Diana degli Embriaci: Storia del XII secolo - 03

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Ma messer Guglielmo, niente turbato, si volse, e crollando le spalle,
disse a Gandolfo queste due sole parole:
— Avete paura? —
Era questa la frase consueta dell'Embriaco in simili casi, e non s'era
dato mai che ella non costringesse i contradittori al silenzio. Però
Gandolfo non ardì rispondere altro, se non poche parole confuse, colle
quali cercava di colorire alla meglio il senso della sua osservazione.
— Non temete! — soggiunse allora Guglielmo. — Non passerà mezz'ora
che noi saremo tutti in salvo, e senza colpo ferire. Vedete come que'
cani si dispongono a darci la caccia! Quel povero capitano ha creduto
che io volessi sfuggirgli in alto mare e subito allarga le sue ali
per metterci in mezzo, senza avvedersi che sparpaglia i suoi legni e
non potrà più farsi udire quando ci avrà altri comandi a dare. Suvvia,
figliuoli! nel nome di San Giorgio! Leva remi! Orza, al timone! Vira di
bordo! La prua contro terra! Forza nei remi! Arranca! Benissimo, così;
e adesso, buon dì ai Saracini! Che ve ne pare, Gandolfo? Saremo noi
fatti prigioni in mezz'ora? —
Dalle parole del capitano i lettori hanno già indovinato il suo
stratagemma qual fosse: divider le forze dell'armata nemica, e, quando
ella si fosse impacciata in que' movimenti disgregati per dargli
caccia, voltar la prora a terra e lasciare i Saracini scornati. Appena
le ciurme trapelarono l'ardito disegno, levarono un grido di giubilo e
si diedero con maggior lena a stringere la voga.
Ma questa non era che la prima parte del disegno di Guglielmo Embriaco.
La seconda era dieci cotanti più malagevole. Importava di sfuggire ai
Saracini, facendo getto delle galere e salvando tutto ciò che potea
tornar utile al campo latino. In quelle due galere erano molti maestri
d'operare, con gran copia di strumenti ed attrezzi, dei quali messer
Guglielmo sapea per prova il difetto nei quotidiani lavori d'assedio.
— Fermi a' banchi, i rematori! — prese egli da capo a gridare. — Tutti
gli altri si tengano saldi al sartiame e dove possono meglio! Ora,
figliuoli, raccomandiamoci a San Giorgio il valente, e avanti contro la
spiaggia! —
Un nuovo scoppio di evviva accolse questo comando di Guglielmo
Embriaco. Le due galere volarono sui flutti, e le chiglie vennero in
breve ora a rompere sulla ghiaia del lido, entro cui si affondarono
fino a mezzo della loro lunghezza, tanto era stata la violenza
dell'urto. Molti dei marinai, sebbene si tenessero parati a quel colpo,
stramazzarono sulla tolda.
Ma, grazie a San Giorgio il valente, nessuno si acciaccò tanto da
dover rimanere supino, e tutti, anche coloro che aveano le membra
indolenzite, gridarono a squarciagola, esaltando lo stratagemma di
messere Guglielmo.
Ben s'erano avveduti gli Egizii dell'inganno in cui li avea tratti il
Cristiano; ma già gli era tardi per rimediarvi, e non tornava d'alcun
pro mordersi le labbra. Il capitano, con tutti quei legni che potevano
obbedirgli, mise la prua sulla terra e giù alla disperata, con gran
forza di remi e di bestemmie. Senonchè, giunti a un trar di balestra
dal lido, i Saracini videro fallita ogni loro speranza. I Genovesi,
profittando di un'ora di tempo che era corsa tra lo arenamento e
l'arrivo dei nemici, avevano fatto un salto a terra, tagliando il
sartiame e portando seco tutte le vele, i ferramenti, i congegni, le
macchine, e ogni altra cosa che mettesse conto trar via. Sulla spiaggia
si vedevano ancora tutte le cose salvate, ma v'erano a custodia i
bravi Genovesi, con molti degli abitanti di Joppe, i quali, scaldati
dall'esempio, avrebbero voluto menar le mani ancor essi.
Il nemico si provò a pigliar terra; ma non sì tosto il primo
sandalo, carico d'armati, fu per avvicinarsi alla riva, i balestrieri
dell'Embriaco presero a sfolgorarlo con tiri così ben aggiustati, che
freddarono molti Maomettani e persuasero il loro capitano a tornarsene
dond'era venuto.
E così, per sottile accorgimento dell'Embriaco, furono salve le vite di
tanti valentuomini e maestri d'operare in arnesi di guerra, con tutti i
loro strumenti preziosi.
Il giorno appresso, giungevano al campo latino, accolti dalle grida
d'esultanza di tutto l'esercito e dalle congratulazioni di Goffredo
Buglione. Questi grandemente pregiava i Genovesi che costituivano nel
suo campo ciò che oggi si chiamerebbe il genio e l'artiglieria, mentre
tutte quelle schiere, venute di Francia e d'altri luoghi d'Europa, non
erano che cavalieri e fantaccini.
Laonde, le cose della guerra, che pareano difficilissime prima,
sembrarono un nulla dopo l'arrivo di que' nuovi artefici. Fu assegnato
loro l'alloggiamento tra quella eletta di cavalieri e di balestrieri
che erano rimasti sotto il comando di Arrigo da Carmandino e la
gente guidata dal conte di Tolosa; intanto fu deliberato di metter
subito mano alla costruzione di due grosse torri di legno, le quali
sovrastassero, colle loro merlate, alle mura della città assediata.


CAPITOLO V.
Di una gran torre di legno, che comandò a molte torri di pietra.

Era nei pressi di Gerusalemme una selva, non molto fitta, per
verità, la quale fu spogliata interamente dei suoi alberi, per quelle
costruzioni che l'Embriaco disegnava di fare. Nessuno aveva pensato,
prima di lui, a cavar profitto da quella boscaglia; di guisa che non si
aveano, per le necessità dello assedio, che poche macchine, costrutte
da artefici mal destri.
Questa volta gli artefici sono valenti per ogni maniera di congegni, e
il capo, disegnatore ed operatore ad un tempo, è lo illustre messere
Guglielmo. In quella che una parte dei suoi manovali preparano
catapulte, baliste, arieti ed altri arnesi minori, il maggior numero
suda intorno ad un'opera, non meno maravigliosa, e in pari tempo, più
vera del famoso cavallo di Troia; vo' dire la torre murale, che servirà
d'esemplare ad altre due di pari grandezza, tutta intessuta di pino e
di abete e fasciata di cuoio, per ischermirsi dal bitume infiammato,
con cui le genti assediate usavano allora respingere gli assalti.
Quella gran mole è il capolavoro di Guglielmo Embriaco. Ella si
scommette e si ricompone, si tien ritta e si snoda, a talento dei
difensori, tanto ne sono ben condotte e piene d'artifizio le mille
giunture. Il piano più basso è aperto da due lati, per dar passaggio e
libertà di moto ad una trave smisurata, col capo a foggia di montone,
la quale ha l'ufficio di scuotere le mura dalle fondamenta; mentre la
parte superiore della torre è congegnata in modo da potersi piegare a
guisa di ponte sui merli, e dal corpo della macchina si spinge subito
in su una nuova torre, che sopraggiudica quel ponte improvvisato, e
vi scarica all'uopo i suoi combattenti. Un centinaio di saldissime
ruote, cerchiate di ferro, sostengono quella macchina enorme e le danno
facilità di movimenti, a malgrado del suo peso e del soprassello degli
armati.
In breve spazio di tempo la torre è compiuta, e due altre, siccome ho
già detto, di egual forma e capacità, le tengono dietro.
Tutto il campo traeva ogni giorno a contemplare questa meraviglia dei
Genovesi. Dal canto loro, i Saracini, che dall'alto delle mura vedevano
ogni mattina gran salmerie di legname essere portate dai camelli nel
campo latino, si beccavano il cervello per indovinarne la cagione, e
avendola finalmente risaputa, non riuscivano a capacitarsi del perchè
s'innalzassero quelle moli, le quali (pensavano essi) non avrieno
potuto esser tratte un palmo più lunge dal loro cantiere.
Ma gl'infedeli aveano fallato il conto. Nella giornata del 3 di luglio
dell'anno 1099 _dopo la fruttifera_ _incarnazione_ fu un continuo trar
di baliste e di briccole, che rovinarono le mura in luoghi parecchi;
laonde la notte fu tutta spesa dagli assediati nel riparare i loro
danni e afforzare i punti che l'esperienza avea chiarito più deboli.
L'aurora del giorno quarto spuntò, e grande fu il turbamento dei
Pagani, quando s'avvidero che le torri non erano più al loro luogo
consueto, ma stavano in quella vece sotto alle mura. Grida di stupore
e di spavento salutarono la molesta vicinanza di quelle smisurate
macchine, le quali erano collocate in guisa da offendere la città per
tre lati, mentre lo spazio che correva tra ognuna di esse, era colmato
degli altri arnesi minori, tutti pronti a battaglia.
Alle grida dei Saracini rispondono quelle dei Crociati, e l'assalto
incomincia. E qui, sebbene non sia còmpito mio, non posso resistere
ad una voglia spasimata che mi ha preso, di raccontarvi, se non tutti,
almeno parecchi dei particolari di quella gloriosa giornata.
Si fa un gran parlare delle nostre moderne artiglierie, e non a
torto, imperocchè le palle scagliate a forza di fuoco traggono più
lontano e fanno più larga la breccia. Ma le artiglierie di messere
Guglielmo non eran troppo da meno, in quanto allo spettacolo che esse
davano di sè. L'aria era oscurata da nugoli di dardi e verrettoni che
scagliavano i Saracini; ma il danno era poco; le schiere latine si
tenevano ancora distanti, e gli uomini delle macchine si stavano bene
al riparo. Per contro, questi ultimi fornivano più larga bisogna; gli
arieti scrollavano le mura con impeto grandissimo, e la terra ad ogni
colpo traballava sotto i piedi ai difensori di quelle. Dall'interno
delle torri, che si levavano al paro della cresta delle mura, uscivano
fischiando le frecce dei balestrieri e non cadevano in fallo. Dall'alto
poi di quelle moli, ruinavano giù sui merli e ballatoi del nemico
grosse palle di marmo e globi di pece infiammata, che sgominavano,
rompevano, bruciavano ovunque cadessero.
Mentre questa gragnuola piombava sui Saracini, le mura per lunghi
tratti s'erano sfaldate al cozzo degli arieti e all'urto dei sassi,
scagliati da più che cento tra briccole e baliste. Allora parve
acconcio al Buglione di far innoltrare il nerbo delle sue schiere,
sotto il riparo dei gatti, che erano macchine intessute di legno e di
vimini, fino ai piè delle mura. E il cenno fu eseguito; tra i rottami
ammonticchiati, la grandine dei sassi, dei verrettoni e del bitume
acceso, l'oste cristiana si lanciò alla scalata.
Il vento, levatosi impetuoso pur dianzi, le tornò di grande vantaggio,
imperocchè gli assediati non poteano molto servirsi delle fiaccole che
scagliavano sui nemici, e quelle dei Cristiani, così secondate dalla
bufera, andavano facilmente sulle mura e ardevano i sacchi di strame,
le stuoie e gli altri ripari, che i Saracini v'andavano sospendendo man
mano, per ammorzare i colpi delle baliste.
L'incendio in breve ora si propagò; nè l'acqua valeva a frenarlo. Il
fumo e l'ardore acciecavano, soffocavano gl'infedeli, lasciando una
parte di muro senza alcuna difesa. Di ciò si giovarono gli assalitori
per uguagliare il terreno, facendo piana la strada a quella torre,
che era comandata dall'Embriaco in persona, e che fu tosto avvicinata
cosiffattamente al parapetto, da poter tentare la gettata del ponte.
Cotesto disegnava di fare l'Embriaco; ma gli bisognò vincere da prima
un ostacolo nuovo. Era piantata sulle mura una grossa antenna, a cui
gli assediati avevano sospesa per traverso una trave ferrata, e con
questa pigliavano a sfrombolare di replicati colpi la torre. L'Embriaco
non si perdette d'animo. Fe' dar di mano alle falci murali, che stavano
piantate ai fianchi della torre, e, studiato il momento che quel
poderoso arnese tornava a picchiare il gran colpo, quattro falci alzate
ad un tempo colsero al passaggio la gomena di sostegno, e il tronco
inerte cadde con grande rimbombo sul parapetto, pestando nella caduta i
suoi medesimi serventi, che già se ne ripromettevano il trionfo contro
la macchina nemica.
Allora l'Embriaco potè mandare il suo disegno ad effetto. La cima della
torre, snodata da un fianco, cadde dall'altro sulla opposta muraglia e
i Pagani non poterono più farle impedimento.
— Messer lo duca, — disse allora l'Embriaco a Goffredo di Buglione, che
era salito sulla torre per esser pronto a balzare nella santa città, —
il ponte è fatto, e, sebbene io m'abbia un gran desiderio di corrervi
su, debbo pur cedervi il passo. Non sarà mai detto che Guglielmo
Embriaco abbia voluto andar primo, dov'era il più prode e nobil
guerriero della Cristianità.
Il Buglione non rispose a quelle parole, ma un riso ineffabile si
dipinse sul suo volto inspirato. Abbracciò e baciò sulla fronte
l'Embriaco, rialzò la ventaglia dell'elmo, e s'innoltrò colla mazza in
alto, lungo il cammino coperto. Frattanto, dall'ultimo ripiano della
torre, che era stato mandato su, in luogo dell'altro arrovesciato sulle
mura, gli arcadori genovesi con spessi colpi tenean lontani i nemici.
L'Embriaco, che per la sua grande modestia, non aveva voluto esser
primo, si gettò sulle orme di Goffredo, e dietro a loro corsero spediti
i più valenti cavalieri dell'esercito.
In quel mezzo, Arrigo da Carmandino, che stava colla sua gente a
guardia della seconda torre, si struggeva di avere e rimanersi degli
ultimi. E mentre Primo, il fratello dell'Embriaco, faceva con grande
difficoltà innoltrare la sua gran mole di legno, egli, insofferente
d'indugi, messe fuori una proposta, che trovò subitamente eco tra i più
animosi. Anselmo Rascherio, Gontardo Brusco, Ingo Flaòno lo seguono, e
con essi una ventina di cavalieri appiedati, facendosi sotto le mura
con scale e rampini, e schermendosi dai colpi nemici colle targhe
levate in alto e raccolte a mo' di testuggine. La muraglia, come si è
detto, era sfaldata in più luoghi e rotta pel gran trarre di baliste e
montoni. S'inerpicano per le macerie ammonticchiate, gettano i rampini
alla merlata, appoggiano le scale, e su lestamente di piuolo in piuolo.
Altri del campo li seguono a torme, infiammati dal nobile esempio,
anelanti di afferrare la cima. Parecchie scale, già gremite di uomini,
sono divelte dal muro; vanno ruzzoloni i soldati nella polvere e nel
sangue; ma si rialzano, rimettono in piedi le scale, tornano più feroci
all'assalto. Di questa guisa giungon parecchi sulla cresta del muro;
Arrigo è il primo di tutti; le pietre, le lancie appuntate, i fendenti
delle spade, fan mala prova su lui, che para quella tempesta di colpi
collo scudo levato.
Afferrare i merli, balzare in piè sulla feritoia e impugnare la mazza
ferrata, fu un punto solo per lui. I primi che si fecero a contendergli
il terreno, stramazzarono sotto la furia di quell'arma, menata a
cerchio dal braccio giovanile. Frattanto una diecina dei suoi avevano
agio a salire, e quel tratto di spalto fu ben presto spazzato dai
suoi difensori. Il Carmandino gittò allora la mazza, e, strappata la
bandiera dalle mani dell'alfiere che lo aveva seguito, sguainò la sua
lama poderosa, e corse, volò da quel lato, dove la torre di messere
Guglielmo, piegatasi a foggia di ponte, vomitava soldati sul baluardo.
Colà appunto Goffredo di Buglione, Eustachio conte di Bologna, suo
fratello, e l'Embriaco, pugnavano valorosamente contro uno stuolo di
Saracini, che facevano ressa per rovesciarli dalla merlata. L'arrivo
del Carmandino colla sua gente sul fianco degl'infedeli, mutò le sorti
della pugna. I Saracini mietuti cadevano e il ponte coperto dava adito
a sempre nuovi combattenti. La bandiera della croce sventolò finalmente
vittoriosa sovra un monte di cadaveri.
Da un altro lato, il valoroso Tancredi, principe di Taranto, entrava
nella città, facendo aspro governo dell'oste pagana. Alle ore tre dopo
il meriggio, per le mura cadenti, per le porte sfondate, l'esercito
cristiano irrompeva in città, gridando: «Dio lo vuole!» e Gerusalemme,
dopo quattrocento novant'anni di servitù, era perduta pei Saracini.
Non è mio còmpito narrare per filo e per segno tutto ciò che avvenne
di poi; nè la espugnazione della torre di David, nella quale s'erano
chiusi i Saracini, aspettando soccorsi del soldano d'Egitto, o di
Babilonia, siccome dicevasi allora, dando il nome di Babilonia alla
città del Cairo; nè la battaglia combattuta sul piano di Ramnula, che
fiaccò le corna e l'orgoglio al sopraggiunto aiutatore, assicurando
così la conquista di Sion. Per tutti questi negozi rimando i lettori
agli ultimi canti del poema di Torquato, del sommo e sommamente
infelice Torquato, i quali valgono da soli tutta la prosa che io potrei
buttar giù, vivendo cent'anni. Ora Iddio tolga che l'una cosa e l'altra
mi avvenga; molesta la prima ad ogni ragion di scaffali; l'altra
molestissima a me.
Questo solo dirò, che i crociati genovesi, com'erano stati gagliardi
all'assedio, così furono alla giornata di Ramnula, e messer Guglielmo
s'ebbe la miglior parte dei tesori del Soldano, oro, argento, gemme
e tessuti d'altissimo pregio; laonde, come fu l'ora di tornarsene in
patria, gli bisognò comperare una galèa per allogarvi il bottino. Le
sue navi, s'è detto, eran andate a rompere sulla spiaggia di Joppe, in
quella giornata che campò i Genovesi dall'urto di tutta quanta l'armata
del Soldano d'Egitto.
— Il Babilonese me l'ha pagate a misura di carbone, le mie povere
galere! — disse messer Guglielmo, ridendo, in quella che col fratello,
con Arrigo e coi superstiti concittadini, s'imbarcava nel porto di San
Simeone, memore di tante lor gesta.
Imperocchè, nè egli, nè altri dei Genovesi, avea voluto rimanere in
Soria. A Goffredo di Buglione, fatto re di Gerusalemme, il quale gli
profferiva la signoria d'una provincia, per farlo pari a tanti altri
baroni che meglio s'erano adoperati alla liberazione della santa città,
l'Embriaco aveva risposto, scusandosi: — Noi siamo marinari; i feudi
nostri sono sul mare, ed hanno bisogno di specchiarvisi, come le torri
di Genova nostra.
— Orbene, — aveva soggiunto Goffredo, — qui la bisogna non è finita;
tornate, messere Guglielmo; tornate con maggior numero dei vostri, che
so per prova quanto valgano, non pure come arcadori, mastri d'operare
ed espugnatori di ròcche, ma eziandio come cavalieri di lancia e
spada — (e queste parole rivolte in parte ad Arrigo di Carmandino,
rallegrarono il paterno cuore dell'Embriaco); — tornate presto e a voi
commetteremo di restituire alla Croce quanto è di spiaggia da Biblo ad
Ascalona.
— E lo farò, — rispose Guglielmo; — coll'aiuto di Dio e del valoroso
barone San Giorgio, lo farò. Nulla è ormai che ci abbia a tornar
malagevole, sotto gli auspici vostri.
— Tornate dunque sollecito, — disse sorridendo il Buglione d'un suo
malinconico riso, — imperocchè io sento tal cosa qua dentro, — (ed
accennava il petto) — che non mi concederà di attendere a lungo. Non
vi turbate, messere Guglielmo; quel che ho vissuto mi basterà per
mandarmi contento. Chi più avventurato di me, se, la mercè vostra e di
tanti prodi cavalieri, ho potuto liberare il sepolcro di Cristo dalla
ignominia del culto di Macone? Ben potrei ora, alla guisa di Simeone,
intuonare il _Nunc dimittis servum tuum_, e senza esser notato di
immodestia. —
Indi a due giorni le schiere genovesi, assottigliate di molto, ma
liete, superbe, inebbriate dalla vittoria, scioglievano le vele dalla
spiaggia di Palestina.


CAPITOLO VI.
Che è tutto un miscuglio, come la minestra maritata di Anselmo.

Fu venturoso il tragitto. Le galere genovesi giunsero alle patrie
rive, e salutarono le tre torri del Castello la mattina del 24 dicembre
1099. Poco più sotto di quelle, sul culmine di un'altra torre, Arrigo
da Carmandino, la mercè di quella seconda vista che aiuta gli amanti,
scorse alcunchè di bianco, che gli fe' battere il cuore. Egli si
rimaneva immobile, estatico, sul castello di poppa, cogli occhi intenti
a quel bianco, allorchè sentì una mano posarsi dolcemente sulla sua
spalla.
— Non pare anche a voi, Arrigo, che sia Diana, lassù? —
Così parlava Guglielmo; e Arrigo non gli rispose; ma si fe' rosso
in volto come una brace, vedendo scoverto il segreto della sua
contemplazione amorosa.
Il popolo salutò festante i reduci vincitori; il focolare domestico
esultò di raccogliere a sè dintorno i suoi cari per la festa
tradizionale di Ceppo. In molte case furono pianti e sospiri; ma la
fede ha virtù di tergere le lagrime e di racconsolare i cuori, nella
speranza d'un ricongiungimento che più non patisca offese dalla fortuna
o dal tempo. E non erano martiri della fede, gli estinti? Non erano
saliti al cielo colla palma del trionfo? Questo ed altro di somigliante
disse il clero dai pergami, per modo che i superstiti si gloriarono
dei caduti, e la città tutta quanta si rinfiammò ad altre imprese per
l'anno vegnente.
Messere Guglielmo recava per l'appunto lettere di Goffredo Buglione e
del patriarca Damberto ai consoli e al popolo tutto di Genova, nelle
quali, narrata la espugnazione d'Antiochia e di Gerusalemme, era fatto
invito ai Genovesi di accorrere in Terra Santa con più validi aiuti.
Come fossero accolte dal popolo, argomenti il lettore, riconducendosi
coll'animo a quei tempi e a quella novità d'imprese, in cui,
tornaconto, religione e carità cittadina avevano la sua parte.
Nella assenza dei crociati, Genova s'era guasta colle discordie.
Nobili di prosapia romana, uomini nuovi saliti a possanza consolare,
altri venuti dal contado, quali investiti di feudi vescovili, quali
di feudi imperiali, mal potevano durare in pace, ove un più grave
negozio non fosse venuto a disviare le menti. Epperò, nel furiar delle
parti, s'era dismesso il consolato; che era il terzo d'indole laica
consentito alla città, poichè s'era liberata dalla intromissione del
vescovo nelle cose civili. Amico Brusco, Moro di Piazzalunga, Guido di
Rustico del Riso, Pagano della Volta, Ansaldo del Brasile, Bonomato
del Molo, essendo usciti di carica, il comando era divenuto una _res
nullius_, in preda ai più audaci, o ai più scaltri. Ma l'annunzio dei
fortissimi fatti, scaldando tutti i cittadini di nobile entusiasmo, li
ridusse prontamente a più fraterni consigli e i valentuomini sopradetti
tornarono di buon grado in ufficio.
La nuova crociata fu bandita in città, senza mestieri di legati
pontificii; nel giro di pochi dì, ottomila uomini, il fiore della
gioventù genovese, pigliarono la croce, laonde fu mestieri allestire
ventisette galere. Fu questo l'esercito, ma, poichè giungevano d'ogni
parte pellegrini, desiderosi di accorrere in Terra Santa, alle galere
si aggiunsero sei navi onerarie, le quali andassero di conserva con
quella ragguardevole armata.
E non contenti di andare eglino stessi, i Genovesi spedirono le lettere
gerosolimitane in volta per le città e castella di Lombardia, dove
tutti gli animi si accesero di pari entusiasmo, e laici e chierici,
il vescovo di Milano, il conte di Briandate, molti conti e marchesi
e grand'oste con essi, andarono per la via di Costantinopoli, dove
occorse loro ciò che vedremo più avanti.
In città fu un grande rimescolìo, un'ansia, un'ebbrezza universale,
fino alle calende d'agosto del 1100. Sei mesi erano pur necessari
a tanti apprestamenti di guerra; che anzi è da dire, l'operosità
genovese, diventata proverbiale in processo di tempo, non aver mai
fatto più cose in più breve spazio di tempo d'allora. Invero, tutti
ardeano di fare, e tra i reduci dal conquisto di Gerusalemme e i
rimasti a casa era una gara nobilissima di scriversi alla seconda
impresa, e di aiutarla con ogni possa, perchè non patisse ritardo.
Chi si doleva di tanta furia era il povero Anselmo, costretto a rimaner
tra le donnicciuole, a mondar nespole, siccome egli diceva, per cagione
della ferita toccata sotto le mura d'Antiochia. Quella ferita, se i
lettori rammentano, gli aveva lasciato un brutto sfregio dall'alto del
fronte fino al basso della guancia, e in quella istessa maniera che gli
dava ad ogni tratto molestia e gli impediva di tornare uomo valido in
Soria, già fin da quella prima spedizione gli avea tolto di proseguire
la guerra e di fare a Gerusalemme quel che aveva fatto ad Antiochia.
Fin d'allora, curato e rappezzato alla meglio, egli era stato
consigliato da messere Guglielmo, che molto lo amava, a tornarsene
coi primo sandalo che salpasse dal porto di San Simeone alla volta di
Genova; ma lui duro, incocciato a restare.
— Non mi volete uomo d'armi? — diceva. — Orbene, tenetemi come un
servo, come un di quei cani senza nome, che seguono il campo, e un
tantino più utile di quelle povere bestie, le quali non sanno far
altro che leccar le scodelle ai vostri balestrieri, perchè io potrò
almanco mutarmi in cuoco e dispensiere, ed ammannirvi quel po' di cibo,
guadagnato con tanti disagi e stenti ogni giorno. —
Nè ci fu verso di smuoverlo; così volle, così rimase, consentendolo il
suo gran capitano.
Ed era egli, il povero balestriere, che, dolorandogli il capo
maledettamente per quello strappo non bene rammarginato ancora, si
pigliava il carico della mensa frugale dell'Embriaco, in quei lunghi
e fastidiosi giorni dello assedio di Sion. Bisognava vederlo, di costa
alla tenda, con tutte quelle bende intorno alla fronte, che lo faceano
parere da lunge un Saracino ribaldo, rattizzare il fuoco tra due
grosse pietre innalzate a foggia e dignità di fornello, e invigilar lo
schidione, e rimestare in un certo paiuolo fuligginoso i suoi orridi
manicaretti, che agli affamati guerrieri avevano a parere le più
ghiotte cose del mondo!
Ma spesso occorreva (tanto è vero che l'uomo si stucca, perfino
dell'ottimo) che le dotte invenzioni d'Anselmo non ottenessero neanco
una parola d'encomio e che i suoi dozzinanti si lasciassero andare
a troppo fervide giaculatorie all'erbe, alle ortaglie, financo alla
cicerbita e al terracrèpolo della memorata Liguria. Fu questa per
giorni parecchi una spina al cuore del povero cuoco; ma come fare?
dov'erano a trovarsi i camangiari, in quegli aridi campi della Terra
Promessa?
Basta, l'uomo è per natura ingegnoso e la necessità suole aguzzare
l'ingegno. Ora, Anselmo, a cui la necessità stringeva i fianchi,
tanto si rigirò, tanto corse, che finalmente scovò il fatto suo.
Dovunque fosse una pozza, un acquitrino, uno sgocciolo di rupe, anche
a doverselo trovare con ore ed ore di cammino, il nostro balestriere
correva, e raccattava erbucce d'ogni forma e sapore, le quali e'
sceglieva con molta cura e saggiava, innanzi di metterle a mazzo. E un
bel dì, tornati da sudare intorno a quelle torri di legno, che aveano
a far breccia nelle mura dell'assediata città, i commensali di messere
Guglielmo furono grandemente solleticati dalla vista e dalla fragranza
d'un certo miscuglio a guazzo, che arieggiava la famosa minestra
maritata, delizia dei figli di Giano, quando sono a casa, e loro eterno
sospiro, quando il cieco caso, o la ferrea necessità, li tien lontani
dalla cucina domestica.
Quella volta, le lodi al cuoco furono universali e solenni; il grido
d'ammirazione e di giubilo poco mancò non si mutasse in _Tedeum_.
E a chi dei lettori notasse i miei crociati di grossolani appetiti,
risponderei che essi non erano da più, nè da meno degli eroi d'Omero,
gente cavalleresca se altra fu mai, pratica dello Stige come del latte
di Teti, o di Venere; uomini pei quali si scomodavano talvolta dai
seggi celesti Iride messaggiera e Minerva pugnace, ma che pure amavano
mangiare di tratto in tratto il loro quarto di bue, inaffiandolo con
quattro o cinque sorsate di quello di Samo.
E pensate che anco il Buglione, il pro' Buglione, il pio Goffredo,
non si sarà pasciuto neppur lui di rugiada! Io so, per esempio, che
allorquando i commensali di messere Guglielmo già stavano seduti
all'umile desco, e adoravano il grato fumo della minestra che venia
scodellando Anselmo, il buon duca venne per caso a passare di là, e i
nostri valorosi, con quella cortese entratura che è consentita dalla
comunanza del vivere, lo trattennero e gli proffersero di partecipare
al frugale banchetto.
Non poteva indugiarsi a lungo il duca, chè le necessità dell'alto
ufficio lo chiamavano oltre; ma volendo pure usar cortesia a quel
prode uomo dell'Embriaco, fe' sosta di pochi istanti, e dimandato di
quella novità dei camangiari, e saputolo, si degnò di assaggiarne,
soggiungendo nella sua lingua che la era una saporitissima cosa.
Argomentate l'allegrezza e in pari tempo la confusione del cuoco.
Anch'egli volle dire la sua, in quella lingua che tutti, qual più, qual
meno, masticavano allora nel campo crociato; ma non gli venne altro
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