Diana degli Embriaci: Storia del XII secolo - 02

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tenne a lungo i grandi occhi fissi su di voi, in atto di compiacenza e
di meraviglia.
— Arrigo da Carmandino, — disse, dopo brevi istanti, il padre della
fanciulla, — voi siete un nobil garzone e degno d'esser amato da quanti
vi conoscono. Non avete voi ancor presa la croce?
— No, messere; — rispose turbato il giovine. — Il desiderio me ne aveva
colto fin dal primo giorno che il venerando vescovo di Grenoble arringò
il popolo dalla gradinata di San Siro. Ho tardato, per timore non già,
sibbene....
— V'intendo, messere; — ripigliò con amichevole festività l'Embriaco;
— aspettavate la fascia di zendado trapunta dalla donna dei vostri
pensieri.
— Non vi apponete che a mezzo; — rispose Arrigo, facendosi rosso
per la terza volta. — La donna che io amo, dopo Dio e la mia fede
di cavaliere, è cosa troppo alta per me, e forse io non potrò sperar
mai di portarne i colori. Soltanto avrei desiderato che ella sapesse
del mio disegno, per leggere nei suoi occhi un saluto. Ma lasciatemi
andare; — soggiunse il giovane, dopo aver dato una timida occhiata a
Diana; — io non potrei rimanere più oltre al fianco vostro, senza la
croce vermiglia sul petto. —
E dette queste parole, Arrigo si mosse con giovanile baldanza verso la
chiesa. Il popolo fece largo al cavaliere, sapendo che non si correva
tanto in fretta verso il buon vescovo di Grenoble, se non per avere il
segno della crociata. E infatti, pochi istanti dopo, il giovine Arrigo
era ai piedi di Ugo, diceva il suo nome e tornava benedetto, coi due
scampoli di scarlatto incrociati, verso il luogo dove aveva lasciato
Guglielmo Embriaco e la sua celeste figliuola. Tutti gli astanti,
che conoscevano il terzogenito di Ingo e di Rainoisa (una tra le più
belle gentildonne di Genova, alla quale egli somigliava moltissimo) lo
salutarono con lunghi evviva; ma il suo trionfo egli lo gustò tutto
intiero negli occhi raggianti della bellissima fanciulla e nel bacio
del padre di lei.
— Siate il ben venuto, — gli disse questi, — tra i cavalieri di Cristo.
Ora è tempo di tornarcene alle case nostre. Arrigo, venite un tratto
con noi?
Il giovane innamorato non se lo fece dire due volte. E la sua gioia
fu al colmo, allorquando l'Embriaco, postagli una mano sulla spalla,
mentre le donne andavano innanzi per la via di Macagnana, donde si
giungeva alle case di messer Guglielmo, gli susurrò all'orecchio queste
parole:
— Arrigo di Carmandino, io so tutto, ho tutto veduto. Volete voi essere
mio figlio, come Ugo e Nicolao? —


CAPITOLO III.
Breve anzi che no pei lettori, ma sugoso per Arrigo da Carmandino.

Come la brigata fu giunta alle case degli Embriaci, il giovine Arrigo
tolse commiato, non senza promettere a messer Guglielmo che sarebbe
andato a visitarlo. Il lettore intenderà che Arrigo dicesse al padre,
ma che il discorso, nella sostanza, andasse alla bella figliuola. Ed io
glielo lascierò credere, sebbene avrei buono in mano per dimostrare che
l'ossequio ad un uomo come l'Embriaco c'entrava per la sua parte.
Arrigo, dunque, tornò una e più volte in quella casa; e, bisogna
dirlo a sua lode, ogni qualvolta ei metteva il piede sul limitare, il
cuore gli batteva forte, come gli era battuto alla prima. Soltanto
gli uomini della nostra generazione stracca possono affogare la
delicatezza dell'affetto nelle acque morte della consuetudine; laonde
a me, figliuolo del mio secolo, non fa gran senso vedere un amico mio
passeggiare con aria uggiosa accanto alla moglie, non ricordando più
i giorni ch'egli era tutto fuoco e fiamma per lei, ed affrettava col
desiderio l'ora in cui gli fosse dato vederla, fanciulla ancora, in
quella conversazione, dove si era introdotto con tanta fatica.
Ogni giorno, al cadere del sole, il nostro giovane era al fianco di
messer Guglielmo, il quale si ristorava, conversando con Diana ed
Arrigo, dalle quotidiane fatiche per l'allestimento del suo naviglio.
L'ospite toccava di sovente il liuto, alla maniera dei trovatori,
cantando qualche cobla o serventese nella lingua di Provenza; e Diana,
che avea risaputo il discorso fatto da suo padre ad Arrigo, si sentiva
la più felice tra le donne.
La sua allegrezza era, a dir vero, turbata dal pensiero della
partenza di Arrigo. Ogni giorno ella udiva dalla bocca del padre come
andassero solleciti gli apprestamenti navali, e non era quella per
fermo una consolazione per lei. Ma non s'ha a credere, per altro,
che la fanciulla degli Embriaci fosse una delle nostre Malvine, che
dànno negli spasimi per ogni cosa, e si strappano i capegli dalla
disperazione. Diana avrebbe commesso un peccato mortale a strappare
i suoi, che erano bellissimi, e, nata di padre guerriero e marinaio,
in tempi d'avventure e di zuffe continue, si sarebbe mostrata indegna
del proprio sangue, se troppo si fosse doluta che il suo fidanzato
partisse, per andare in Soria, a romper lancie contro le schiere
infedeli.
La bella Diana, scambio di pregare, lavorava assiduamente a metter
punti d'oro su d'una fascia di seta. Nessuno le aveva chiesto per qual
santo ella usasse tanta diligenza, ma lo indovinavano tutti. In casa
di messer Guglielmo non si era anche annunziato solennemente; ma tutti
sapevano, congiunti, amici e famigliari, che non si poteva dare nè
immaginare una coppia meglio combinata di quella.
Un uomo solo se ne rodeva, un uomo solo guardava di mal occhio il
trapunto di madonna Diana. Gandolfo del Moro era amico di Nicolao,
il primogenito di Guglielmo Embriaco, e Nicolao gli aveva promesso
di aiutarlo presso il padre suo ad ottenere la mano della sorella.
Perciò quell'altro si tenne sicuro del fatto suo; e quando tra
giovani cavalieri si lodavano le grazie della bella Diana, invidiando
anticipatamente il fortunato mortale che l'avrebbe condotta in moglie,
messer Gandolfo tronfiava, faceva la ruota, come a dire: «invidiatemi
pure, io sono quel desso.» Ma durò poco la sua gloria, ed egli si trovò
scavalcato, mentre si credea fermo più che mai sull'arcione. Arrigo
da Carmandino s'era fatto avanti, e gli era bastato presentarsi, per
vincere. Gandolfo del Moro non volle già persuadersi che il cuore di
Diana fosse libero di darsi a cui più gli piacesse, e tutta la sua
rabbia si volse contro di Arrigo, come se Arrigo gli avesse rubato una
cosa che apparteneva a lui, a lui, Gandolfo del Moro.
Il nostro geloso aveva pensato da prima di romperla apertamente con
Arrigo e disfarsene con un buon colpo di spada. Ma il Carmandino era
un osso duro da rodere, e Gandolfo era certo di averne la peggio.
Allora gli venne fatto un nuovo disegno, che gli parve il migliore,
tanto che volle mandarlo subito ad effetto, appostando due ribaldi in
una viottola presso la torre dei Della Volta (che ancora non avevano
assunto il nome di Cattanei), da dove il Carmandino, tornando da casa
gli Embriaci, soleva passare ogni sera. Senonchè, la mattina dopo
l'agguato, si trovò un morto sulla strada, e il superstite non ardì
ritentare la prova.
Arrigo aveva indovinato donde gli venisse il colpo, ma non fece motto
ad alcuno di quel suo rischio notturno, contentandosi da quella sera
in poi di girar largo ai canti per esser pronto ad ogni evento e non
lasciarsi cogliere alla sprovveduta. In quanto a messer Gandolfo, si
può argomentar di leggieri che non andasse attorno a menar vanto della
disfatta.
Intanto, l'armata genovese era in assetto per prendere il mare. La
partenza fu assegnata pei primi di luglio del 1097, sotto il comando di
Guglielmo Embriaco. Erano dodici galere armate di tutto punto, piene di
cavalieri e di arcadori, scelti tra i riputati di Liguria, e le seguiva
un sandalo, nave oneraria di quei tempi. Padroni di quelle galere
erano i cittadini che ho nominati più sopra, uomini prodi e navigatori
esercitati nella caccia continua ai pirati, che infestavano allora il
Tirreno.
Questo, come ho detto, avveniva nel 1097. Capi dei Crociati erano
(lo accennerò brevemente per chi non ne avesse ricordo) Goffredo di
Buglione, duca di Lorena, Baldovino ed Eustachio, fratelli di lui, Ugo
fratello del re di Francia, due Roberti, l'uno figlio al re inglese
e duca di Normandia, l'altro conte di Fiandra, Raimondo conte di
Tolosa e Stefano conte di Bles, tutti seguiti da un numero stragrande
di Tedeschi, Francesi, Inglesi, Scozzesi, Italiani. Non andarono
Spagnuoli, perchè, travagliati da guerra continua coi Mori, si potea
dire che avessero la Crociata in casa. Ugo, passato in Italia, aveva
rappattumati i due fratelli normanni, Boemondo di Taranto e Ruggero di
Puglia, in discordia tra loro pel principato di Melfi. Con essi e con
Tancredi, nipote a Ruggero, partivano ventimila uomini; anch'essi gente
italiana.
Giunti per vie diverse a Costantinopoli, passato il Bosforo e calati
in Bitinia, i Crociati espugnavano in cinquantadue giorni la città
di Nicea; donde spartivano l'esercito in due corpi, l'uno destinato a
correre la Licia e la Panfilia, l'altro a penetrare in Cilicia, dove
occupava Tarso, Malmistro, seguitando poi alla volta d'Antiochia,
capitale della Siria, a dodici miglia dal mare, dove era il porto detto
allora di San Simeone. Colà approdavano i Genovesi, mentre l'esercito
si travagliava nel difficile assedio. Ma di questo a suo luogo;
rifacciamoci ora al porto di Genova, dove sta l'armata, sul punto di
salpare le ancore.
La sera innanzi la partenza, Arrigo fu, come di consueto, alla casa di
messer Guglielmo. L'Embriaco stava a consiglio coi notabili della città
presso il vescovo di Ciriaco, e non v'ebbe che Diana a ricevere Arrigo.
— Madonna, — le disse il giovane, — domani si parte.
— Lo so; — rispose Diana, chinando i suoi begli occhi a terra, per
nascondere due lagrime. — Addio dunque, messere! Il cielo v'abbia
in custodia, e laggiù, tra le donne di Sion, che hanno fama di tanta
bellezza, non vi faccia dimenticare di me.
— Oh, non temete! — esclamò egli con accento solenne. — Voi dovete
credere, madonna, che Arrigo da Carmandino vi terrà la sua fede, come
credete in Dio e nella lealtà del vostro genitore. Io vi amo, Diana,
come la più santa cosa che al mondo sia, e un amore cosiffatto non può
affievolirsi per volger di tempo nel mio cuore, dove esso rimarrà come
sacro suggello ad ogni cosa che io pensi o faccia in futuro. Io, per
contro, — soggiunse egli umilmente, — so quanto poco valgo al paragone
delle grazie vostre, e temo.... temo che gli occhi di Diana degli
Embriaci non abbiano a cadere su altri, migliori a gran pezza di me.
— Perdonatemi, Arrigo! — ripigliò la fanciulla, dicendo assai più cogli
occhi supplichevoli che non facesse colle parole. — La donna che vi
ama voleva celarvi le sue lagrime e nella confusione non ha trovato
miglior cosa a dirvi che una scortesia. Ma non so parlare, io, come si
dovrebbe parlare ad un uomo come voi; tutto il meglio dei miei pensieri
mi resta qui, dentro il cuore. Ora sappiate che qui dentro c'è pure, e
ben custodita, l'alterezza del sangue d'Ido Visconte, donde scendiamo
ambedue, e la figlia di Guglielmo non può amare che un prode. O come
vorreste, messere, che mentre mio padre, mio zio Primo di Castello,
i miei fratelli, e con essi il fiore dei cavalieri di Genova, fossero
in Terra Santa a sostenere il buon nome della nostra città (la frase
è vostra, messer Arrigo), io potessi volger gli occhi intorno.... o al
basso, — aggiunse ella prontamente, — per guardare i rimasti? —
Diana aveva profferito queste ultime parole con molta veemenza. Era
forse quella la prima volta che sotto i sembianti della fanciulla
trasparisse la donna. Del resto il momento era solenne, e amore è gran
maestro d'eloquenza per tutti. Anche Arrigo fu eloquente a rispondere.
— Di ciò non dubitavo io punto; e voi, madonna, non dubitate di Arrigo.
Son vissuto finora senza amare altra donna fuor quella da cui nacqui;
vivrò il restante della mia vita non amando che voi. —
Non ripeterò ai lettori tutto ciò che, seguendo un bandolo così bene
avviato, andavano dipanando i due giovani in quell'amoroso colloquio.
Chi non è stato innamorato? E chi dunque non sa che cosa potessero
dirsi quei due nobili cuori, in un momento solenne, che era il primo e
poteva anche esser l'ultimo delle loro espansioni?
Diana trasse fuor da uno stipo la fascia di seta, trapunta di sua mano,
la baciò e la porse ad Arrigo; il quale la prese divotamente, come vi
sarà facile argomentare, baciandola a sua volta.
Il giorno seguente, sul far dell'aurora, le galere salparono le ancore,
sciolsero i provesi e si misero alla via. Tutta Genova era sulla
spiaggia a salutare i suoi cari.
Il mare era cheto e scintillava tremolando ai primi raggi del sole,
apparso allora allora di là dall'azzurro promontorio di Portofino.
Una brezza leggiera spirava da ponente, come impromessa di fortunato
viaggio alle galere della croce.
Diana accompagnò fino al lido il padre, lo zio Primo di Castello e il
fratello Ugo e Nicolao. Gandolfo del Moro partiva anch'egli per Terra
Santa, e stava al fianco dell'amico. Ma Diana nol vide, o nol curò; ben
vide Arrigo, che stava al fianco di suo padre.
La fanciulla si sentìa venir meno; pure, si fece animo, fino a tanto
i suoi le furono vicini. L'addio di Guglielmo Embriaco fu quello
d'un padre e d'un eroe; il che vuol dire che egli non ebbe vergogna
di bagnare con una lagrima amorosa il candido fronte della sua bella
figliuola.
— Le vostre preghiere, madonna, ci portino ventura. —
Furono queste le ultime parole di Arrigo; a cui Diana rispose con
un gesto eloquente, alzando gli occhi al cielo, quasi lo chiamasse a
testimonio del voto.
Ella stette colà, ritta, immobile, senza lagrime, sulla punta del molo,
fino a tanto le galere non si dileguarono sull'orizzonte. La povera
derelitta aveva la morte nel cuore.
Quando fu giunta alle sue case, nella sua fida cameretta, le forze
l'abbandonarono, e pianse, pianse lungamente, colla faccia ascosa
sul guanciale del suo letticciuolo. Indi, alzati gli occhi ad una
immagine di Maria, che pendeva dalla parete, e che la volgare credenza
attribuiva al pennello di San Luca, si fece a pregarla in tal guisa:
— Madre santa, essi vanno a riscattare il sepolcro del vostro divino
figliuolo. Ma qui rimane una donna, una povera donna, senza padre,
senza fratelli, senza.... Oh Maria, madre d'amore, fate voi che
ritornino! —


CAPITOLO IV.
Delle prodezze di Arrigo e dei sottili accorgimenti di messere
Guglielmo Embriaco.

I crociati genovesi mi pigliano per sopraccarico, ed io me ne vado con
essi in Sorìa; non già per farmi cronista delle loro intraprese, chè i
consoli non me ne hanno commesso l'ufficio, sibbene per poter scrivere
qualche pagina di storia ai lettori, in quella parte che si ragguarda
alla mia narrazione.
Le galere, partite da Genova sui primi di luglio, giunsero in ottobre
al porto di San Simeone, presso Antiochia, dove allora, espugnata
Nicea, stavano ad oste i cristiani. Già da quattro mesi l'esercito
stringeva d'assedio quella città, ma senza alcun pro, imperocchè si
difettava di artiglierie. Allora, siccome è noto, portavano questo nome
tutte le macchine da trarre e ingegni di guerra, come a dire le torri
di legno, le briccole, gli arieti, le testuggini, i gatti ed altri
arnesi consimili.
Laonde, non è a dire come tornasse grato a messer Goffredo Buglione
e a tutti gli altri baroni della crociata l'arrivo dei genovesi, che
si sapeva essere in cosiffatte materie espertissimi. Tosto fu mandato
incontro ad essi buon numero di cavalieri, per salutare i nuovi
compagni e affrettare la loro venuta al campo latino.
Messer Guglielmo, a cui già si può dire che le mani formicolassero,
accolse lietamente i messaggieri dell'esercito e lasciato il fratel
suo, Primo di Castello, col figlio Nicolao, al comando dell'armata,
mosse alla volta del campo con grossa schiera dei suoi e con un
drappello di maestri da operare in ogni specie di legnami e congegni
ferrati.
Quell'aiuto portò i suoi frutti; i quali tuttavia, per la fortezza del
luogo, che era difeso da doppia cerchia di mura, e per la validissima
resistenza degli assediati, non giunsero a maturità che nell'ultimo
giorno di maggio del seguente anno 1098. Appunto in questo lungo
frattempo, i genovesi ebbero a patir grandemente delle loro navi. Ed
ecco in qual modo.
La campagna, tutto intorno ad Antiochia e all'oste dei cristiani, era
mal sicura, per le continue scorrerie degl'infedeli, ed anco (rincresce
il dirlo) di molti fedeli, datisi al lucroso mestiere di ladroni, che
forse aveano già esercitato ne' loro paesi. Non tutti avean preso la
croce per amore di Cristo; c'erano baroni, che agognavano impadronirsi
di qualche città in Sorìa, la quale li confortasse della povertà di
loro castellanie in Occidente, e c'erano avventurieri, che dopo avere
ribaldeggiato per tutta l'Europa, venivano a cercare miglior fortuna in
Terra Santa.
Così stando le cose e non potendosi distogliere dall'esercito una parte
di soldatesche, le comunicazioni degli assediati col mare poteano dirsi
interrotte, salvo nei casi eccezionali dello approvvigionamento, per
cui si spiccavano grossi drappelli fino al porto di San Simeone. E
quivi un bel giorno corse la voce, che lo esercito dei cristiani fosse
stato disfatto, parte uccisi, o prigioni, e tutti gli altri sbandati
per la campagna, senza speranza di poter guadagnare la spiaggia. La
nuova era stata recata da due capitani d'oltremonte, i quali, una notte
in cui gli assediati erano usciti dalla città e piombato in mezzo ai
cristiani, sopraffatti dalla paura, avean preso la fuga e giù a spron
battuto erano giunti fino al mare.
Il fratello e il figlio dell'Embriaco non sapeano che farsi, se lasciar
le navi per andare in traccia dei superstiti e morire con essi, o
salvare almeno l'armata, mettendosi al largo. Mentre così stavano
incerti, non dando retta a Gandolfo del Moro, il quale parteggiava
caldamente per un ritorno sollecito, ecco giungere alla spiaggia, dalle
parti d'Ascalona, numerose schiere di Saracini, i quali accennavano di
muovere alla volta d'Antiochia. Lo sbarco era fatto impossibile ormai;
la perdita dei compagni più che sicura. Prevalse allora il consiglio
di Gandolfo, e le galere genovesi usciron dal porto, per ritornarsene
mestamente in Liguria.
Per colmo di sventura, sui primi giorni di navigazione, l'armata fu
colta da una fiera burrasca, così che fu mestieri pigliar terra a
Mirrea, nell'Asia Minore, sottoposta allora al dominio dell'imperatore
Alessio, quel tale che amava i Crociati come il fumo negli occhi
e s'augurava di vederli cader tutti quanti sotto le scimitarre dei
seguaci di Macone.
A guardare le cose dal lato suo, il Bizantino non aveva poi tutti i
torti del mondo. Tra quei fieri baroni d'Occidente, che andavano al
conquisto di Gerusalemme, ce n'erano parecchi, e dei più riputati, pei
quali il sepolcro di Cristo era un pretesto e nient'altro. A costoro
era entrato in mente che, facendo il loro tornaconto, facevano ad un
tempo quel della fede. Però, giunti appena a Costantinopoli, facilmente
si scordavano di Gerusalemme, pensando che la conquista dell'impero
di Oriente sarebbe stata la cosa più agevole e più utile del mondo.
E già aveano proposto il colpo a Goffredo di Buglione; ma quell'anima
onesta non volle sentirne altro, e costrinse anzi tutti quei principi e
baroni a rendere omaggio all'imperatore Alessio per tutte le terre che
avrebbero conquistate.
Narra per l'appunto un cronista, che, mentre giuravano, uno di essi,
conte di vecchia nobiltà, fu così ardito da andare a sedersi sul trono
imperiale, e il povero Alessio non gli disse verbo, ben conoscendo
l'oltracotanza dei Franchi. Il conte Baldovino, fratel di Goffredo,
fece star su l'insolente, dicendogli che non era costume di sedersi in
tal guisa a fianco degl'imperatori. L'altro obbedì, ma non si ristette
dal guardare in cagnesco il monarca, dicendo nella sua lingua: «_Voyez
ce rustre, qui est assis, lorsque tant de braves capitaines sont
debout!_» L'imperatore si fe' voltare in greco quelle parole. Egli
dice, spiegò l'interprete: vedete quel villano che sta seduto, mentre
tanti prodi capitani son ritti in piè! Allora Alessio fece chiamare
costui e gli chiese il suo nome. — «Son Francese, rispose questi, e
dei più nobili. Nella mia terra egli c'è, sull'incontro di tre vie,
una chiesa antica, dove ognuno che abbia voglia di combattere entra a
pregare il Signore Iddio ed aspetta il suo avversario. Io ho avuto un
bello aspettare; nessuno ha ardito venirci.»
Alessio Comneno non volle udire di più, e non si tenne sicuro fino a
tanto non ebbe mandato in Asia l'ultimo di quei capitani Fracassa. Io
torno al racconto.
A Mirrea non c'era presidio di Greci e le galere c'entrarono come in
casa loro. Così mi sembra che s'abbia a dire, poichè non dissimilmente
pensarono i nuovi arrivati che andasse la bisogna, non si peritando
di portar via dalla chiesa di San Nicolao le venerate reliquie di San
Giovanni Battista, colà custodite da quei bravi calogèri.
Taluno dei moderni miscredenti penserà che quei monaci spacciassero
una frottola ai Genovesi; e battezzassero quelle ceneri col nome di
Precursore, a bella posta per farsele prendere e liberarsi da quegli
ospiti un tal poco prepotenti che dovevano essere i nostri antenati.
Ma per siffatta gente ci sono i documenti che parlano. Nell'Archivio di
Genova si conservano le lettere di Alessandro III e di Innocenzo IV, le
quali rendono testimonianza certissima che quelle non fossero ceneri da
bucato, ma le vere ed autentiche reliquie del Battista. Carta canta e
villan dorme; così dice il proverbio.
L'armata giunse a Genova; ma la sua lunga dimora nel porto di Mirrea
aveva fatto sì che la infausta notizia di cui era portatrice alla
patria, fosse preceduta da più recenti e lieti messaggi del campo
cristiano: come la paura di alcuni fuggiaschi avesse fatto correre
la voce d'una sconfitta e come l'avesse poi malamente conformata la
presenza di alcuni drappelli saracini innanzi al porto di San Simeone.
L'arrivo delle galere non recò dunque nessun lutto in città, e quando
per contro si riseppe che portavano le sante reliquie del Precursore,
fu una gran festa da per tutto, e v'ebbe chi ringraziò la Provvidenza
dell'errore, aggiungendo esser vero verissimo che tutto il male non
vien per nuocere. E poco mancò che il vescovo Ciriaco non gridasse
il Nicolao, collo zio Primo e con Gandolfo del Moro, salvatori della
patria.
Il buon vecchio ebbe cionondimeno tanta gioia, che morì poco dopo,
e gli successe Airaldo Guaraco, o Guarco, il quale resse la chiesa
diciassette anni, _et fue uomo di grande dottrina per li suoi tempi._
Quando le galere fecero ritorno in Soria, Antiochia era espugnata da
mesi parecchi, e i Crociati erano già passati per la famosa valle di
Giosafat, gridando: «Jerusalem!» alla vista della santa città.
Messer Guglielmo Embriaco, appena i messaggeri vennero a dirgli che due
galere dell'armata genovese, la quale stava dalle parti d'Antiochia,
erano giunte a Joppe ad aspettare i suoi comandi, lasciò Arrigo da
Carmandino a capo delle schiere genovesi in sua vece, e corse al mare,
seguito dal figlio Ugo e da una compagnia di balestrieri.
Il Carmandino, del quale ho taciuto finora per la necessità di tirare
innanzi il racconto, s'aveva guadagnato molta rinomanza in mezzo
ai Crociati d'ogni nazione, per le prodezze sue non meno che per la
saviezza dei consigli. Durando l'assedio d'Antiochia, uno dei capi
saracini, cavalier generoso e insofferente di indugi, era uscito dalla
città sfidando a singolare combattimento quello dei cavalieri cristiani
che si fosse sentito da tanto. La novità della cosa, più che la fama
del guerriero, la quale era del resto grandissima, avean fatto rimanere
un tratto incerti i baroni crociati, e di quell'istante fece suo pro'
il Carmandino per andar contro all'araldo e raccogliere primo il guanto
di Bahr-Ibn, chè così avea nome il Saracino.
La giostra si tenne il giorno di poi, su d'una spianata in riva
all'Oronte, presenti i capi dell'esercito latino da una banda, e quei
degl'infedeli dall'altra. Guglielmo Embriaco avea di sua mano indossata
la maglia d'acciaio al diletto giovane e serratagli la gorgiera
dell'elmetto sul collo.
L'assalto fu violento da ambe le parti; ma Arrigo da Carmandino
stette fermo in arcioni. La sua lancia si era spezzata contro l'elmo
dell'avversario, che ne ebbe come uno stordimento al capo, e fu appena
a tempo di trarre la spada, quando Arrigo tornò a briglia sciolta sopra
di lui. Il cozzo dei ferri durò lunga pezza, chè bene combattevano
ambedue; finalmente il Saracino toccò un colpo sì fiero, che gli ruppe
l'elmetto e aperse ancora una lunga ferita sul fronte. In quanto ad
Arrigo, egli aveva l'armatura rotta in due o tre punti e spargeva
anch'egli il suo sangue per due ferite, fortunatamente non gravi.
Il cavalier saracino si diede per vinto. La sorte delle armi lo avea
fatto prigioniero del Cristiano; ma il Carmandino non volle saperne
di riscatto, e come Bahr-Ibn fu risanato, egli lo rimandò libero in
Antiochia, non chiedendo altro da lui se non che si astenesse dal
combattere contro i Cristiani fino all'espugnazione della città, o
altrimenti alla levata dell'assedio. Là qual cosa essendo giusta,
secondo le costumanze guerresche d'allora, fu giurata dal Saracino,
che si partì dal campo, commosso per tanta gentilezza d'animo, e quasi
contento d'essere stato vinto alla prova dell'armi da un cavaliere
siffatto.
Torniamo ora a Guglielmo Embriaco, che abbiamo lasciato sulla strada di
Joppe. Giunto colà, ebbe a mala pena il tempo di salire a bordo della
galera padrona, e di chiedere novelle ai suoi della amata figliuola,
che i marinai in vedetta sui calcesi annunziarono la presenza di molte
vele dalla parte del mezzogiorno.
L'Embriaco salì tosto sul castello di poppa per osservarle, e conobbe
esser quelle di parte nemica. Le navi dei latini erano infatti a
tramontana, nel porto di San Simeone, e quest'altre venivano da
Ascalona, dove sapevasi raccolta l'armata del soldano d'Egitto. Messer
Guglielmo, colla prontezza d'occhio del marinaio, non istette molto ad
intendere com'egli s'avesse davanti tutte le forze navali del Soldano,
e, prima di scendere dal castello di poppa, aveva già formato il suo
disegno nell'animo.
Passarono tre quarti d'ora, in cui le navi degli egiziani non fecero
che avvicinarsi a furia di remi, dacchè il vento spirava poco propizio
alla loro venuta. I marinai genovesi stavano affacciati alle scale
di fuori banda e lunghesso le impavesate, guardando con ansietà quei
legni, il cui numero si accresceva man mano che si facean più vicini, e
non levavano gli occhi da quella parte se non per guatare all'Embriaco,
che stavasi ritto, colle braccia incrociate sul petto e le ciglia
aggrottate.
Lo stato delle due galere non era per fermo il migliore del mondo.
Erano esse ben armate e difese da uomini gagliardi, sotto il comando di
un prode capitano; ma che cosa avrebbe potuto il valore contro quelle
trenta navi saracene, le quali non aveano che a presentarsi in lizza
per vincere?
Questi ed altri somiglianti erano i pensieri della marinaresca; ma
egli bisognerà dire a sua gloria, che nessuno pensava alla resa. Già
tutti si disponevano a combattere disperatamente e a farsi ammazzare
sull'arrembata.
Messer Guglielmo non aveva ancora aperto bocca. Quando le navi nemiche
non furono più che a tre tiri di balestra, egli fe' voltare la prora a
tramontana e comandò la voga arrancata, accennando ai Saracini di voler
prender il largo e fuggire.
Le galere, cedendo all'impulso dei remi, pigliarono l'abbrivo in alto
mare. Allora il capitano dei Saracini si tenne sicuro di vincere,
e comandò che le sue navi s'avanzassero in modo da formare un largo
cerchio sul mare, dentro cui sarebbero côlti i fuggiaschi, come fiere
in caccia.
Dal canto loro, gli uomini delle due galere non avevano capito nulla
di quella mossa dell'Embriaco, la quale pareva ad essi il colmo della
temerità. Gandolfo del Moro fu il primo a dirne il suo giudizio ad alta
voce, affermando che di tal guisa e' sarebbero caduti prigioni in meno
di un'ora.
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