Diana degli Embriaci: Storia del XII secolo - 17

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a cavare i frutti di quella visita, impegnando i Genovesi all'imminente
assedio di Tripoli. Quell'altra impresa era stata disegnata e doveva
essere condotta dal conte di Sant'Egidio, uno dei pochi baroni
d'Occidente, rimasti a difesa del regno crocesegnato.
Messer Guglielmo promise, in nome dei suoi figli e di tutta l'armata
che essi guidavano. Quanto a lui, era venuto per un ufficio di padre,
e doveva ritornare incontanente a Genova, dove lo richiedevano le sue
cure di console. Per altro, innanzi di rimettersi in mare, il forte
uomo avrebbe voluto assicurare la sorte della sua Diana, dandola in
moglie ad Arrigo. Ma qui, dove meno se l'aspettava, occorse l'intoppo.
Arrigo non era più libero, e doveva rinunziare ad ogni speranza di
felicità sulla terra.
— Padre mio, — diss'egli piangendo, — quando avevo perduto ogni
fiducia nelle mie forze e in quelle degli uomini, per rintracciare la
vostra diletta figliuola e liberarla dalle mani dei tristi, ho giurato
di consacrare il resto dei miei giorni all'Ordine del glorioso San
Giovanni, se madonna Diana fosse restituita incolume ai suoi cari.
— E al vostro voto, Arrigo, io son debitrice della mia salvezza; —
rispose Diana, non meno commossa di lui. — Questo è volere di Dio;
rispettiamolo. Io pure ho giurato. O di Arrigo, o di nessuno. Voi
tra gli Ospitalieri di San Giovanni; io tra le vergini di Santa Maria
Latina. —
Messer Guglielmo non seppe che rispondere.
Intanto quei due giovani piangevano. E il vecchio Anselmo, che era
profondamente pio, ma che credeva altresì non potere certi sacrifizii
tornare accetti al Signore, prese di schianto una grande risoluzione.
— Infine, — borbottò egli tra i denti, — un re è un uomo come un altro,
e non mi mangerà mica cogli occhi. —
Avete già capito che il vecchio scudiero domandava un'udienza al re
Baldovino. E l'ottenne, e là, senza tanti preamboli, con schiettezza da
soldato e da marinaio, gli raccontò ogni cosa, dall'a fino alla zeta.
— Mio buon amico, e che ci posso far io? — disse il re, dopo averlo
ascoltato con molta benevolenza. — Non c'è che il Papa, per sciogliere
i voti dei fedeli cristiani.
— È vero.... — rispose Anselmo; — è proprio vero.... — aggiunse, mentre
si recava macchinalmente e poco rispettosamente la mano al capo, per
grattarsi la nuca. — Ma ecco qua!.... Il Papa non ha forse un legato
in Gerusalemme? E non ce l'avrà mica mandato, io mi penso, per legare
soltanto! —
Il re Baldovino, a quella uscita spontanea del vecchio, non seppe
trattenersi dal ridere.
— Hai ragione, in fe' mia! — esclamò. — Vedete questo vecchio arcadore,
— soggiunse, volgendosi a Folchiero di Chartres, che era stato
l'introduttore di Anselmo, — vedete questo vecchio arcadore, che mette
un re sulla via! Tanto è vero che i buoni consigli si trovano da per
tutto! —
Fu chiamato senza indugio il legato, che era, come sapete, il buon
vecchio Maurizio, anch'egli amico dei Genovesi, e spettatore della
giostra sul piano del Sicomòro. Delle sue buone disposizioni per tornar
utile a messer Guglielmo non si poteva dubitare.
— I Genovesi ci hanno grandemente aiutato, e più ancora ci aiuteranno
in questa edificazione del reame di Cristo; — disse il re Baldovino. —
È debito nostro, messere, di fare in guisa che il console di Genova se
ne parta contento.
— Sire, voi dite il vero; — rispose il vescovo Maurizio. — E poichè noi
abbiamo potestà di legare e di sciogliere, possiamo anche rimettere
il suo voto al prode Carmandino, al vincitore di Tortosa. Ma pensate
che egli ripasserà il mare e il regno vostro avrà perduto un valente
campione. È già troppo scarso il numero dei baroni d'Occidente, a cui
non sia parso grave di rimanere in Terrasanta, per servizio di Cristo!
— Voi dunque non sciogliereste dal suo voto Arrigo da Carmandino? —
disse il re, scosso da quella argomentazione del vescovo.
— Sì e no; — rispose Maurizio. — cioè a dire, vorrei poter conciliare
una cosa coll'altra. Il voto è senza fallo una ispirazione del cielo.
Ora, se noi ce ne assicurassimo i frutti, anche pagando quell'altro
di due cuori innamorati, pare a me che si potrebbe consentire al
matrimonio senza rimorsi.
— Pare anche a me d'indovinare il vostro pensiero. Sciogliere il
Carmandino dal suo voto, ma ritenerlo con giuramento al nostro
servizio. Non è così?
— Per l'appunto; — rispose il legato.
Quel medesimo giorno, alla presenza del re e di tutta la sua corte, il
vescovo Maurizio così parlava ad Arrigo da Carmandino e a Diana degli
Embriaci:
— Miei figli, Iddio, padre di amore, non accoglie i voti che condannano
i cuori ad un eterno martirio. Iddio vuol servi amanti ed operosi. Le
tristi prove, durate da voi con tanta costanza e fiducia, gli bastano.
In nome di Dio, non accetto il voto di Arrigo che in parte. Sia sposo
a Diana, ma resti in Sorìa, dove il regno di Cristo ha mestieri di
valorosi campioni, e dove egli potrà essere utile, colle armi di San
Giorgio, come se fosse ascritto alla milizia di San Giovanni. —
Piacque la cosa ad Arrigo, che ringraziò con effusione il buon legato,
e promise tutto ciò ch'egli volle. Piacque a messer Guglielmo, che si
separava da sua figlia; ma la vedeva già signora di un principato in
Terrasanta, scambio di lasciarla umile e triste monaca nell'ospizio
amalfitano di Santa Maria Latina. Quanto a Diana, che vi dirò? La
sua felicità era pari a quella di Arrigo. Del resto, l'amore della
fanciulla non era forse incominciato dal giorno che il bel Carmandino
aveva presa la croce? E non era giusto che continuasse all'ombra della
croce?
Tre anni dopo le cose narrate, e così male, dal vostro servitore
umilissimo, tutta la costa di Sorìa era ridotta, la mercè dei Genovesi,
in soggezione di Baldovino. Il quale, in ricompensa delle espugnazioni
di Malmistra, Solino, Laodicea, Tortosa, Tripoli, Gibello, Beirut,
Acri, Gibelletto, Cesarea, Assur, Joppe, Ascalona, diede in feudo
a cittadini genovesi parecchie terre, e alla gloriosa repubblica
una contrada in Gerusalemme, una in Joppe, e la terza parte delle
entrate marittime di Assur, di Cesarea e di Acri, nelle quali città
i mercatanti genovesi avevano un proprio magistrato e vivevano colle
leggi loro, come se fossero sempre all'ombra delle torri di Sarzano.
Del resto, carta canta; ed ecco qua il privilegio, come fu vergato in
pergamena e trascritto dai Genovesi (in latino, s'intende) sul libro
del Comune:
«L'anno della Incarnazione del Signore mille cento cinque, a ventitrè
giorni di maggio, nel tempo che il patriarca Damberto presiedeva al
governo di Jerusalem, regnante Baldovino, Dio onnipotente, per mano
dei servi suoi Genovesi, ha dato la città di Accon (Acri, o Tolemaide)
al suo glorioso sepolcro. I quali eziandio vennero col primo esercito
dei Franchi, e virilmente si adoperarono all'acquisto di Antiochia,
di Jerusalem, di Laodicea e di Tortosa; e loro soli acquistarono le
terre di Solino e di Gibello, ed accrebbero all'imperio di Jerusalem le
terre di Cesarea e di Assur. A questa così valorosa gente, Baldovino
re invittissimo ha dato in perpetua possessione in la città santa di
Jerusalem una contrada, e in la città di Joppe un'altra; ed oltre ciò
la terza parte di Cesarea, di Assur e di Accon.»
Ho accennato poc'anzi a qualche feudo. Infatti, i due figli
dell'Embriaco ebbero l'investitura di Gibello, l'antica Biblo, da essi
conquistata. Arrigo da Carmandino ebbe Larissa, e il suo territorio,
eretti in contea, e concessi in dote a Diana. Così Baldovino riconobbe,
anche in una donna, gli obblighi di gratitudine che aveva verso
Guglielmo Embriaco.
Mi domanderete di Anselmo. Il degno personaggio che avete conosciuto
fin dal principio di questo racconto, cambiò una terza volta di
professione. Era stato balestriere e poi guardiano di casa; in processo
di tempo scudiero dell'Embriaco; da ultimo passò ai servigi di Arrigo,
o, se vi piace meglio, di madonna Diana da Carmandino.
Perchè bisogna dir proprio Diana da Carmandino. Caffaro di
Caschifellone si era acconciato anche lui a chiamarla così. Per altro,
non aveva accettato l'invito fattogli da Arrigo, di andare a riposarsi
per qualche settimana, nella contea di Larissa, dalle fatiche di quella
guerra triennale.
— Grazie, amico; — aveva egli detto ad Arrigo; — io torno a Genova.
I felici non debbono essere frastornati dalla gente profana. Fate di
bastarvi sempre l'un l'altro. Fra due creature che s'amano non c'è
luogo per altri, fuorchè per un angioletto dai capegli d'oro e dalle
labbra di rosa. —
A tutti i benevoli, che hanno seguito il narratore fin qui, piacerà di
saperne più a lungo, intorno alle vicende di Caffaro. Intendo questa
curiosità e vedrò di soddisfarla, raccontando la storia del nostro
simpatico personaggio un'altra volta; e sarà più presto che essi non
pensino.
Di madonna Diana non vi dirò altro se non questo, che fu una delle più
savie e reputate castellane di quel tempo. Non la cantarono trovatori;
non andarono Goffredi Budelli a morirle davanti, come alla contessa di
Tripoli, sua bella e famosa vicina. Ma tutto ciò si capisce. Beatamente
chiusa nel suo amore per Arrigo, visse con lui in un settimo cielo, a
cui non giungevano desiderii, nè tentazioni profane. Egli combattendo
i nemici del reame, ella beneficando i vassalli, si composero un
nido felice, in cui durarono lungamente fidi, costanti, librati in
solitudine eccelsa, come una coppia di Numi, ma liberali altrui di
quella pietà che solo può dare chi non ha mestieri d'implorarne per sè.
Invidiabile Arrigo!

FINE.

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