Diana degli Embriaci: Storia del XII secolo - 04

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alle labbra se non questo: _Le preux Bouillon!... le preux Bouillon!..._
— _Hè bien, quoi d'étrange?_ — ripigliò il buon duca, percuotendo
amorevolmente la spalla allo sfregiato balestriere. — _Le preux
Bouillon!... a tâtè de ta soupe, et, foi de chevalier, il la trouve
excellente_. —
Ciò detto, e tolto commiato da messere Guglielmo, inforcò prontamente
l'arcione e via a galoppo, mentre Anselmo, che non capiva nella pelle,
andava tuttavia ripetendo: _le preux Bouillon! le preux Bouillon!_
Dopo quel giorno, quando occorreva che i commensali dell'Embriaco
volessero dal cuoco quel tale miscuglio innominato d'erbucce, non
c'era che a dirgli:_ preux Bouillon_! ed egli capiva senz'altro.
Questa è, lettori, l'origine del _preboggion_, che io metto qui in
vernacolo genovese, non essendoci nella lingua italiana il vocabolo
corrispondente, a dinotare questa mala minestra di bietole, cappucci
bislacchi, prezzemolo ed altri camangiari d'ogni generazione, mescolati
col riso, ch'è un vero guazzabuglio; e ciò per l'appunto significa la
parola preboggion, almeno in traslato.
Questa è l'origine, ho detto; ma badate, le mie parole non sono
evangelio, e tutti, ahimè, siamo fallibili in questo povero mondo.
E adesso, dati gli spiccioli della prima spedizione dei Crociati
genovesi, che già avevamo narrata in di grosso, ci asterremo dal
raccontarvi la seconda, a cui si conviene altro storico, che non starà
molto a giungere in scena.
Si aggiunga che il tempo stringe. Diana è già scesa dall'alto della
torre, donde per la seconda volta ha veduto giungere a riva le galere
della Croce; e Guglielmo Embriaco, questa volta vincitore di Cesarea,
e senza aiuto d'altre braccia, all'infuori delle genovesi, scende a
terra dinanzi alla porta di San Pietro, in capo al Mandracchio, tra gli
evviva di tutto un popolo accalcato, sulla curva spiaggia, arrampicato
su per le antenne delle navi, appollaiato sul ciglio delle mura.
L'ingresso in città volle il suo tempo. Egli non era agevole, con
tutta quella ressa di popolo festante, condurre speditamente entro
le mura ottomila uomini; chè tanti n'erano tornati incolumi da quella
seconda impresa di Terra Santa. Messere Guglielmo, lasciata una parte
dei marinai a custodia delle galere, pigliati con sè i maggiori e una
scorta pei camelli, che doveano portare al vescovo la decima delle
prede di guerra ed altri preziosi donativi alla chiesa e al comune,
aveva dato licenza a tutti gli altri di sparpagliarsi a lor posta,
e tornarsene ognuno alle case sue. Senonchè, nessuno aveva usato
di quella liberalità del capitano, quantunque a tutti la famiglia
premesse, e ognuno portasse con sè, spoglie opime della vittoria, due
libbre di pepe e quarantotto soldi di pittavini (così detti perchè
coniati nel Poitou, là dalle parti di Francia) che non erano una
spregevol moneta, dacchè ogni soldo era d'oro e quarantotto di quei
soldi facevano una libbra e due oncie di quel nobilissimo metallo.
Il bottino era stato lautissimo in Cesarea, come può rilevarsi dal
conto di quelle ottomila parti, alle quali bisognerà aggiungere quelle
dei comandanti, il quinto assegnato alle galere e la decima prelevata
pel vescovo. Nè, se ottimi erano i pittavini, il pepe era da meno.
Derrata preziosa oggidì, bene aveva ad essere preziosissima in quei
tempi, chè essa era di tanto più rara, e la si mettea da pertutto, a
conforto di più saldi palati che ora non siano in Europa.
A farla breve, i nostri crociati non avevano a lagnarsi della
fortuna, e considerato il prezzo dell'oro in quel secolo, poteano
anche consolarsi d'aver faticato un anno per la gloria. Nè quello era
il tutto, dappoichè la presa di Cesarea ben altro aveva fruttato ai
Genovesi; e ne faceva solenne testimonianza un camello, più gelosamente
custodito degli altri, la cui soma, ravvolta in un drappo di Balsòra,
dovea racchiudere alcun che di maraviglioso.
Ma di cotesta meraviglia lascieremo le primizie ai consoli e al vescovo
Airaldo, i quali attendevano in pompa magna l'Embriaco; queglino alla
porta Marina, insieme coi maggiorenti della città; questi, coi suoi
diaconi, sotto il vestibolo della gran chiesa di San Lorenzo. La era
una festa, una solennità, che mai la maggiore, nemmeno per l'arrivo
delle ceneri del Battista, ottenute tre anni addietro, siccome ho
raccontato. Epperò s'intenderà come i reduci soldati dell'Embriaco non
avessero voluto saperne d'andarsene spartitamente alle case loro, e si
fossero tenuti in ordinanza, per esser parte di quel trionfo massimo
che Genova preparava ai suoi figli.
Ed era bello il vederli, abbronzati dal sole di Palestina, sfilare in
lunghi drappelli rilucenti e sonanti dalla Porta Marina alla piazza che
fu poscia dei Banchi, dinanzi all'antica chiesuola di San Pietro, in
mezzo alla moltitudine che si accalcava plaudente sul loro passaggio,
che irrompeva gridando da ogni via, che si affacciava dai veroni, che
appariva dalle altane, che s'aggrappava ai comignoli dei tetti, pur
di vedere, di salutare con un evviva i crociati genovesi. Viva San
Giorgio! gridavano i soldati, rendendo al fortissimo barone, come lo si
chiamava in quei tempi, l'onore delle loro vittorie; viva San Giorgio!
e commossi dal plauso popolare, alzavano in aria, percuotevano l'una
contro l'altra, le balestre, le lancie, le spade. Intanto le campane
delle venti chiese di Genova (chè tante ne aveva allora edificate
la pietà cittadina) suonavano confusamente a festa, ed era tutto uno
scampanìo, un grido, un frastuono, in mezzo al quale non fu pur dato
di udire la tromba del cintraco, che annunziava la presenza dei consoli
sulla gradinata di San Pietro alla Porta.
Ma bene lo udì messere Guglielmo, che modesto in tanta gloria, e
schermendosi come meglio poteva dalla ressa degli ammiratori, procedeva
primo tra tutti, badando ad ogni cosa e ad ogni cosa provvedendo,
giusta il debito di buon capitano. Giunto egli sulla piazza e veduti i
consoli raunati sotto il vessillo del comune, corse loro incontro; essi
del pari incontro a lui, chè non volevano esser vinti in cortesia, e
tutti, l'un dopo l'altro, vollero stringerlo al seno e baciarlo su ambe
le guancie, Amico Brusco, Mauro di Pizzalunga, Guido di Rustico del
Riso, Pagano della Volta, Ansaldo del Brasile e Bonomato del Molo.
Indi, precedendo i consoli, e messere Guglielmo tra essi, la schiera
s'inoltrò per la via dei Fabbri, donde, svoltata in Campetto, salì
per la via degli Scudai, che metteva alla piazzetta di San Lorenzo. Fu
colà un entusiasmo da non dirsi a parole; quei bravi artefici erano in
visibilio; ritti sulle soglie delle loro botteghe, ammiravano quelle
maglie, quelle targhe e quegli elmetti, opera loro, e applaudivano, e
n'aveano ben donde. Di quelle armature che passavano dinanzi a loro,
nessuna vedevasi sana; segno che il soldato avea fatto il debito suo,
combattendo, e l'armatura del pari, poichè, con tutti quei danni, avea
pur restituito incolume il suo possessore.
Qui raddoppiarono gli evviva a San Giorgio, che certo ebbe a sentirne
il rimbombo dal cielo; e assai lungamente, imperocchè, per un'ora, se
non forse di più, quelle grida echeggiarono. Nè poteva esser diverso,
chè il corteggio era lungo oltremodo, non pure pel numero de' Crociati,
ma eziandio delle loro salmerie e di quelle strane bestie gibbose
che recavano la parte del bottino dovuta alla Chiesa. Gli ultimi
erano tuttavia alla porta Marina, che già messere Guglielmo saliva la
gradinata di San Lorenzo e sotto il vestibolo del tempio maggiore di
Genova era accolto tra le braccia del vescovo Airaldo.
Qui sarebbe il caso di sciorinare un po' di erudizione ammuffita
intorno alla prima fra le cattedrali italiane, che, sebbene non fosse
ancora tanto ampia nè tanto vistosa come appare ai dì nostri, era già
allora una cosa compiuta, coi suoi tre portali a sesto acuto, che
sfondavano in mezzo a fasci di colonnette di marmi svariati, quali
avvolte a spira, quali ritte a sembianza di pali, che salissero a
sostenere un pergolato. Ma queste cose oramai le si leggono in tutte
le guide, ed io me ne lavo le mani, da gran signore, nel catino di
Cesarea, preziosissimo tra tutti i doni che Guglielmo Embriaco ha
recato alla patria.
Vi ho detto per l'appunto di un certo cammello, la cui soma era
coperta da un drappo di Balsòra. Il gran capitano aveva chiuso là
dentro una scodella di smeraldo, trovata coll'altre ricchezze nel
sacco di Cesarea, e creduta comunemente un avanzo del tesoro di Erode
Ascalonita, quel tale che ordinò la memoranda strage degl'innocenti.
Era voce che in quella scodella il Nazareno avesse mangiato l'agnello
pasquale; la qual cosa, se vera, non si accorderebbe troppo col
ritrovamento del prezioso cimelio in Cesarea e colla sua leggenda
erodiana.
La vista di quella gemma smisurata fece inarcare le ciglia al buon
vescovo, ai diaconi e ai consoli radunati sotto il vestibolo del
tempio. Che si fa celia? Una meraviglia di smeraldo simile non si era
mai veduta a Genova, nè altrove; e nessuno aveva presente il testo di
Plinio, dove dice di smeraldi anco più grossi e più finamente lavorati,
per toglier pregio a quel vaso, d'un bel verde trasparente, ottagono e
largo almeno tre spanne. «Il quale nondimeno (è Monsignor Giustiniani
che parla), se fosse quello dell'agnello pasquale di Cristo, la quale
cosa io non nego nè affermo, ovvero che in esso da quell'evangelico
Nicodemo fosse stato riposto al tempo della Passione il prezioso
sangue del Salvator nostro, come pare, secondo alcuni, che si legga
negli annali degli Inglesi, saria da preporre a tutti gli smeraldi
_etiam_ coadunati insieme, e a tutte l'altre gioie e tesori che mai si
trovassero nel mondo.»
Ma basti di ciò. Il famoso smeraldo, rapito sul finire del secolo
scorso dagli agenti dell'Impero francese, si ruppe in viaggio, e si
dimostrò qual era veramente, un catino di vetro colorato. Ragione per
cui i rapitori non fecero poi tante difficoltà a restituircelo.
La tarda scoperta non deve far ridere i nepoti irriverenti alle spalle
di messere Guglielmo Embriaco e di tutti i suoi contemporanei, che
credettero nella preziosità del sacro catino. Scemato il valore venale
di questa reliquia, essa rimase (lo dirò coll'Alizeri) un meraviglioso
esempio dell'antico magistero nella vetraria; e non iscade per nulla il
pregio che gli è derivato dall'antichità e dalla storia.
— Richiama pure il tuo servo, o Signore, — esclamò il vescovo Airoldo,
levando le palme al cielo, innanzi di abbracciare l'Embriaco, — perchè
gli occhi miei hanno veduto il tuo nuovo trionfo.
— Padre mio, — rispose Guglielmo, — coll'aiuto di Dio i Genovesi
compiranno altre laudabili imprese, e avranno mestieri perciò delle
vostre benedizioni.
— Noi siamo impazienti, — soggiunse uno dei consoli, — di udire dalle
vostre labbra, messere Guglielmo, il racconto della spedizione che ha
fruttato tanta gloria e tante ricchezze alla patria.
— Non dalle mie, messer Pagano della Volta; — rispose l'Embriaco. — È
qui tra i miei cavalieri un giovane, che sa molto di lettere, ed ha già
scritto un cenno delle cose da noi operate; e voi dovete conoscerlo.
— Io? ditemi il suo nome, vi prego.
— Un vostro congiunto, nato da vostra sorella Giulia e da Rustico di
Caschifellone. Caffaro, — proseguì messer Guglielmo, volgendosi alla
brigata di gentiluomini che lo aveva seguito sotto il vestibolo, —
mostrate a vostro zio, e agli altri onorandissimi consoli, che Genova
avrà quind'innanzi uno storico delle sue gesta, e uscito dalle file dei
suoi migliori soldati.


CAPITOLO VII.
La presentazione del primo annalista di Genova.

Le parole di messer Guglielmo Embriaco fecero inventar rosso come
una fravola il viso d'un giovane, a mala pena ventenne, che era nella
sua comitiva. Consideriamolo un tratto, mentre gli occhi di tutti gli
astanti sono rivolti su di lui.
Il giovane vestiva come tutti gli uomini d'arme del suo tempo: camicia
di maglia d'acciaio, che scendeva fino al ginocchio, e cappuccio,
anch'esso di maglia, arrovesciato sugli omeri, perchè non aveva
elmo, ma in quella vece una semplice berretta d'ormesino rosso, donde
uscivano in lucide anella i capegli biondi, incoronando un viso più
allungato che tondeggiante, ma così fresco e gentile, che sarebbe
parso di fanciulla, se le guancie e il labbro superiore, coi primi
peli morbidi ond'erano ornati, non avessero fatto alla bella prima una
testimonianza contraria. Del resto, lo si poteva credere un guerriero,
che avesse vergogna di mostrarsi tale in mezzo a tante facce d'uomini
prodi, abbronzate dal sole dei campi di battaglia e fatte ruvide dalla
vita sul mare, alla spruzzaglia dei marosi e al fischio dei venti;
perchè, come l'elmo era messo da banda, così anche la maglia si teneva
nascosta sotto una tunica di lana bianca, ornata sul petto di una
modesta croce vermiglia.
All'invito di messer Guglielmo, accolto da lui come fosse un comando,
il giovane uscì fuori dal gruppo, andando alla volta dei consoli.
Pagano si mosse incontro a lui e lo baciò su ambedue le guance; indi,
tenendolo stretto fra le sue braccia e guardandolo amorevolmente negli
occhi, gli disse:
— Eccoti qui, ragazzo mio! Sei partito fanciullo e torni uomo. Sarà
felice tua madre, quando ti vedrà salir l'erta di Caschifellone!
— Ah, non sono a Genova, i miei? — chiese il giovane, leggermente
turbato dalle ultime parole di suo zio.
— No, sono in Polcevera. Il castellano ha gli obblighi del suo ufficio,
che passano avanti a ogni cosa.
— È giusto; — disse il crociato. — Partirò dunque subito, se voi e
messere Guglielmo me ne date licenza.
— Pare che ti rincresca; di' su! — gli susurrò nell'orecchio lo zio. —
Avresti per avventura qualche bel viso di donna da rivedere?
— Zio!
— Eh, non ti far rosso, via! Che cosa ci sarebbe di male?
— Sì, ho per l'appunto da vedere... qualcheduno; — rispose il giovine
tutto confuso.
— Qualcheduna, vorrai dire.
— E sia, qualcheduna, ma non per me. Ho una imbasciata da fare.
— Fàlla prima e poi corri da' tuoi.
— Poterlo! — mormorò il giovane. — Non conosco la donna a cui debbo
parlare.
— Che cosa mi narri tu ora?
— Storia pretta, mio zio.
— A proposito di storia, non dimentichiamo che ci hai da leggere
quella delle vostre prodezze in Terra Santa; — ripigliò Pagano della
Volta, alzando la voce, poichè i suoi colleghi di consolato si erano
avvicinati per stringere la mano al suo valoroso nipote.
— A voi dunque, messer Caffaro di Caschifellone; — disse il console
Amico Brusco, uno dei sette figli di Guido Spinola e perciò fratello
dell'Embriaco; — leggete il racconto delle imprese a cui avete
partecipato. Il santissimo Airaldo ve ne prega, e i consoli tutti, per
mia bocca, ugualmente.
— Qui? — balbettò il giovane, facendosi piccin piccino nella sua cotta
di maglia.
— E perchè no? — disse un altro personaggio, grave all'aspetto, che
era il diacono Sallustio, consigliere del vescovo. — Tutto quanto voi
narrerete, messer Caffaro, è gloria della croce, ed è ragione che si
ascolti nella casa di Dio. —
Un mormorio di approvazione accolse le parole del vecchio Sallustio.
La cosa non dee recare meraviglia ai lettori, se ricorderanno che il
duomo di San Lorenzo, essendo una cosa medesima col Comune, era appunto
il luogo da ciò. Diventato secolare il governo, i consoli, tuttochè
non fossero più gli scabini del vescovo, in ossequio alla sua venerata
autorità usavano amministrare la giustizia e tenere i parlamenti sotto
il vestibolo del tempio.
Colà, all'ombra della graticola di marmo, su cui era raffigurato il
martire Lorenzo, si facevano adunque i decreti consolari, si ricevevano
gli atti di cittadinanza e di vassallaggio di principi e popoli,
si davano le investiture, si manomettevano i servi, si pubblicavano
le leggi a suon di tromba dal cintraco, si deliberavano le imprese,
si bandivano le guerre, si conchiudevano le paci, si stringevano le
alleanze, si celebravano le vittorie.
Aggiungerò che il Duomo di San Lorenzo era compreso in ogni trattato,
che i feudatarii e i vassalli giuravano fedeltà ed obbedienza ad
esso, e che in ogni disposizione testamentaria dovevasi rammentar la
sua fabbrica. Fu insomma il monumento più glorioso del nuovo Comune,
ordinato sugli avanzi della curia romana e della barbarie feudale,
e durò a lungo come il palladio della libertà genovese. Le sue case
contigue e le sue torri, se occupate, davano il dominio di tutto lo
Stato agli occupatori; e i Ghibellini più d'una volta minacciarono
d'appiccarvi il fuoco. Ma forse prevalse la reverenza ad un miracolo
dell'arte italiana, prevalse quel culto della forma, che s'infiltra a
poco a poco negli animi più rozzi, _nec sinit esse feros_.
Il giovane Caffaro, così caldamente pregato dai maggiorenti della
città, pose mano al suo cartolaro; e alla presenza del vescovo, dei
consoli e dei capitani, lesse la sua narrazione, semplice, disadorna,
ma veritiera e scevra di tutte quelle esagerazioni che la pedissequa
cura degli esemplari antichi doveva ficcare nel latino di quattro
secoli dopo.
È questo un dirvi chiaro che il racconto del giovine gentiluomo era
dettato in quella lingua, giusta il costume d'allora. E perchè riesca
chiara anche la narrazione dei fatti, io vi compendierò lo scritto
in volgare, avvertendo che questa, se Dio vuole, sarà l'ultima
indigestione di storia che farete per colpa mia.
Si torna indietro fino al capitolo sesto, dove ho già detto delle
ventisette galere partite nel 1100 per la seconda spedizione di Terra
Santa, con sei navi cariche di pellegrini d'ogni nazione. Giunti nel
porto di Laodicea, città della Siria e soggetta ad Alessio imperatore
di Costantinopoli, vi si trattennero per tutta la seguente invernata.
Morto era il pio Buglione di peste, nel mese di giugno, non essendo
vissuto che un anno nell'amministrazione del regno di Gerusalemme. Ed
essendo ridotto in ischiavitù Boemondo, figlio a Roberto Guiscardo,
duca di Puglia, que' paesi, conquistati con tanta fatica ai Saracini,
erano abbandonati in balìa di sè stessi. Li ebbero in tutela i
Genovesi, che si può dire capitassero davvero in buon punto; e
d'accordo col vescovo Maurizio, legato del Papa, mandarono a Baldovino,
fratello dell'estinto Goffredo e a Tancredi, cugino di Boemondo, perchè
assumessero, quegli, la corona di Gerusalemme, questi il principato di
Antiochia. Consentì Baldovino, a patto che i Genovesi lo aiutassero.
E così avvenne che, cavalcando alla volta di Sion, incontrati tremila
Saracini, nel distretto di Bairut, li ruppe e procedette senz'altro
contrasto fino a Gerusalemme.
Arrideva la fortuna ai Genovesi. Nella quaresima dello stesso anno 1101
partivano essi di Laodicea, colle galere, le navi e tutto l'esercito,
costeggiando le città marittime infino a Caiffa, anticamente denominata
Porfiria, che era de' Cristiani. Colà, per un violento fortunale,
tirarono le galere in terra; il che tolse loro di potersi misurare,
come avrebbero voluto, coll'armata del Soldano d'Egitto, forte di
quaranta vele, che, sbattuta dal vento impetuoso, passò davanti alla
costa, andando fino al porto di Ascalona.
Messer Guglielmo Embriaco rammentava ancora il primo incontro avuto
cogli Egiziani, e volendo ricattarsi della perdita di due galere, che
ho già raccontato ai lettori, fece quella medesima notte prendere il
mare ad una parte dei suoi legni, per dar caccia al nemico. Ma fu tanta
la rabbia del mare, che, giunti alle viste dei Saracini e già disposti
a far arme in coperta, ne furono separati senz'altra speranza, e
l'armata nemica ebbe campo a salvarsi.
— Sarà per un'altra volta! — disse l'Embriaco. E celebrata nelle acque
di Porfiria la festa della domenica delle Palme, navigò verso Joppe;
nella quale città gli venne incontro il re Baldovino colle bandiere
spiegate e salutò l'armata e l'esercito con alto suono di trombe.
Colà, tirate in secco le navi, si sbarcarono i cavalieri e le ciurme.
Baldovino volle i suoi Genovesi a Gerusalemme, dove entrarono, per la
seconda volta il mercoledì santo, e dove, poi ch'ebbero digiunato tutto
il giorno e la notte sopra il sabato, si recarono a visitare il Santo
Sepolcro, aspettando che dal cielo, come era fama, si facesse scorgere
in quel dì il lume di Cristo; fuoco miracoloso «disceso visibilmente
dal cielo, il quale si vedeva accendere tutte le lampade che sogliono
stare appese intorno al sepolcro.»
Ma per tutto quel giorno, nè la notte appresso, il santo lume non
si mostrò, quantunque tutti lo dimandassero con lagrime, sospiri
e _Kirie eleison_ a perdita di fiato. Il patriarca Damberto, già
vescovo di Pisa, li esortò allora a recarsi tutti nel tempio di
Salomone, imperocchè Dio aveva promesso di consentire ogni dono a chi
lo supplicasse con mondo cuore sull'ingresso del tempio. Andarono, a
piedi scalzi, divotamente pregando, visitarono il tempio, chiedendo
l'aspettato miracolo, a conforto della pietosa curiosità, indi
ritornarono al Santo Sepolcro. L'accenditore era pronto e i nostri
buoni antenati ebbero la grazia. Il vescovo Maurizio e il patriarca
Damberto furono i primi, come era giusto, a veder scendere il lume in
due lampade, che sogliono stare nell'ultima camera del Santo Sepolcro.
«E diffusa la voce per la città, poichè la maggior parte erano andati a
desinare, subito ognuno corse al tempio del Santo Sepolcro, e in quella
meridiana luce furono vedute essere accese le sedici lampade che erano
di fuori intorno al Santo Sepolcro, l'una dopo l'altra; e si vedevano a
modo d'un fumo affogato ed ardente, che veniva dal cielo, ed ascendeva
per l'acqua e per l'olio insino allo stoppino della lampada, e facevalo
scintillare tre volte, e restava il lucignolo acceso.»
Non sono io che racconto; è Caffaro giovinetto e pieno di fede.
Dopo ciò, andarono i Genovesi alla visita dei santi luoghi. Videro
il Giordano e tornarono a Joppe; con Baldovino deliberarono la
espugnazione di Tiro (Assur, dicevano allora), e la condussero a buon
fine in tre giorni. Poscia, nel mese di maggio andarono le galere
coll'esercito all'assedio di Cesarea, detta anticamente Torre di
Stratone, poi Cesarea, in onore di Cesare Augusto, da Erode che la
riedificò, in ultimo Flavia da Vespasiano, che la fece colonia romana.
Tirati i legni alla riva, i Genovesi occuparono di primo impeto il
paese e stettero accampati nei giardini e negli orti insino alle mura
della città. Intanto, colla usata diligenza, si diedero a fabbricare
castella di legname ed altre macchine, per condurre innanzi l'assedio.
Impensieriti da quella vista, i Saracini mandarono due messaggieri, con
parole di pace.
— La vostra legge, o Cristiani, non proibisce ella di uccidere uomini
fatti a somiglianza di Dio, e di pigliare la roba d'altri? E nondimeno,
voi, che siete maestri e dottori della legge cristiana, comandate alle
vostre genti di uccider noi e di usurpare la roba nostra! —
Così cavillavano i Saracini. Ma udite come rispondesse di trionfo il
patriarca.
— Noi non vogliamo già usurpare l'altrui, ma ricuperare la terra che
fu dell'apostolo San Pietro e che appartiene a noi, come suoi vicarii
e successori. Per quanto è dell'uccidere, Dio vuole che sia fatta
vendetta, col coltello e colla spada, di chi fa contro alla sua legge.
Lo ha detto il profeta: «A me si appartiene la vendetta, ed io sarò
il pagatore; a me si appartiene far piaga e sanarla, e non è chi possa
campare dalle mie mani.» E perciò brevemente vi diciamo che abbiate a
restituire la città, e sarannovi salvate le persone e le robe; se no,
Iddio vi ferirà col suo coltello, e sarete morti giustamente. —
Recata questa intimazione in città, si riconobbe che con simili
avvocati non c'era a far altro. Il Cadì, capo civile della terra,
avrebbe voluto arrendersi, per salvare le robe. Ma per contro, l'Emiro,
che era il comandante militare, gridò che innanzi di render la terra
voleva si provassero le spade dei suoi uomini con quelle dei Genovesi,
sperando egli di far partire questi ultimi dall'assedio, e con loro
grande vergogna. E prevalse, com'era naturale, il consiglio dell'Emiro.
Udita questa risoluzione, che gli parve arrogante oltre ogni credere,
il patriarca arringò l'esercito.
— «Venerdì prossimo, che è il giorno della Passione, la mattina per
tempo, dopo che ciascuno di voi avrà comunicato e ricevuto il corpo e
il sangue del Signore, senza castella e senza macchina alcuna, con le
sole scale delle galere, salirete sulle mura; e se avrete fede che, non
per virtù vostra, ma per grazia di Dio dobbiate aver vittoria della
città, io vi annunzio e profetizzo che, prima dell'ora di sesta, Dio
onnipotente darà in vostra mano la città, gli uomini, le ricchezze ed
ogni altra cosa che essa contiene.» —
Parlava l'entusiamo, non l'arte, e molto meno il senno militare. Ma per
allora non era il caso di aver contraria opinione. Guglielmo Embriaco,
pensandoci su quel tanto che può correre dal lampo al tuono, accettò
l'invito del Pisano, ma a patto di essere il primo a tentare l'impresa,
forse per non assistere allo sbaraglio de' suoi, se falliva. Il vescovo
aveva a mala pena finito di parlare, che egli secondò con infiammate
esortazioni l'audace proposito, facendo giurare l'esercito che lo
avrebbe immantinente seguito all'assalto.
— Con voi, capitano, alla morte e alla gloria! — gridò Arrigo da
Carmandino, a cui fecero eco tutti i suoi generosi compagni.
— Orbene, andate alle galere, spiccate le scale di fuori banda e
venite. Nessun invito ha da essere tenuto più prontamente di questo,
che ci ha fatto il patriarca Damberto. —
Corsero le ciurme; tolsero le scale dai bandinetti, e via di corsa, a
braccia tese, fino a' piè delle mura, circondati da numeroso stuolo
di cavalieri. Guglielmo Embriaco, Testa di maglio, era il primo di
tutti. Armato di corazza, di lancia e di spada, pose il piede sulla
prima scala che fu accostata al muro, e si inerpicò veloce di piuolo
in piuolo, senza pure munirsi di scudo, contro le frecce, i sassi e la
rena infuocata, che gli avventavano sopra i nemici. L'elmo di ferro, e
più la fortuna, schermì l'animoso condottiero, che giunse ad afferrare
la merlata, mentre la scala, non potendo sostenere il gran numero di
coloro che seguivano, si rompeva, facendo cadere quei volenterosi nel
fosso.
— Sire Iddio! — gridò il Carmandino, rizzandosi a stento sulle
ginocchia. — L'ho detto io, che si saliva in troppi!
— Vi siete fatto male, Arrigo? — chiese una voce accanto a lui.
— Chi siete? Ah, il giovine Caffaro! Bravo, eravate dei primi anche
voi? Non è nulla, vedete; un po' di stordimento e nient'altro. Animo,
su, a quell'altra scala! Purchè giungiamo in tempo, e non accada
disgrazia al capitano, che deve esser rimasto solo lassù. —
Era proprio mestieri che volassero al soccorso. Trovatosi solo ed
incolume sul parapetto, Guglielmo Embriaco pregò Iddio che si degnasse
di aiutarlo; siccome era uomo da poter fare due cose ad un tempo, menò
attorno la lancia, atterrando i primi che gli capitarono sotto. Una
torre sorgeva lì presso, e l'Embriaco vi corse a riparo. Ma appunto
allora ne usciva un Saracino, che gli si avvinghiò al petto, tentando,
se gli veniva fatto, di soverchiarlo. Era una bisogna difficile assai,
e alle prime strette che diede l'Embriaco per svincolarsi da lui, il
Saracino ebbe a domandargli mercè. Gittata la lancia, inutile in quel
frangente, messere Guglielmo aveva afferrato il nemico per un braccio,
e così forte, che a quell'altro parve di esser còlto da una tanaglia di
ferro.
— Signore, te ne prego; — gridò egli allora con accento
compassionevole; — lasciami andare e sarà meglio per te.
— In che modo? — chiese l'Embriaco, che non coglieva il senso di quella
esortazione.
— Perchè i miei compagni verranno a liberarmi, o a vendicarmi: —
rispose il Saracino; — e tu non farai in tempo ad entrar nella torre.
— Ragioni diritto! — esclamò Guglielmo. — Va dunque, e trova un altro
che ti perdoni la vita, come io te la perdono. —
Così dicendo, lentò la stretta, sicchè il nemico potè sfuggirgli di
mano. E corse, non dubitate, come se avesse le ali alla calcagna, e
temesse lì per lì un mutamento di proposito.
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