Per farlo intendere ai lettori,
che non hanno dimestichezza con queste diavolerie della storia, dovrò
toccar brevemente degli Assassini orientali, e, quel che è peggio,
incominciare dai parlar di tutt'altro; per esempio, del _kief_.
È questo un vocabolo intraducibile nelle lingue d'Europa. La _siesta_
degli Spagnuoli non ci ha nulla a vedere; il «dolce far niente» degli
Italiani non ne è che una pallida immagine. Non basta far niente e
sentirne la dolcezza; è mestieri altresì di essere penetrati fino al
midollo dal sentimento della propria inerzia. Il _kief_ è il gaudio,
la beatitudine paradisiaca del sentirsi annientato; è il non essere,
introdotto, identificato, nella coscienza dell'essere.
Queste parranno stranezze, ma la colpa non è mia. Ora, per giungere
al _kief_ non c'è di meglio che il _kief_; il che sarà manifesto a
chiunque sappia che in molti casi la lingua non ha che un vocabolo
per esprimere l'effetto e la causa. È _kief_ ogni sostanza capace
di produrre lo stupore dell'ebrezza; e _kief_ per eccellenza è
l'_ascisce_, erba nel senso generico, ma, nel caso concreto, lo stelo
del canape indiano, nella sua parte più tenera, cioè a dire le ultime
foglie, i fiori e la semente; tutta roba che si può fumare disseccata,
o mangiare indolcita con zucchero e burro, o bere disciolta in una
infusione, tra due sorsate di caffè e due boccate di fumo del vostro
_narghilè_. Scusate, lettori, vi parlo come se foste altrettanti
discendenti d'Ismaele.
L'uso dell'_ascisce_ era conosciuto in Oriente da tempi immemorabili. —
«Lascia il vino in disparte: — cantano i poeti arabi; — prendi in sua
vece la coppa di Haider, la coppa che esala l'odore dell'ambra e che
brilla del verde sfolgoreggiante dello smeraldo.»
Ciò premesso, per non averci a tornar su, veniamo agli _Asciscin_, che
avrete già capito esser tutt'uno cogli Assassini. Sullo scorcio del
decimo secolo si formò in Oriente questa setta religiosa e politica,
che osò arrogarsi il diritto di pronunziare l'anatema contro i suoi
avversarii, rincalzando la sua riprovazione coll'omicidio. Gli orrendi
settari ebbero il nome dall'_ascisce_ di cui s'inebriavano gl'iniziati,
i _fedàvi_, che avrò l'onore di farvi conoscere più intimamente tra
poco.
Quali erano le ragioni storiche della sètta? In quattro parole mi
sbrigo. Poichè Abdallà ebbe fondata in Egitto la dinastia dei Fatimiti,
discendenti da un Ismaele, settimo imano nella linea di Alì, che
era stato il marito di Fatima, la bella figliuola di Maometto, si
chiamarono Ismaeliti tutti i partigiani che negavano formalmente la
legittimità dei Califfi ortodossi e che erano devoti alla stirpe di
Alì, considerando che il potere sovrumano di Maometto fosse in quella
rimasto celato. Questo arcano potere doveva manifestarsi nella persona
d'un Messia, la cui apparizione dipendeva da certi eventi. La nuova
dottrina, dopo avere scosso la Persia e la Siria, propagata in tutte
le terre mussulmane da accorti missionarii, avea posto il suo centro al
Cairo, nella grande scuola conosciuta sotto il nome di _Dar el Hakmet_,
o casa della sapienza, coll'intento palese di sostenere i diritti dei
califfi Fatimiti al dominio universale, e di affrettare la distruzione
dei califfi Abassidi di Bagdad come usurpatori.
La sètta aveva un capo supremo, _Dai el Dvat_, ossia direttore dei
missionarii, e una dottrina segreta, a cui si giungeva per iniziazioni
successive; lungo i gradi superiori della gerarchia. Avvenne che uno di
que' _dais_, chiamato Hassan Ben Deba Homairi, parendogli troppo lento
e timido il progredir della sètta, immaginasse di stabilirne l'impero
con una vasta cospirazione e coll'assassinio. In gran favore al Cairo,
potente nella scuola, propenso alle idee persiane circa la nessuna
importanza degli atti esteriori, Hassan ammetteva che i concetti capaci
di ingenerare la convinzione personale avessero anche il diritto di
armare la mano dell'uomo convinto; che la guerra, fondata sul consenso
delle moltitudini, era più incomoda, più malagevole e più micidiale
dell'uccisione proditoria, la quale non richiede altro, fuorchè un
braccio devoto ed audace.
Così trionfava la legge del pugnale. Per svolgere più liberamente
il suo codice nuovo. Hassan nel 1090 s'impadronì con inganno del
castello di Ilhaamut, o il nido d'avoltoi, così chiamato per la sua
eminente postura non lungi da Casvin, nelle montagne di Rudbar; ne
fece una cittadella inespugnabile, dove educava i suoi sicarii, e
da dove egli fulminava la morte a' suoi nemici, a mano a mano che li
avea condannati. Solo e chiuso nelle sue stanze, lo _Sceik el Gebal_
(vecchio della montagna) non uscì che due volte nei trentacinque
anni del suo spaventoso regno, di là trasmettendo i suoi cenni a tre
grandi priori (_Dai al Kebirs_) che comandavano in suo nome, a Gebal,
nel Kuhistan e nella Siria, e guidando, con mente fredda e sicura,
il pugnale dei fedàvi. Questi, il cui nome significa «coloro che si
sacrificano» erano giovinetti comperati o rapiti nei teneri anni,
educati a non avere altro Dio che il vecchio della montagna, altra
volontà che la sua, pronti ad ogni sbaraglio, agguerriti in ogni
maniera di prove.
Si leggono nella storia delle crociate meravigliosi racconti intorno
al fanatismo di quei sicarii. Il conte di Sciampagna, visitando un
giorno il castello di Alamut, vide due uomini ad un semplice comando
del padrone precipitarsi dall'alto di una torre, per dare a lui, come
straniero, un giusto concetto della disciplina che regnava colà.
Infiammati questi giovani mercè la predicazione, si addormentavano
con un beveraggio ed erano portati a risvegliarsi in un giardino di
delizie. Ma qui, lettori, se permettete, dò la parola al più veridico
dei narratori, le cui storie meravigliose parvero fino ai dì nostri un
romanzo.
«Il Veglio aveva fatto fare tra due montagne in una valle il più bel
giardino e il più grande del mondo; quivi avea tutt'i frutti e li più
belli palagi del mondo, tutti dipinti a oro e a bestie e ad uccelli.
Quivi era condotti; per tale veniva acqua, per tale miele e per tale
vino. Quivi era donzelli e donzelle, gli più belli del mondo e che
meglio sapevano cantare, suonare e ballare. E faceva lo Veglio credere
a costoro che quello era il paradiso... perchè Maometto disse che chi
andasse in paradiso avrebbe di belle femmine tante quante volesse,
e quivi troverebbe fiumi di latte, di miele e di vino. I Saracini di
quella contrada credevano veramente che quello fosse il paradiso. E
in questo giardino non entrava se non colui che il Veglio volea fare
assassino.
«All'entrata del giardino il Veglio aveva un castello sì forte, che non
temeva niun uomo del mondo. Il Veglio teneva in sua corte tutti giovani
di dodici anni, che gli paressero da diventare prodi uomini. Quando
il Veglio ne faceva mettere nel giardino a quattro, a dieci, a venti,
faceva loro dar bere oppio; e quelli dormivano bene tre dì. E facevali
portare nel giardino e al tempo li faceva svegliare. Quando i giovani
si svegliavano, e si trovavano là entro, e vedevano tutte queste cose,
veramente si credevano essere in paradiso. E queste donzelle sempre
stavano con loro in canti e in grandi sollazzi; donde egli avevano sì
quello che volevano, che mai per lo volere non si sarebbono partiti.
«Il Veglio tiene bella corte e ricca, e fa credere a quelli della
Montagna che così sia com'io vi ho detto. E quando egli vuol mandare
alcuno di que' giovani in qualche luogo, fa dar loro un beveraggio per
cui dormono, e li fa recare fuor del giardino nel suo palazzo.
«Quando e' si svegliano e si trovano quivi, molto si maravigliano,
e sono assai tristi, perchè si trovano fuori del paradiso. Eglino
se ne vanno dinanzi al Veglio, credendo che sia un gran profeta, e
inginocchiansi.
«Egli domanda loro: donde venite?
«Rispondono: dal paradiso: e gli contano quello che v'hanno veduto
dentro, e hanno gran voglia di tornarvi.
«E quando il Veglio vuol fare uccidere alcuna persona, egli fa torre
quello lo quale sia più vigoroso, e fagli uccidere cui egli vuole; e
coloro lo fanno volentieri, per ritornare nel paradiso.
«Se scampano, ritornano al loro signore: se sono presi, vogliono
morire, credendo ritornare al paradiso.
«E quando il Veglio vuol far uccidere alcun uomo, egli prende il
giovane e dice: va, fa' tal cosa, e questo ti fo perchè ti voglio far
ritornare al paradiso. E gli Assassini vanno, fannolo molto volontieri.
«E in questa maniera non campa niun uomo dinanzi al Veglio della
Montagna, a cui egli la vuol fare. E sì, vi dico, che più re gli fanno
tributo per quella paura.»
Adesso, lettori umanissimi, chiuderemo i viaggi di Marco Polo, per
dir brevemente dell'altro. Era l'_ascisce_ quell'oppiato con cui i
capi dell'infame sètta annebbiavano l'intelletto dei loro sicarii,
riducendoli in quello stato di stupida obbedienza, che li rendeva così
terribili ai principi d'Asia e d'Europa. Questi esecutori dei feroci
comandi, che erano i giovani Fedàvi, andavano vestiti di bianco, con
berrette e cinture rosse, e armati di acute daghe; ma usavano ogni
foggia di travestimento, allorchè erano mandati a qualche impresa
difficile.
Tra per forza d'armi e d'inganni, gli Assassini s'impadronirono in
breve di molte castella e luoghi muniti della Persia. Il soldano Malek
Scià li assalì, i dottori della legge li scomunicarono; ma i Fedàvi
spargevano morti segrete fra i nemici dell'ordine; il ministro del
sultano, Nizam-u-Malk, fu colpito di stilo; il suo signore morì poco
dopo, improvvisamente, e di veleno, come ne corse il sospetto.
Di là si sparsero nella Siria. Al tempo di cui narro, Abus Wefa, _Dai
al Kebir_ d'Occidente, doveva passare dal castello di Kanat fino alle
montagne presso Tripoli (Tripoli di Palestina, intendiamoci), stringer
trattati coi Turchi, che gli cedettero alcuni distretti, e perfino
col re di Gerusalemme, Baldovino II, essendo auspice e mediatore al
trattato Ugo de' Pagani, un gran maestro dei Templarii!
Capite che roba? Per fortuna, di questo non abbiamo a trattar noi.
Siamo nel 1102; Hassan, il terribile _Sceik al Gebal_, è nella sua
rocca persiana di Alamut, dove camperà ancora ventidue anni. Abu
Wefa, il gran priore di Palestina, è tuttavia a Kanat, donde negozia
e congiura con Afdal, l'usurpatore, e con Bahr Ibn, il pretendente
al trono d'Egitto, coi Sultani Selgiucidi, coi reali di Gerusalemme,
con tutti, pur di estendere il suo dominio nella Terra Santa, intorno
al nuovo regno della Croce; disposto insomma ad allearsi con uno
dei tanti, per vincere gli altri, e tradir tutti ad un modo. Era la
politica del tempo; è pur troppo la politica di tutti i tempi.
I nostri viaggiatori, brevemente informati di ciò che sapeva Abd
el Rhaman intorno a questi Assassini, tennero consiglio tra loro.
Lo scudiero voleva che si andasse tutti ugualmente, perchè gli
Assassini, se erano davvero gli amici dello _Sciarif_ e se questi si
era avvicinato al loro castello, non dovevano incuter timore; e infine
perchè non erano ladroni, nè usavano andare attorno in così gran
numero, da spaventare una schiera di gente risoluta.
Ma prevalse il consiglio di Gandolfo, che si avesse a dividere la
gente in due schiere. La prima e la più numerosa, coi cammelli e una
parte degli arcadori, sarebbe rimasta in attesa al pozzo di Rehobot;
egli, con una mano di uomini volenterosi e una guida araba, si sarebbe
spinto innanzi per le gole di Cades, alla ricerca di Bahr Ibn. Un campo
numeroso, come doveva essere quello dello _Sciarif_, non poteva mica
nascondersi così facilmente in quei luoghi, nè viverci in guisa che se
ne avessero a perder le tracce.
Caffaro di Caschifellone aveva assentito al parere di Gandolfo. E
voltosi al biondo scudiero, gli aveva detto:
— Rimarrò dunque io, per vegliare su voi.
— No, no; andate, messere; — rispose lo scudiero, con accento
supplichevole, che non dava modo di resistergli; — andate anche voi con
messere Gandolfo.
— Ma voi? lasciarvi qui senza un amico?.... —
Lo scudiero crollò la testa, in atto di chi persiste nella sua
deliberazione e non ammette argomentazioni in contrario.
— Abd el Rhaman è un brav'uomo.; diss'egli; — e non mancherà alla sua
fede. —
Il vecchio condottiero, udendo quelle parole, si fece avanti, e,
postosi una mano sul petto, disse con accento solenne:
— Quando una carovana è in viaggio, essa è in balìa del _Krebir_. Ma
questi ne è mallevadore dinanzi alla legge e deve premunirla contro
tutti gli eventi che non procedono da Dio. Egli paga il prezzo del
sangue per tutti i viaggiatori che per sua colpa muoiono, si sbandano,
sono uccisi, o scompaiono; egli è severamente punito se la carovana
viene a patire per mancanza d'acqua, o se egli non ha saputo difenderla
contro i ladroni del deserto. L'Emiro di Gaza ha una parola sicura,
e un braccio lungo, che saprebbe cogliermi dovunque, se io mancassi
al mio debito. Ma io ti giuro, o cavaliere, ti giuro per la barba
venerabile del Profeta, che io veglierò sul capo del giovinetto, come
gli angeli Moahibbat sul capo del figlio di Abd el Mettaleb, donde
nacque Maometto, il nostro signore. Se io vengo meno al mio giuramento,
possa colui che è sollecito nel fare i conti, mandarmi in un batter
d'occhio sul ponte _al Sirat_, che è più stretto d'un capello e più
affilato del taglio d'una spada, e piombare nello _Hawigat_, che è il
peggiore tra tutti i gironi d'inferno, come quello che è destinato agli
ipocriti. —
Nelle loro frequenti relazioni di guerra e di pace coi Saracini, i
Crociati avevano imparato a tenere in pregio cosiffatti giuramenti.
Epperciò il nostro amico Caffaro di Caschifellone si acquetò facilmente
alle promesse del vecchio. Strinse la mano al biondo scudiero, che gli
augurò dal profondo del cuore un sollecito ritorno, e partì.
Gandolfo del Moro era già balzato in sella, e dieci animosi arcadori,
seguiti da due cammelli, colle provvigioni necessarie al viaggio,
tenevano dietro al guidatore, scelto da Abd el Rhaman tra i migliori
della sua scorta.


CAPITOLO XIII.
Alle strette di Cades.

Secondo i computi del vecchio _Krebir_, l'assenza dei cavalieri non
doveva andar oltre i cinque giorni, se lo Sciarif aveva il suo campo di
là dalle gole di Cades, nè oltre i sette, o gli otto alla più trista,
se era andato fino alla ròcca di Kanat.
Per altro, questa seconda ipotesi, quantunque avvalorata dalle notizie
dei viaggiatori di Sefat, pareva inaccettabile al savio condottiero. Lo
_Sciarif_ aveva gente molta con sè; non tanta da poter tentare alcuna
impresa di rilievo, ma sempre troppa per riuscire ospite accetto ad
alcuno. Anche ammettendo che il _Dai al Kebir_ d'Occidente fosse in
una certa dimestichezza con lui, non era da credere che gli Assassini
volessero ospitarlo con tutti i suoi nella ròcca; testimonianza di
amicizia che sarebbe stata veramente soverchia, e di confidenza che i
tempi e gli usi d'allora non consentivano certamente.
I primi cinque giorni d'aspettazione passarono; lunghi, ci s'intende,
ma abbastanza tranquilli, anche per l'animo del biondo scudiero,
che aveva già tanto aspettato, da saper sostenere con rassegnazione
quell'ultima prova.
Ma al sesto giorno, l'ansietà incominciò a mostrarsi sul volto di Abd
el Rhaman; il turbamento su quello dello scudiero.
Il vecchio _Krebir_ passava la giornata esplorando degli occhi
l'orizzonte, la notte aguzzando l'orecchio a tutti i lontani rumori del
deserto. Ma invano; la linea dell'orizzonte non appariva turbata dal
più piccolo nembo di polvere; gli echi del deserto erano muti, e non
ripetevano che il grido degli sciacalli, vaganti in busca di preda.
Triste il settimo giorno; più triste a gran pezza l'ottavo. Già lo
scudiero aveva fatto la proposta di lasciare il pozzo di Rehobot per
avvicinarsi alle gole di Gades e per andare anche più oltre, fino a
tanto non si avessero nuove dei compagni. Ma al vecchio _Krebir_ non
parve prudente di dargli retta. A lui erano affidate le sorti della
carovana; la vita del biondo compagno dipendeva dalla sua vigilanza.
Lo scudiero non fece più motto; si chiuse nel suo dolore e aspettò, non
più i compagni partiti, ma la sua ultima ora; chè veramente gli pareva
dovesse scoppiargli il cuore ad ogni tratto. Seduto a piè di una palma,
sull'ultimo lembo dell'oasi, restava lunghe ore immobile, cogli sguardi
fissi da quella parte del deserto per dove erano spariti i cavalieri.
E lo struggeva il pensiero di tutti i lontani, della famiglia, della
patria abbandonata, e di Arrigo, del povero Arrigo, che doveva tenergli
luogo d'ogni cosa più diletta, e che forse era campato da una morte
gloriosa entro le mura di Cesarea, per soccombere oscuramente in un
angolo ignorato della terra di Moab. E si pentiva allora, ma tardi,
si pentiva amaramente di non aver fatto prova d'una più salda volontà,
quando avea detto di seguire i suoi compagni di viaggio in quell'ultima
parte della difficile impresa. Che cos'erano i pericoli a cui essi
andavano incontro, al paragone dell'affanno, dell'ansia mortale a cui
era in preda il suo cuore?
Abd el Rhaman si provava a consolarlo; ma le sue massime orientali,
impresse di un cupo fatalismo, facevano effetto contrario.
— Ci son dieci cose nel mondo, l'una più forte dell'altra; — gli diceva
una volta il _Krebir_; — anzi tutto le montagne; poi il ferro che
spiana le montagne; il fuoco che liquefà il ferro; l'acqua che spegne
il fuoco; le nubi che assorbono l'acqua; il vento che scaccia le nubi;
l'uomo che sfida il vento; l'ebbrezza che vince l'uomo; il sonno che
dissipa l'ebbrezza; il dolore che uccide il sonno.
— Ed altre ancora; — rispose lo scudiero; — la morte che tronca il
dolore; l'amore che trionfa della morte. —
Sapeva il vecchio _Krebir_ di avere in custodia una donna?
Dall'ossequio con cui parlava al biondo scudiero, era lecito
argomentare che almeno almeno lo sospettasse.
Del resto, non era cosa nuova nè strana a que' tempi che una donna
andasse attorno sotto spoglie virili, e il Tasso e l'Ariosto, colle
loro Clorinde e le loro Bradamanti, non hanno inventato nulla che
faccia contro al vero, nè al verosimile, della storia. La Cavalleria,
impasto di usanze nordiche e di mitologie greche, derivava dalle
Amazzoni le sue donne guerriere, e non le considerava men donne per
questo, come farebbe la società moderna, dopo che ha inventato tante
capestrerie, come la cipria e il mal di nervi, e bastionata la pretesa
debolezza d'Eva colla faldiglia, il guardinfante e il crinolino.
Indovinasse, o no, il segreto dello scudiero, Abd el Rhaman capì che,
a rimanere più oltre colà, il poverino gli sarebbe morto di crepacuore.
Come rimediarci? Egli c'è un modo, per ingannare l'ansia mortale dello
attendere; e questo è di andare incontro a ciò che si attende. Sia un
conforto morale, derivato dalla speranza che si ravviva, o un benefizio
fisico, frutto della distrazione che arreca una giusta vicenda di
riposo e di moto, il fatto sta che l'ansia e l'affanno si chetano un
tratto nell'andare. Lo spirito è più calmo, o almeno più arrendevole ai
consigli della pazienza, quando può trasmettere un poco della sua furia
alle gambe.
Abd el Rhaman, da quell'uomo serio che era, chiamò prima di tutto i
pensieri a capitolo.
— Se vado e c'incoglie una disgrazia, io pago il prezzo del sangue. E
questo prezzo non sarà di cento cammelli, secondo vuole il Corano; sarà
la mia testa senz'altro, poichè l'emiro Mohammed pensa a conservarsi
l'amicizia dei Franchi. —
I Crociati erano allora tutti Franchi per gli Arabi, Goffredo di
Buglione e Baldovino erano francesi, lo rammentate, e la crociata era
stata bandita a Clermont.
Ma tiriamo innanzi col soliloquio di Abd el Rhaman, che del resto non
andrà in lungo come quello di Amleto.
— Se resto, attenendomi alla buona ragione del luogo sicuro, non faccio
niente di meglio, perchè questo povero ragazzo mi muore. Non parla, non
mangia più.... ed io posso già dirmi un uomo spacciato. —
La conseguenza di questo dilemma del vecchio _Krebir_ fu questa, che
tra due mali si avesse a scegliere il minore. Infatti, non era mica
detto che, allontanatisi dal pozzo ospitale di Rehobot, dovessero
lasciare infallantemente la vita in uno scontro coi ladroni del
deserto. Questa ribaldaglia scorazzava qua e là, un po' a tramontana,
verso Hebron, un po' a mezzogiorno, verso i confini dell'Egitto. Ma era
egli da credere che appunto allora, mentre lo _Sciarif_ vagava colla
sua gente in quelle stesse regioni, i nomadi predatori fossero rimasti
in quel vecchio teatro delle loro gesta?
Questa argomentazione finì di persuadere Abd el Rhaman, che decise
di muoversi dal pozzo di Rehobot, per andare due giornate più verso
levante, fino alle gole di Cades, nel paese degli Edomiti.
Non è a dire come il biondo scudiero accogliesse l'annunzio. Una vampa
di allegrezza, la prima dopo tanti giorni di abbattimento, colorò le
sue guance smorte.
La carovana riprese il suo cammino interrotto. Gli arcadori genovesi,
bene intendendo gli onesti disegni del vecchio, gli obbedirono, come
avrebbero obbedito a messer Caffaro di Caschifellone. E questo non
farà meraviglia, chi pensi che i Genovesi, marinai anzi tutto, non
partecipavano a tutti i dirizzoni dell'epoca. Combattevano i Saracini,
ma sapevano anche render giustizia alla virtù d'un nemico. Il quale,
del resto, era Cananeo, cioè a dire consanguineo di quei Fenicii,
con cui la gente ligure aveva avuto relazioni di traffico fino dagli
antichissimi tempi.
Abd el Rhaman non andava tuttavia senza le debite cautele. Entravano in
una parte del deserto dove era difficile imbattersi in gente da bene.
La strada delle carovane di Palestina per l'Egitto non appoggiava mai
più a levante del pozzo di Rehobot, e per incontrare l'altra via dei
pellegrini, che dalle provincie della Siria volgevano alla Mecca, era
mestier valicare tutto il deserto di Cades, costeggiare l'ultimo lembo
del lago Asfaltide nella valle di Siddim, e proseguire oltre un buon
tratto nel paese di Moab.
L'intervallo era sempre stato in balìa dei predoni. Per allora,
fortunatamente, doveva essere in balìa dello _Sciarif_ e dei suoi
alleati recenti, gli Assassini. Questo pensiero chetava un tratto
le ansietà del vecchio condottiero. Ma c'erano sempre le strette
di Cades da varcare, e Abd el Rhaman andava guardingo, stava sempre
coll'orecchio teso, alla guisa delle antilopi.
Al sopraggiungere della notte, disponeva il campo con una cura che
mai non aveva usato la maggiore in sua vita. E dopo aver disposto ogni
cosa a dovere, vigilava, non più con uno, ma con ambedue gli occhi. Il
grido notturno alle guardie del campo si ripeteva d'ora in ora con una
regolarità veramente ammirabile.
Alle strette di Cades raddoppiò la vigilanza, ma cessarono le grida. A
destra e a manca delle carovane si innalzavano certe colline, o cumuli
di sabbia, non diversi dagli altri che avevano attraversati nelle
vicinanze di Gaza, se non in questo, che i ciuffi di lentisco erano
più spessi e prendevano aspetto di macchia. L'occhio del condottiero
non poteva più spaziare come prima da tutti i lati dell'orizzonte;
bisognava esplorare il terreno, scambio di guardare da lunge, e
sopratutto bisognava tacere.
— Legate le fauci ai cammelli; — diceva il vecchio ai suoi cammellieri;
— e quando saranno sdraiati, non vi accostate a loro, affinchè non
avvenga loro di muggire alla vista dei padroni, e di dar nell'orecchio
al nemico. Questa notte ci contenteremo di datteri, perchè non è
prudenza accendere il fuoco. —
E agli arcadori diceva:
— Parlate piano, anzi non parlate affatto. Qui davvero è da ripetere il
nostro proverbio: la parola è d'argento, il silenzio è d'oro. —
Tuttavia, nel cuor della notte, egli stesso andò contro alla sua
legge. Un rumore gli era venuto all'orecchio, come di rami calpestati
nella macchia vicina. Fossero sciacalli, attratti colà dalla speranza
di preda? O leoni che lasciavano il covo, per andare in cerca di una
fontana? Abd el Rhaman fiutò lungamente l'aria, e non gli parve che si
trattasse di fiere. Uomini dunque?
Non stette più in forse un istante; balzò fuori del campo e ad alta
voce gridò:
— Servi di Dio, ascoltate. Chi si aggira intorno a noi, s'indugia
vicino alla morte. Egli non ci guadagnerà nulla a far ciò, e risica di
non veder più le palme del suo villaggio. Se egli è un povero viandante
affamato venga e gli daremo di che sfamarsi; se ha sete, si faccia
avanti e gli daremo a bere. È ignudo? E noi lo vestiremo. È stanco?
Riposerà, tra noi. Siamo credenti in Dio e nel Profeta, che viaggiamo
per le nostre faccende, e non vogliamo male a nessuno. —
Il silenzio della notte e la tranquillità del deserto conferivano alle
parole del vecchio una solennità paurosa.
— Era proprio necessario che tu parlassi? — chiese il biondo scudiero
al _krebir_, quando questi fu rientrato nel campo.
— Figliuol mio, — rispose Abd el Rhaman, — dice il proverbio dei ladri:
«la notte è la parte del povero, quando egli è coraggioso.» Siamo alle
strette di Cades, uno dei luoghi più pericolosi della Siria. Dio sa
quante carovane ci furono saccheggiate! Se sono ladroni che spiano il
momento opportuno per piombarci addosso, eglino sapranno oramai che
siamo preparati a riceverli. —
Gli arcadori di Genova erano già in piedi e tendevano le corde,
per vedere se la rugiada notturna non le avesse rallentate. Anche i
cammellieri si erano sciolti dai loro mantelli e aspettavano muti,
colla mano sull'impugnatura delle loro spade affilate e ricurve.
Tralasciando allora di rispondere allo scudiero, Abd el Rhaman
intuonò ad alta voce il «f_atihat oul kitab_», che in lingua nostra
significherebbe il capitolo che apre il volume, e che è per l'appunto
il primo capitolo del Corano, ossia il libro per eccellenza. I
Mussulmani attribuiscono ai sette versetti di questo capitolo una
virtù meravigliosa, come i Cristiani al segno della croce, con cui
incominciano tutte le loro preghiere.
Ed ecco il _fatihat_ del vecchio condottiero, a cui rispondevano le
voci di tutti gli Arabi suoi compagni.
«Lode a Dio, signore dell'universo,
«Il clemente, il misericordioso,
«Sovrano nel giorno della retribuzione!
«Sei tu che adoriamo, e di cui imploriamo il soccorso.
«Guidaci tu nel retto sentiero;
«Nel sentiero di coloro che tu ricolmi dei tuoi benefizii,
«Di coloro che non sono incorsi nella tua collera e che non si sono
smarriti.
«_Amin!_»
La carovana aveva a mala pena finito la sua invocazione, che un fruscio
si udì tra i lentischi, e poco stante il rumore di alcuni passi lungo
il pendìo della collina.
Abd el Rhaman non si era dunque ingannato. Non erano belve, ma uomini,
che vagavano nei pressi dell'accampamento.
I cammellieri diedero di piglio alle lancie e snudarono le spade
affilate e ricurve; gli arcadori incoccarono un verrettone sulla corda
dell'arco; il biondo scudiero strinse convulsivamente la daga che gli
pendeva al fianco e raccomandò la sua anima a Dio.
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