Diana degli Embriaci: Storia del XII secolo - 11

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Intanto il rumore dei passi si avvicinava sempre più. Abd el Rhaman
respirò, parendogli di distinguere il calpestìo di due soli viandanti.
A' piedi della collina, una voce s'udì, che dava ragione alla
perspicacia del vecchio.
— Signore della tenda, due invitati di Dio!
— Siate i benvenuti, se una infermità non siede nei vostri cuori e
una menzogna sulle vostre labbra. Ed è in questo luogo deserto che noi
dovevamo aspettarci due ospiti? —
La voce rispose con uno di quei proverbi così comuni tra gli Arabi:
— La scabbia, il suo rimedio è il bitume; la povertà, il suo rimedio è
il deserto. —
Abd el Rhaman si volse ai suoi compagni di viaggio.
— Sono Arabi davvero; — diss'egli; — forse pellegrini smarriti. —
E ad alta voce proseguì:
— Fratelli, venite, e troverete ristoro tra noi. —
I due viaggiatori si appressarono, e uno di essi, colui che aveva già
parlato due volte, ripigliò, coll'accento monotono di chi ripete una
vecchia cantilena:
— Siate generosi coll'ospite, perchè egli viene a voi con tutto ciò
che possiede. Entrando, vi reca una benedizione; uscendo, si porta via
i vostri peccati. Non siate avari; l'avarizia è un albero che Scitan
ha piantato nell'inferno; i suoi rami si stendono sulla terra; chi
ne coglie il frutto vi rimane impigliato ed è travolto nel fuoco. La
generosità è un albero piantato in cielo da Dio, Signore dell'universo;
i suoi rami toccano la terra, e per quei rami l'uomo generoso salirà
al paradiso. Colui che accoglie umanamente i suoi ospiti si rallegra e
fa loro buon viso. Dio non farà mai male a quella mano che avrà saputo
donare.
Quelle erano formole rituali tra gli Arabi, e la precisione con cui
erano ripetute doveva chetare i sospetti di Abd el Rhaman, che ben si
poteva dire fosse toccato nel suo debole.
I viaggiatori erano giovani all'aspetto, ma stanchi e assai male in
arnese.
— Da dove venite? — chiese il vecchio _Krebir_.
— Da Kanat; — risposero.
— Da Kanat? Non c'è egli più dunque ospitalità tra i figli dello _Sceik
ul Gebal_?
— C'è sempre; ma insieme con essa il desiderio di trattenere i figli
del deserto più a lungo che essi non vogliano essere trattenuti. Siano
lieti i Fedàvi delle gioie anticipate del paradiso, noi amiamo rivedere
le nostre famiglie. Da due giorni andiamo vagando nel deserto senza
trovare nè una palma, nè una fontana, nè una compagnia di credenti
in Dio, che ci tengano luogo dell'una cosa e dell'altra. Disperavamo
già, quando abbiamo veduto, nella luce del tramonto, le sabbie gialle
picchiettarsi di nero. Abbiamo indovinato l'avvicinarsi di una carovana
e ci sono tornate in petto la speranza e la lena. Servi di Dio, noi ci
accostiamo alla tenda che egli ha rizzata davanti ai nostri occhi, e vi
portiamo la nostra fame e la nostra sete.
— Non vi affaticate più oltre colle parole; — disse Abd el Rhaman.
— Sedete accanto ai nostri cammelli, mangiate e bevete. Il frutto
della palma è qui, condito col burro, e l'acqua del pari, attinta ieri
mattina al pozzo di Rehobot. —
I due viandanti si gittarono avidamente sul pasto, che era loro
apprestato con tanta generosità. E il vecchio _Krebir_ ne godeva in
cuor suo. La legge dell'ospitalità è questa, che l'ospite offra e che
l'invitato di Dio accetti e mostri di gradire l'offerta.
Un pellegrino giunse una volta presso un Arabo, che lo fece sedere al
suo fianco e gli offerse il suo pasto.
— Non ho fame; — disse lo straniero; — non ho bisogno che d'un luogo al
coperto, per dormire questa notte.
— Vattene dunque da un altro; — gli rispose l'Arabo. — Io non voglio
che un giorno tu abbia a dire: ho dormito da un tale; io voglio che tu
dica: ci ho saziato il mio ventre. La barba dell'invitato è in mano al
padrone della tenda. —
Saziato lo stomaco, i due viandanti, poichè non c'era modo di
accoglierli sotto la tenda, domandarono ed ottennero di sdraiarsi
accanto ai cammelli. E ravvoltisi nei loro mantelli e tirati i cappucci
sugli occhi, si addormentarono insieme cogli altri uomini della scorta.
Costoro erano certamente quello che avevano detto, due poveri viandanti
smarriti, e Abd el Rhaman, se qualche sospetto gli fosse entrato nel
cuore, lo avrebbe sicuramente scacciato, dopo averli visti mangiare e
bere con tanta avidità, e quindi addormentarsi con tanta prontezza.
Anche il buon vecchio aveva mestieri di riposo. Si è detto che soleva
dormire da un occhio solo, ma anche a farlo da un solo, dormire
bisogna. Disteso il suo mantello vergato sulla sabbia, vi si adagiò,
ne trasse un lembo sul petto, e provò a chiudere un occhio, mentre
collo spirito correva ai viaggiatori cristiani, che già da due giorni
avrebbero dovuto ritornare, e che tuttavia non si vedevano ancora.
Abd el Rhaman, per dire la verità, non era così inquieto come il
biondo scudiero. Conosceva per antica prova come fossero fallaci
le vie del deserto, dove lo aver smarrito una traccia, il non aver
badato a un fil d'erba, fa perdere spesso le intiere giornate. E
sebbene fidasse nell'avvedutezza dell'Arabo che aveva dato per guida
ai cavalieri cristiani, il vecchio _Krebir_ non poteva dissimularsi
che ai viaggiatori mancava sempre una cosa, cioè a dire la sua propria
esperienza.
Uno scalpiccio improvviso gli ruppe il filo delle sue meditazioni. Era
lo scudiero che usciva allora dalla sua tenda.
— Figliuol mio, — disse Abd el Rhaman, — voi vegliate sempre. È mal
fatto, perchè, quando uno veglia per tutti, gli altri debbono ristorare
le forze nel sonno.
— Se lo potessi! — esclamò lo scudiero, che non seppe trattenere un
sospiro.
— Imitate i nostri ospiti; — seguitava frattanto il _Krebir_. — Sentite
come russa uno di loro, laggiù. —
Lo scudiero non rispose, e stette cogli occhi in aria a guardare le
stelle. La luna era scomparsa dal firmamento, e Aldebaran, l'astro
prediletto dei popoli orientali, risplendeva in tutta la sua pura
bellezza tra il cinto d'Orione e il gruppo delle Jadi. Ma lo scudiero
non si indugiava a considerare la bellezza degli astri; pensava che
essi soli a quell'ora dovevano vedere Arrigo da Carmandino, e confidava
loro una preghiera, un saluto, un augurio.
Mentre egli guardava e pregava, il vecchio condottiero si rizzava sul
gomito e pensava.
— E dove sarà l'altro? — chiese egli tra sè. — Son due, e non ne odo
che uno. —
Il dubbio gli si era appena formato nell'animo, che il vecchio balzò in
piedi senz'altro. Abd el Rhaman, come tutti gli uomini che conoscono
il pregio del tempo, non soleva far mai una cosa sola per volta. Ora,
mentre egli pensava, il senso dell'odorato, squisitissimo in lui, era
stato ferito da alcun che di nuovo e di strano. Il vecchio _Krebir_
fiutava il pericolo.
Balzò in piedi, già ve l'ho detto, e con accento risoluto gridò:
— Credenti in Dio, seguaci del profeta Gesù, su tutti, presto, non
perdiamo un istante!
— Che fai tu? — dimandò lo scudiero, distolto così d'improvviso, dalla
sua muta preghiera.
— Figliuol mio, siamo assaliti; — rispose il _Krebir_.
— Assaliti! Da chi?
— Lo so io, forse? C'è odore di nemici nell'aria, ecco tutto. —
Così dicendo, Abd el Rhaman diè di piglio alla sua scimitarra e fu d'un
salto sui cammelli.
Il campo era tutto a rumore. Ma l'ospite continuava a russare, ravvolto
nelle pieghe del suo mantello sdruscito.
— Maledetto cane! — gridò Abd el Rhaman, percuotendo quel corpo inerte
d'un calcio.
Lo scudiero, che aveva seguito il vecchio fin lì, visto quell'atto
brutale, che contrastava con tutte le leggi della ospitalità, fu sul
punto di credere che il vecchio _Krebir_ avesse smarrito il suo senno.
Ma prima che il concetto potesse prendergli forma nell'animo, un sibilo
acuto gli percosse l'orecchio, indi un altro, e un altro ancora, e fu
tosto un rumore di passi, uno strepito d'armi, sui due lati del campo.
— Difendiamoci, in nome di Dio! — tuonò il vecchio condottiero.
Gli arcadori genovesi avevano già afferrati i loro archi. Ma le corde
erano recise. Non restavano che i cammellieri, a far fronte colle
lancie.
— No, no; — gridava il _Krebir_, brandendo la sua scimitarra. — La
lancia è la sorella del guerriero, ma essa può sempre tradirlo. Gittate
lo scudo; intorno a questo si addensano le sventure; la spada, la spada
è l'arma dell'Arabo, quando il suo cuore è forte come il braccio. Alle
gambe del nemico, alle gambe! —
E mandando i fatti compagni alle parole, il fiero vecchio diè tale un
colpo agli stinchi del primo che gli si fece davanti, che lo mandò
ruzzoloni, coi piedi troncati di netto. Era uno degli ospiti, colui
che pur dianzi russava, mentre l'altro, approfittando delle tenebre e
del sonno degli arcadori, era andato carponi recidendo le corde degli
archi.
— Traditore! — gridò il ferito, storcendosi dolorosamente sulla sabbia.
— Tu pagherai la mia morte al gran Priore d'Occidente. —
La minaccia fu udita da tutti coloro che si stringevano a difesa
intorno al vecchio condottiero.
— Gli Assassini! — gridarono atterriti. — Sono gli Assassini! —
Molte dicerie paurose correvano già intorno a quei nuovi ospiti del
deserto, in mezzo agli Arabi di Palestina. Si diceva che avessero tutte
le dieci doti del guerriero: l'ardimento del gallo, il razzolìo della
gallina, la fierezza del leone, lo slancio del cinghiale, l'astuzia
della volpe, la prudenza dell'istrice, la rapidità del lupo, la
costanza del cane, e la struttura del _naguir_, piccolo animale che
prospera nelle privazioni e negli stenti.
Si diceva per contro che fossero poco saldi nella fede e che mettessero
la causa del loro ordine molto più sopra di quella dell'Islam. Di qui a
crederli demonii scatenati dall'inferno, non era che un passo. Lontani,
piacevano poco; vicini, incutevano spavento.
E uno sgomento invincibile colse quei poveri cammellieri, gente così
valorosa in ogni altra occasione, ma che non poteva, nel tramestìo di
quella sorpresa notturna, misurare la gravità del pericolo.
Così avvenne che gli arcadori genovesi rimanessero quasi soli a
resistere. Gittati gli archi, oramai diventati inutili, avevano posto
mano alle spade e si difendevano valorosamente, ma non senza stupirsi
del modo strano che usavano i loro nemici nel fare la guerra. Infatti,
gli Assassini, avvicinandosi a mezza spada, e riconoscendo di averla
a dire con guerrieri cristiani, non lavoravano ad uccidere; facevano
impeto in molti, cercando anzitutto di schermirsi come potevano;
per giungere sotto e disarmare i loro avversarii. Un moderno avrebbe
detto che c'era molta diplomazia in quella maniera di combattere; un
cinquecentista ci avrebbe intravveduta la ragione di Stato; ma per quel
tempo bisognava dire che i combattenti avessero ordine d'adoperare in
tal guisa, e che la cieca obbedienza a cui li avvezzava la impromessa
del paradiso fosse la vera cagione di quel rispetto ai guerrieri
cristiani. Rispetto che non giungeva fino al punto di rimandarli
liberi, poichè, a mano a mano che li avevano disarmati, li legavano
stretti con certe funicelle e li spingevano l'uno sull'altro di costa
alla tenda.
Assai più difficile impresa era quella d'impadronirsi del vecchio
_Krebir_, pel quale, del resto, non avrebbero usati tanti riguardi.
Ma il fiero Abd el Rhaman non si poteva prendere, nè ammazzare così
alla svelta. Al comando di arrendersi aveva risposto colla minaccia
di uccidere il primo che gli si fosse accostato, e già tre uomini, che
avevano tentato il colpo, si erano persuasi col fatto ch'egli parlava
da senno.
Il vecchio _Krebir_ pensava in quel punto alla _dia_, o prezzo del
sangue, che egli avrebbe dovuto pagar colla sua testa all'Emiro di
Gaza, se fosse tornato alla spiaggia senza i Cristiani affidati alla
sua vigilanza. Pensava al suo onore irreparabilmente perduto; come
condottiero di carovana, dopo trenta e quarant'anni di fortunata
esperienza. E pensava infine esser meglio il morire, per una giusta
causa, combattendo i nemici di Allà. Non era opinione universale
tra i credenti, che quegli _Asciscin_, sbucati dalla Persia, fossero
una sètta di infedeli, e peggio assai dei Cristiani, poichè questi
credevano almeno al profeta Gesù, laddove i seguaci del Vecchio della
Montagna non credevano a nulla?
Maometto, fermandosi un giorno davanti ai due cimiteri della Mecca, era
uscito in queste profetiche parole:
«Di questi due cimiteri, settantamila morti ascenderanno al paradiso
senza render conto a Dio delle loro colpe; e ognuno di loro potrà farne
entrare settantamila con sè. I volti loro somiglieranno alla luna
piena. Una sola cosa è più meritoria del pellegrinaggio, agli occhi
di Dio, ed è il morire nella guerra santa, nella guerra contro gli
infedeli.»
Così fortificato contro ogni vile pensiero, combatteva il vecchio
_Krebir_. In mezzo alla mischia cercò il biondo scudiero, che era
stato commesso alla sua custodia, e lo vide, o, per dire più veramente,
lo udì, mentre gridava e invano si dibatteva fra le strette dei suoi
assalitori.
La ragione di quell'attacco notturno balenò allora alla mente del
vecchio, che non volle assistere a tanta sventura e si lanciò disperato
da quella parte, cercando inutilmente di rompere la cerchia dei nemici.
La daga di un Fedàvo bevve il suo sangue, penetrandogli nella gola.
— Era scritto! — diss'egli, stramazzando al suolo, mentre il sangue
spicciava a fiotti dalla vasta piaga.
— Non c'è che un Dio! — aggiunse poscia, levando al cielo la mano
irrigidita.
E non disse più altro. In quella affermazione della sua fede, il
vecchio _Krebir_ aveva esalato l'anima invitta.


CAPITOLO XIV.
Dove è dimostrato che sui ribaldi non si veglia mai abbastanza.

Caffaro di Caschifellone e Gandolfo del Moro non avevano intanto
perduto il loro tempo. Valicate le strette di Cades, e senza imbattersi
in nessuna compagnia di Arabi predatori, erano discesi per la terra di
Seir nella gran valle che già aveva preso il nome dagli Edomiti. Colà,
ad una giornata di cammino dal castello di Kanat, avevano trovato un
drappello di cavalieri Saracini, che correvano il paese. Non potevano
capitar meglio; perchè quei cavalieri erano appunto le vedette dello
_Sciarif_, e il loro viaggio di scoperta raggiungeva finalmente la
meta.
Fornite le necessarie spiegazioni a quei sospettosi cavalieri e detto
l'intento della loro gita al deserto, i nostri viaggiatori furono presi
in mezzo dagli esploratori e condotti al castello di Kanat.
Bahr Ibn era per l'appunto laggiù, ospite di Abu Wefa, il _Dai al
Kebir_ d'Occidente, con cui stava negoziando, per averlo aiutatore ai
suoi disegni contro l'Egitto. Abu Wefa, poco scrupoloso come i suoi
pari, sarebbe andato, non che contro di Afdhal, che era un usurpatore,
contro tutti i più legittimi califfi della discendenza fatimita. Ma
egli maturava fin d'allora più ambiziosi disegni. Mi pare di avervi
già detto che il gran Priore degli Assassini d'Occidente si disponeva
ad una marcia verso le regioni settentrionali di Palestina, per andare
a piantarsi sulle montagne nei pressi d'Antiochia, potenza nuova
ed attenta fra i Turchi Selgiucidi e i Cristiani, la quale, facendo
assegnamento sulle loro inimicizie e approfittando delle intestine
discordie di questi e di quelli, avrebbe potuto dare cominciamento
ad un secondo regno d'Assassini, così indipendente dall'autorità dei
Fatimiti d'Egitto, come sicuro dalle gelosie degli Abassidi di Bagdad.
Era una ragione di Stato tutta propria di quell'ordine tenebroso,
che aveva preso a vivere sul tronco islamitico, in quella medesima
guisa che l'edera vive sul tronco d'un albero, per trovare il suo
sostentamento nei succhi già elaborati dalla pianta, involgerla a grado
a grado e farla intristire.
Erano infatti così poco musulmani, che nel 1173 uno dei loro
gran priori, a nome Sinan, il quale godeva fama di santità, inviò
un'ambasciata ad Almerico, re di Gerusalemme, offrendo in nome suo e
in quello del suo popolo di abbracciare il cristianesimo, a patto che
i Templarii rinunziassero all'annuo tributo di duemila ducati d'oro
che loro avevano imposto e vivessero con esso loro in pace e da buoni
amici. Almerico gradì l'offerta e congedò onorevolmente l'inviato. Ma
questi, nel far ritorno al suo territorio, fu ucciso da un drappello di
Templarii, guidato da un Gualtiero Du Mesnil. Dopo ciò gli Assassini
posero nuovamente mano alle daghe, che per molti anni erano rimaste
inoperose, e fra le altre lor vittime, Corrado, marchese di Tiro e di
Monferrato, fu morto nel 1192 da due Fedàvi sulla piazza del mercato
di Tiro. Ma questa è storia posteriore di troppo al nostro racconto e
va lasciata in disparte, bastando averla accennata per lumeggiare il
carattere della sètta.
Per pochi giorni ancora Abu Wefa, il gran Priore d'Occidente, e
Bahr Ibn dovevano rimanere uniti nel castello di Kanat. Lo _Sciarif_
aveva capito di non poter condurre ai suoi disegni il Dai el Kebir, e
questi a sua volta tentava d'indurlo ad un viaggio verso settentrione,
dov'egli andava a conquistarsi un territorio meno sterile che non fosse
il deserto di Edom.
I negoziati erano a quel segno, quando Gandolfo del Moro e Caffaro di
Caschifellone giunsero al campo.
Arrigo da Carmandino, stanco di quel lungo soggiorno tra gli infedeli,
vera cattività di cui non bastavano a mitigargli l'affanno le
continue testimonianze d'amicizia del suo protettore, avrebbe dato
di grand'animo la vita, pur di giungere in patria e spirar l'anima
ai piedi della sua fidanzata. Che era egli avvenuto di lei? Gli aveva
tenuto fede? Doloroso pensiero che Arrigo scacciava ad ogni tratto da
sè, ma invano, perchè esso gli ritornava sempre più ostinato, sempre
più molesto, allo spirito.
Quella vita era insopportabile davvero. Il cielo adunque lo aveva
campato da morte, per condannarlo ad una eterna prigionia nei deserti
di Palestina? Il giovane Arrigo sentiva di amare Bar Ibn, e non
poteva non avere in pregio le virtù di quei barbari tra cui lo aveva
sbalestrato il destino; ma certo quella vita randagia e senza un raggio
di speranza per lui non era tale da doversi durare più a lungo.
Anche il suo protettore lo aveva capito e si struggeva in cuor suo
di non poterlo contentare, rimandandolo in patria. Mal sicuri gli
accessi al confine del nuovo regno cristiano; la costa in balìa degli
Emiri, nemici suoi, come della gente cristiana; difficile, per non
dire impossibile, il combinare di là, nel cuore del deserto, una nave
d'Occidente su cui potesse imbarcarsi il suo ospite sconsolato.
Eppure, tanto era l'affanno di Arrigo, che lo _Sciarif_ ne fu scosso e
promise a sè medesimo di tentare una via per rimandarlo tra' suoi.
Erano tornati dalla impresa sfortunata contro l'Egitto. L'incontro di
Bahr Ibn col gran Priore degli Assassini d'Occidente era avvenuto, e i
negoziati avevano sortito quell'esito che sappiamo.
— Cristiano, — disse Bahr Ibn ad Arrigo, — io m'avvedo che l'anima del
guerriero vola col desiderio ai minareti della sua patria lontana. Sii
paziente ancora per pochi giorni. O debbo rimaner qui, inutile a me
stesso e alla mia fede, e allora potremo fare con tutta la mia gente
una corsa verso la valle di Ebron, dove comanda un uomo della tua fede,
il barone Gerardo di Avennes. O accetto la proposta di Abu Wefa e vado
con lui verso settentrione; e allora vedrò di spiccare un drappello di
cavalieri, che ti accompagni ai confini del principato di Tiberiade,
dove regna il valoroso Tancredi. —
Arrigo avrebbe desiderato d'inoltrarsi subito verso le mura di Gaza; ma
l'amicizia rendeva prudente l'animo di Bahr Ibn.
— No, — diss'egli, — mandarti all'Emiro di Gaza, senza la certezza di
un naviglio in quelle acque ad aspettarti, sarebbe un errore. Qui vivi
ospite caro e padrone della mia tenda; laggiù, sarebbe forse lo stesso?
L'ospitalità, lunge dagli occhi miei, non potrebbe mutarsi per te in
prigionia? —
Il povero Arrigo da Carmandino aveva dovuto arrendersi alle giuste
considerazioni dell'amico ed aspettava con impazienza il termine di
quella lunga fermata al castello di Kanat.
Argomentate la sua allegrezza, quando fa annunziato l'arrivo dei
Genovesi nel campo dello _Sciarif_. Il nostro Arrigo fu per impazzirne.
Baciò quella terra dove poc'anzi gli sapea male di essere stato
indugiato così lungamente; volò incontro ai suoi salvatori, e cadde,
mezzo svenuto, nelle braccia di Caffaro, del suo giovane compagno
d'armi, che era stato sul punto di essere anche il suo compagno di
sventura, nel giorno della presa di Cesarea, giorno così glorioso ad un
tempo e fatale per lui.
E là, poichè si fu riavuto dalla commozione improvvisa, senza dargli
tempo di respirare, Arrigo incalzò colle domande l'amico. Sulle
prime non ardiva andar diritto all'essenziale. Domandò di questo e di
quell'altro dei loro compagni; si rallegrò di udire che erano tornati
sani e salvi in patria, e più ancora di sapere che una terza spedizione
era giunta sulle coste di Soria e già aveva ripreso il filo interrotto
delle nobili imprese. Ma il colmo alla sua gioia fu posto dall'annunzio
che la galèa di Caffaro era ad aspettarli nelle acque di Gaza, di
quella Gaza che al suo cuore presago era apparsa come il punto della
liberazione.
— Ma.... — entrò egli a dire finalmente — nessuno mi manda un
saluto.... una parola di conforto da Genova? Non avete altra lieta
novella per me?
— La più lieta che voi possiate immaginare; — rispose Caffaro di
Caschifellone. — Ma vi prego, chetatevi, messere Arrigo; siate forte
alla gioia, come lo siete stato al dolore.
— Dite, dite, amico, fratello mio! — proruppe Arrigo, i cui occhi
raggiavano di contentezza. — Non si muore di gioia; io sarei già morto,
vedendovi giungere al campo di Bahr Ibn. Ma dite, ve ne supplico, dite!
È l'incertezza, che uccide.
— Siamo divisi in due squadre, — disse Caffaro allora; — a due terzi di
strada, al pozzo di Rehobot, ci aspetta il grosso della carovana, ed
è là, col resto dei nostri arcadori, un gentile scudiero che porta il
nome di Carmandino.
— Di Carmandino! — ripetè Arrigo, che non intendeva quella novità.
— Sì, — rispose Caffaro, — ma non è il suo, e lo porta come un augurio.
Lo scudiero è bianco in viso come una fanciulla; ha i capegli d'oro e
gli occhi azzurri.
— Ah! — esclamò Arrigo, mettendosi una mano sul cuore, per comprimerne
i battiti.
— Avete indovinato; — soggiunse Caffaro. — Siate forte, messere. Noi
riposeremo quest'oggi, e se il vostro amico e protettore lo consente,
domani ci rimetteremo in cammino.
— Oh, lo consentirà, non temete! Egli è stato sempre così buono con
me! Mi ha campato da morte, ha vegliato su me, con un affetto più che
fraterno. Una cosa sola non ha potuto darmi, l'allegrezza, perchè
questa non era in poter di nessuno. Infatti, se io non sono stato
libero prima, la colpa non è sua, ma del ferreo destino che ci fa da
oltre un anno vagabondi in queste pianure d'arena. Eppure, vedete,
messer Caffaro, io benedico questa mia lunga cattività, questa dolorosa
lontananza da tutti i miei cari, perchè essa mi ha dato oggi il modo di
scorgere alla prova come la donna dei miei pensieri sentisse fortemente
l'amore.... ed anche, per esser giusti, — soggiunse Arrigo, stringendo
affettuosamente la mano di Caffaro, — come pensassero gli amici al
povero prigioniero di Cesarea. —
Gandolfo del Moro udiva quelle effusioni dell'animo di Arrigo, e
l'amarezza gliene veniva alle labbra.
— Perdio, — brontolò, — come è felice costui! —
E si allontanò dal crocchio, per andarsene ad ossequiare lo _Sciarif_,
che trattava i Genovesi con una liberalità veramente orientale.
— Credenti in Dio, — aveva egli detto ai suoi cavalieri, — noi
combattiamo in guerra i Cristiani, perchè nemici nostri e invasori
delle terre che il profeta ha assegnate al trionfo della sua fede.
Ma essi sono oggi gli ospiti nostri, e l'ospite, dovunque arrivi e da
qualunque parte egli venga, è signore. —
Anche l'alleato suo, Abu Wefa, partecipava di buon grado a queste
amorevoli accoglienze. Arrigo da Carmandino e Caffaro di Caschifellone,
per conseguenza, erano i prediletti di Bahr Ibn; e Abu Wefa prese ad
usar cortesia a Gandolfo del Moro. Ma era egli proprio vero che lo
togliesse come l'ultimo rimasto? E non ci si aveva a vedere piuttosto
un effetto di quella simpatia che nasce spontanea tra i simili?
Era uno strano personaggio, il Dai al Kebir. Anzi, se permettete,
lascieremo quind'innanzi il suo titolo Saracino per chiamarlo
cristianamente il Gran Priore, come usavano tutti i Crociati di quel
tempo, così poco famigliari coll'arabo.
Giovane ancora, intorno ai quaranta, lunga la barba e nera, ma
rada, alto della persona e snello a guisa d'un palmizio, il Gran
Priore poteva sembrare da lunge un bell'uomo, aiutando alla maestà
dell'aspetto la fascia rossa ravvolta a mo' di turbante (dulipante,
dicevasi allora) intorno all'elmo di acciaio, e il gran mantello di
seta bambacina, listato di bianco e di rosso, che nascondeva la cotta
di maglia e gli altri arnesi del guerriero. Ma veduto da vicino era
tutt'altro; la torva guardatura, il volto sfregiato da una lunga
cicatrice, e l'asciutta rigidezza del labbro superbamente atteggiato,
più che maestoso lo faceano terribile. E ciò piacque a Gandolfo,
che vedeva in quel volto riflettersi qualche cosa del suo, e che
istintivamente odiava i belli. Messer Gandolfo era un uomo impastato
di gelosia. Avrebbe fatto a pezzi l'Apollo del Belvedere e il Fauno di
Prassitele, se questi due miracoli di bellezza gli fossero capitati tra
mani.
— Gran Priore, — gli disse, in un momento di espansione, — molte cose
si narrano della vostra possanza. —
Gandolfo non aveva dimenticato i paurosi ragguagli che intorno
alla sètta degli Assassini aveva forniti il povero Abd el Rhaman ai
viaggiatori genovesi, nella loro fermata al pozzo di Rehobot.
Abu Wefa aggrottò le ciglia e diede a Gandolfo del Moro un'occhiata
maestosa.
— Che ne sapete voi, cavaliere? — chiese egli di rimando.
— L'Occidente, — rispose Gandolfo, — è pieno delle vostre gesta. Si
parla di voi, nelle veglie dei nostri castelli, molto più che dei
Turchi d'Iconio e del soldano di Babilonia.
— Ah sì? — disse quell'altro, spianando le rughe del fronte, come uomo
che non era insensibile alla lode. — E che cosa si dice di noi?
— Che siete possenti e terribili come il mistero che vi circonda,
audaci e pronti come gli avvoltoi del vostro nido di Alamut; che avete
sparse le vostre fila sicure per tutto l'Oriente; che siete la più
temuta sètta della religione di Maometto.
— Dite anzi la più grande, e l'unica vitale fra tutte; — rispose
il Gran Priore, con accento da cui traspariva l'orgoglio sconfinato
del suo ordine. — I figli d'Ismaele non possono prosperare più oltre
senza di noi. L'Islam è vecchio; bisogna ringiovanirlo con una nuova
dottrina. E noi ne verremo a capo, collo spavento e col sangue, poichè
altra maniera d'insegnamento non c'è, tra questi imbelli ed ambiziosi
Califfi, che hanno in custodia la bandiera del Profeta, che si
contendono il sommo potere tra loro e lasciano a voi cristiani metter
piedi in Soria.
— E dicono altresì, — riprese Gandolfo del Moro, — che voi, meglio
dell'altra gente, intendete i gaudii della vita, e che la bellezza vi
piace, come il premio più accetto ai valorosi.
— La bellezza è il sorriso dell'universo; — sentenziò il Gran Priore;
— è il paradiso, che Dio ha collocato nel mondo, e non fuori. Vincere,
sterminare i proprii nemici; ottenere la ricchezza e inebriarsi di
amore, è questa la parte dei forti.
— Ben dite, la parte dei forti! — esclamò Gandolfo, a cui scintillavano
gli occhi. — Esser forti, od astuti, che è un esser forti per altra
guisa; questo è l'essenziale. Anch'io, Gran Priore, vorrei essere dei
vostri. —
Abu Wefa gli diede un'altra delle sue guardate, che pareva volerlo
passare fuor fuori.
— Da senno? — gli chiese.
— Perchè no, se fossi più giovane? Non parlo della religione, che, da
quanto ho capito, non dovrebb'essere un ostacolo ad entrare nel vostro
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