Diana degli Embriaci: Storia del XII secolo - 05

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L'Embriaco già pensava a tutt'altro. La torre non era alta ed egli
poteva sperare di giungere in pochi istanti alla sommità, donde avrebbe
potuto vedere più largo spazio di mura. Incontanente vi entrò, salì in
furia i due piani che mettevano alla piattaforma, e assicuratosi che
nessuno dei difensori aveva ancora potuto seguirlo lassù, si fece al
ballatoio, per guardare dalla parte del fosso, come volgessero le sorti
della battaglia.
Poco lunge di là si combatteva aspramente. Un manipolo di cavalieri
aveva afferrato il ciglio delle mura e vi si teneva saldo, quantunque
i Saracini facessero ogni sforzo per ricacciarlo indietro. Messer
Guglielmo intese allora perchè lo avessero lasciato libero lui,
occupati com'erano a respingere i nuovi e più numerosi assalitori.
— Su, Genova, su! in nome di san Giorgio! — gridò egli allora, levando
la spada e facendola balenare davanti agli occhi de' suoi, che avevano
appoggiate le altre scale alla muraglia. — La città è nostra!
— Guglielmo Testa di maglio! Testa di maglio è padrone delle mura! —
gridarono mille voci dal basso. — Animo, alla scalata! —
E infiammati così dalle loro stesse parole come dalla vista del capo,
fecero impeto su per una ventina di scale ad un tempo. Tutte quelle
file d'uomini, erette e minacciose come i serpenti di Tenedo sulla
spiaggia di Troia, strisciarono lungo le mura, le involsero sotto
un tessuto di lucide scaglie, che erano le loro targhe scintillanti
al sole, ed afferrata la cima, si riversarono dentro, quasi senza
combattere. Fu male che la città avesse una doppia cinta di mura,
perchè pochi ardirono di resistere laggiù, parendo a tutti più facile
di custodire utilmente un cerchio più stretto. Così ragionava la
prudenza negli uni, la paura negli altri.
Con quello sforzo simultaneo da molte parti, i Genovesi penetrarono in
Cesarea, ma senza giungere in tempo per entrare nella seconda cinta,
alle spalle dei difensori. Le vie strette e tortuose avevano impedito
ai valorosi di raccapezzarsi alla lesta e di inseguire in numero
sufficiente il nemico. Bene tentarono l'impresa i primi arrivati, ma
senza pro, e la scortese saracinesca si chiuse con grande frastuono
davanti agli audaci, mentre solo alcuni di loro, che si potrebbero
chiamare i temerarii, erano riusciti ad entrare, proprio alle calcagna
dei fuggenti.
Caffaro rimase nel numero degli audaci, fuor della cinta, ai piedi
della saracinesca, che era stata calata in quel punto. La fortuna lo
aveva assistito; eppure egli si dolse amaramente di non esser giunto
prima, perchè tra gli animosi che lo precedevano, e che avevano pagata
così caramente la gloria d'essere andati avanti a tutti gli altri,
c'era l'amico suo, il suo compagno di scalata, Arrigo da Carmandino.
Povero Arrigo! Certo egli presentiva una disgrazia, quel giorno; poichè
nel salir sulle mura, mentre erano a poca distanza dalla merlata,
rivolgendosi a Caffaro, che gli si stringeva al fianco, mettendo il
piede sui piuolo abbandonato da lui, gli aveva detto:
Amico, ve ne prego, se io muoio, dite a madonna Diana che ho pensato a
lei nell'ultim'ora, e che l'anima mia, con licenza di nostro Signore,
a cui mi raccomando, andrà a dirle tutto l'amore ch'io le ho portato
vivendo. —
E Caffaro gli aveva risposto:
— Amico mio, che pensieri son questi? Per l'onor vostro e di Genova,
come pel trionfo della croce, vivrete.
— E sia; accetto l'augurio; ma voi dovete promettermi...
— Tutto quel che vi piace io prometto; — interruppe Caffaro.
— Grazie; — ripigliò il Carmandino, respirando. — Ed ora, torniamo
uomini! —
Il resto è noto. Pochi momenti dopo erano giunti sulle mura e avevano
fatto prodigi di valore. L'Embriaco, calato dalla torre, donde aveva
chiamato la sua gente all'assalto, si fece sollecito a collegarli, a
mano a mano che balzavano dentro, per piantarsi saldamente sul baluardo
conquistato. Frattanto Arrigo da Carmandino, trascorrendo animoso ad
inseguire i fuggenti, era stato côlto, come ho detto, entro la seconda
cinta di mura.
Quando lo seppe Gandolfo del Moro, sempre fido seguace di messer
Nicolao e suo consigliere malaugurato, il cuore gli diede un balzo per
allegrezza.
— Ah, fosse morto! — pensò. — Di solito, questi cani infedeli non
perdonano la vita ai prigioni. Madonna Diana, o ch'io m'inganno a
partito, o questa le vendica tutte, e messere Arrigo il bello avrà
finito di vogarmi sul remo. —
Guglielmo Embriaco udì dalle labbra del giovine Caffaro la mala sorte
del suo prode aiutante, ma non ebbe tempo a rammaricarsene. Già, io
porto opinione che gli uomini d'allora piangessero poco, e lo argomento
da ciò, che molte altre cose non facevano essi, per le quali noi siamo
venuti a mano a mano in così fastidiosa eccellenza; verbigrazia il
parlare. Per contro, operavano molto; laonde, se la retorica ci ha
perso, la storia ci ha guadagnato un tanto. Ne siano ringraziati gli
Dei.
Desideroso più che mai di operare, l'Embriaco andava girando con
occhio scrutatore intorno alla seconda cinta di mura, donde gli
apparivano i nemici preparati ad una resistenza feroce. Già un primo
tentativo di scalata era stato respinto, tra perchè gli assalitori
erano in pochi e perchè messer Guglielmo non c'era, ad incuorarli colla
voce, ad infiammarli coll'esempio. Anche i Saracini respiravano più
liberamente, quando non avevano davanti agli occhi quel capitano dalla
fulva capigliatura e dallo sguardo leonino, che essi ravvisavano così
facilmente, anche da lunge, alle membra poderose e al corto mantello
bianco, segnato dalla croce vermiglia che gli svolazzava a guisa di
clamide romana sulla corazza di ferro.
Così correndo intorno alle mura, il valoroso Testa di maglio aveva
veduto il fatto suo, e imbattutosi in Ugo suo figlio, mentre Caffaro
gli veniva raccontando il triste caso di Arrigo da Carmandino, mostrò
di non avere inutilmente speso il suo tempo.
— Non temete! — diss'egli, conchiudendo il suo dialogo col giovine
Caffaro. — Se non l'hanno ucciso, vedremo di liberarlo, e ben presto.
Guardate là, verso tramontana, come vanno salendo le mura? La collina
non è alta, nè ripida l'ascesa; voi, del resto, con una cinquantina di
uomini risoluti che condurrete da quella parte là, non dovete subito
andar sotto al muro, ma girare alle falde dell'eminenza, fino a tanto
non avrete veduto una macchia d'olivi, donde meglio coperti giungere
al colmo. Lassù, proprio accanto al muro, è una vecchia palma, i cui
rami pendono a dirittura sul parapetto; e voi, senza che vi dica altro,
figliuoli miei....
— Non dubitate, messer Guglielmo; — interruppe Caffaro di
Caschifellone, — abbiamo inteso. Si cala di là sulle mura di Cesarea,
come volevano fare i Greci dal cavallo di legno sulle mura di Troia.
— Bene! — ripigliò il capitano sorridendo. — Ma badate di tenervi
nascosti nella macchia fino a tanto non vi sarete assicurati che il
parapetto sia sguernito di custodi. Ad ottenervi questo, ci penso io.
Andate. —
I giovani non se lo fecero dire due volte, poichè tanto all'uno quanto
all'altro premeva di giungere, se pure fosse stato possibile, in aiuto
ad Arrigo da Carmandino. Frattanto l'Embriaco volgeva alla parte più
bassa del muro, e, raccolto colà il nerbo dei suoi, faceva grandi
apparecchi alla vista dei nemici. Tutte le scale che avevano servito
per superare il primo ostacolo alla espugnazione della città, furono
immantinente portate davanti al secondo, e quasi tutte concentrate in
un punto; della qual cosa molti Saracini si sbigottirono, altri presero
argomento a sperare.
— Ci assalgono in troppi da un lato solo; — diceva l'Emiro, il
comandante della terra; — noi non correremo dunque il pericolo di
sparpagliare le nostre forze e saremo pronti a respingerli.
— E poi, signore, — chiese timidamente il Cadì, anziano della città, —
che farai tu?
— E poi, con una vigorosa sortita compiremo l'opera nostra,
incalzandoli fino alla spiaggia e buttandoli in mare, prima che abbiano
tempo a salir sulle navi. —
Il Cadì non aveva una fede così grande nelle sorti della difesa. Uomo
di legge e non dedito alle armi, era alieno così dalle speranze come
dai bellici ardori del suo collega. Per altro, non ardì ripeter parola,
e si allontanò dalle mura, per recarsi alla Moschea maggiore dove erano
radunati i vecchi, le donne e i fanciulli, ad implorare la misericordia
di Allà.
I Cristiani, frattanto, appoggiate le scale, muovevano all'assalto,
sostenuti da dugento scelti arcadori, che con tiri aggiustati si
studiavano di ferire quanti Saracini si affacciassero alla merlata.
Famosi erano allora gli arcadori di Liguria, e grandemente ricercati
d'allora in poi presso tutti gli eserciti della Cristianità. La loro
valentia del resto era nota anche in tempi più antichi, ed aveva
giovato moltissimo ai Cartaginesi, nelle loro guerre con Roma. La
ragione di questa eccellenza nelle armi da trarre non era difficile a
trovarsi. Un popolo che non aveva quasi agricoltura, come quello che
pativa difetto di suolo, dovea trarre il sostentamento dalla pesca e
dalla caccia, e diventare perciò marinaio e arcadore.
Alte grida si levarono da ambe le parti. San Giorgio e Maometto
si contendevano il trionfo. Ora mentre i Saracini più ferocemente
combattevano, e colle rotelle imbracciate sulla merlata, paravano
la pioggia dei dardi adoprandosi valorosamente a ricacciare gli
assalitori, un urlo di terrore si udì sulle mura e lo scompiglio si
manifestò nelle file, arrestando ogni virtù di difesa.
Messer Guglielmo indovinò subitamente che cosa fosse avvenuto. Ed egli
stesso si mosse allora al secondo assalto, che non fu così validamente
respinto come il primo. Pochi erano rimasti, fedeli al debito loro, per
sostenere il buon nome delle armi musulmane; la più parte dei difensori
fuggivano, si sparpagliavano a caso per le vie tortuose della città,
tosto inseguiti, rincorsi come fiere dai soverchianti Cristiani.
Anche i lettori avranno indovinato il perchè di quella fuga
precipitosa. Il nemico era penetrato nella seconda cinta, per una via
donde non lo aspettava nessuno. Inerpicatisi sull'albero di palma, Ugo
Embriaco e Caffaro di Caschifellone, avevano insegnata la strada ai
cinquanta animosi che si erano scelti a compagni. Di là, correndo al
basso colle spade sguainate, erano piombati alle spalle dei difensori,
in mezzo a cui fecero strage grandissima. Omero potrebbe qui rimettere
a nuovo il suo famoso paragone del re dei deserti, balzato d'improvviso
in mezzo alla mandria. Io non sono Omero, e colla scusa bell'e pronta
che le similitudini piacciono poco ai moderni, mi ristringo a dire che
i Saracini, senza indugiarsi a noverare i nuovi assalitori e temendo
che una metà dell'esercito genovese fosse già loro alle calcagni,
non sostennero l'urto, fuggirono, di qua, di là, ciecamente, parte
gittando le armi, parte stringendole nei pugni convulsi, senza aver più
l'ardimento di usarle e di vender cara la vita.
Incalzati colle spade nelle reni, lasciando a centinaia i morti lungo
le vie, corsero a rifugio verso la Moschea maggiore. Ma le porte
erano chiuse. I mercatanti, le donne, i vecchi, i fanciulli, stavano
raccolti là dentro, implorando la misericordia del Profeta, aspettando
trepidanti la pietà dei vincitori.
— Siamo uomini al pari di voi; — gridava il Cadì dall'alto di un
minareto, sventolando la bianca fascia del suo turbante in segno di
chieder pace. — Non uccidete chi non può più resistere! Perdonate agli
inermi! —
I consigli di misericordia rimasero inascoltati fino a tanto ci furono
Saracini armati intorno alla Moschea. I Genovesi rammentavano troppo le
minacce spavalde dell'Emiro, e giustamente pensavano che, se avessero
dovuto dar essi indietro, non uno di loro si sarebbe salvato dalla
rabbia dei vincitori. E poi (chi nol sa?) il sangue inebria e il ferire
ha la sua voluttà, che travolge i sensi del soldato più umano.
Giunse finalmente il Patriarca, misto di sacerdote e di guerriero, che
quei tempi comportavano e di cui si ebbe esempio anche in secoli a noi
più vicini. Invitato da messere Guglielmo, a cui pareva inutile oramai
quella strage, Damberto ordinò che si concedesse la vita a quanti
erano chiusi nel tempio, tanto più che non si trattava di armati, ma di
paurosi mercatanti e di femmine imbelli, intorno a cui si stringevano
vecchi cadenti e fanciulli.
Quella turba si arrese, come è facile argomentare, alla prima
intimazione. Il Cadì già ne aveva fatto la profferta ai vincitori.
Era intorno all'ora di sesta, quando si spalancarono le porte della
moschea, e Guglielmo Embriaco vi entrò, seguito dal patriarca Damberto,
brandendo la spada dalla lama, per modo da far credere che portasse in
mostra la croce.
Il fiero prelato ebbe dunque ragione, colla sua profezia. Ma il
savio capitano, tratti in disparte Caffaro di Caschifellone, ed Ugo,
strinse loro amorevolmente la mano, ringraziandoli di averne aiutato
l'adempimento, colla pronta esecuzione del suo stratagemma.
Queste le prodezze dei Genovesi nella espugnazione di Cesarea. Per
metter fine al racconto, bisognerà aggiungere che, alcuni giorni
appresso, il legato del Papa e il patriarca Damberto, «dopo le debite
purificazioni e consuete cerimonie, consacrarono la moschea maggiore in
onore di San Pietro, e un'altra (per far piacere ai Genovesi) in onore
di San Lorenzo; e così fu tornata la città al servizio di Cristo.»
E l'armata e l'esercito si ridussero a Solino; sulla spiaggia di
San Parlerio divisero la preda, e cavata fuori la decima del vescovo
Airaldo e il quinto delle galere, si fece la distribuzione del resto
per ottomila uomini, ciascuno dei quali ricevette le due libbre
di pepe, e i quarantotto soldi del Poitou, che ho detto più sopra,
ragguagliandone la somma ad una libbra e due once d'oro. Donde, come
potete immaginare, grande allegrezza nel campo.
Così ebbe fine il racconto del giovine Caffaro. Il quale, s'intende,
modesto com'era, non disse nulla di sè; quantunque, avendo in pratica
l'Eneide, si sarebbe potuto servire del «_quorum pars magna fui_» e
senza far torto a nessuno.
Il vescovo Airaldo, i consoli e tutti i capi della compagne (che cosa
fossero le compagne dirò poi al lettore) avevano udito con ammirazione
il racconto, volgendo spesso gli occhi da lui al valoroso Embriaco, che
stava pensoso, a fronte china, come uomo che volesse sottrarsi alla sua
gloria, o riandasse colla mente i fatti trascorsi, a mano a mano che
erano narrati.
Messer Guglielmo era triste. Fino a quel punto aveva posto l'animo
negli obblighi suoi di capitano; allora, finalmente, poteva ricordarsi
di essere padre e di non aver liete novelle per la sua bella figliuola.
La fine di Arrigo da Carmandino aveva compreso di mestizia ogni cuore.
— Ma proprio non sarà dato di sapere in qual modo Genova ha perduto
questo generoso suo figlio? — chiese Pagano della Volta. — E il suo
cadavere, almeno?
— Non fu trovato; — rispose il giovine Caffaro. — Gandolfo del Moro
afferma bensì di averlo riconosciuto in alcuni avanzi umani, mezzo
abbrustoliti dal bitume ardente. —
Raccapricciarono gli astanti, e tutti gli sguardi si rivolsero allora a
Gandolfo del Moro.
Il torvo amico di Nicolao si fece avanti d'un passo, e senza pure alzar
gli occhi a guardare i consoli, aggiunse:
— Pur troppo! Vorrei che così non fosse finito un tant'uomo. Una cosa
sola desidero, cioè di essermi ingannato. —
Per altro, è delle moltitudini di non concedere troppo larga parte
ai rammarichi, segnatamente dove il danno dei pochi si confonde nel
benefizio dei più. La vittoria ha una aureola che offusca ogni cosa
d'intorno a sè. Ed anche Arrigo da Carmandino, il bel cavaliere,
sospiro di tante donne gentili, invidia di tanti prodi uomini,
orgoglio della sua terra natale, ebbe, in un senso fugace di pietà,
in una parola di rimpianto, tutto quello che potesse aspettarsi dai
sopravvissuti un estinto.
— Messer Caffaro di Caschifellone, — disse Amico Brusco, il fratel
dell'Embriaco, — voi avete fatto opera egregia, raccogliendo la storia
della nobilissima impresa. Il comune di Genova incomincia bene, ed io,
conoscendo il valore di tutti i suoi cittadini, son certo che non si
fermerà così presto sulla via della gloria. È dunque giusto che abbia
trovato, in voi prode guerriero, il suo storico. —
Sallustio, il venerabile segretario di Airaldo, soggiunse:
— Gravissimi istorici ebbe Roma, e certo essa ripete da questi la somma
ventura di veder tramandato alla posterità più lontana il grido delle
sue gesta. Procurate voi, messer Caffaro, uguale fortuna al comune di
Genova. —
Il giovine annalista si inchinò tacitamente all'invito cortese,
che doveva riuscire un vaticinio per lui. A quelle lodi non era da
rispondere con parole; che, anco umilissime, sarebbero sempre, dopo il
paragone del vecchio segretario, sembrate a lui non abbastanza modeste.


CAPITOLO VIII.
Un cuore spezzato.

Che era egli avvenuto di Arrigo da Carmandino? Era caduto vittima del
suo temerario valore? Erano di lui quegli avanzi mezzo abbrustoliti, in
cui temeva di averlo avvisato Gandolfo del Moro?
Ricordate chi fosse Gandolfo, e pensate con che sincerità potesse egli
aver manifestato quel suo desiderio di essersi ingannato. Caffaro, che
bene lo conosceva e lo sapeva rivale di Arrigo, era il primo a dubitare
di quella sincerità e di quella testimonianza. Ma un fatto era vero;
che nella presa di Cesarea il povero Arrigo era scomparso; che era
rimasto in balìa dei nemici, nel furore di quella disperata difesa;
donde si poteva argomentare facilmente che lo avessero fatto a pezzi,
vendicando su lui lo scorno di una prima sconfitta.
Anch'egli, Caffaro, espugnata la seconda cinta di mura e posate le
armi, aveva chiesto nuove del suo povero amico. Ma tra per la diversità
della lingua, quantunque già allora i pellegrinaggi e le guerre
avessero dato vita a quella parlata bastarda che faceva intender tra
loro Cristiani e Saracini, e per la confusione e lo smarrimento dei
vinti, egli non aveva potuto saper altro che questo: i pochi Genovesi,
entrati primi nella seconda cinta, essere stati colti in mezzo e aver
venduto cara la vita, cadendo, stremati di forze e coperti di ferite,
su d'un mucchio di cadaveri.
Niente adunque di più naturale che il loro capo fosse morto con essi, e
che il bitume infiammato, onde usavano i difensori per respingere gli
assalti, appiccandosi alle vesti e alle armature, avesse rosolato le
carni dei morenti, sfigurati, resi irriconoscibili i corpi.
Così pensava anche messer Guglielmo. Povera la sua figliuola! Come
avrebbe accolto ella il messaggio?
Nello avvicinarsi alle sue case, tra Macagnana e il Castello, il
grand'uomo si smarriva d'animo, tremava in cuor suo, come avrebbe fatto
un bambino.
Diana era sulla soglia ad aspettarlo, attorniata da tutti i congiunti,
familiari e servi di casa Embriaca. Come una giovine matrona romana,
essa era rimasta alla custodia dei lari domestici, mentre gli uomini
attendevano agli obblighi loro fuor dei confini della patria, e
aveva governato il suo piccolo mondo con senno e fermezza, rafforzata
dall'autorità del suo nome e circondata dall'ossequio di tutti.
Abbracciò il padre, e confuse con quelle di lui le sue lagrime; lagrime
d'allegrezza le sue, di mestizia e di tenerezza quelle del padre.
Strinse di poi la mano ai fratelli, e fu lieta di non veder altri con
uno di loro. Il fedele Gandolfo non aveva stimato prudente consiglio di
accompagnare fin là il suo amico e protettore Nicolao.
Concessa la debita parte agli affetti domestici, Diana cercò degli
occhi Arrigo, e non lo vide nel corteggio paterno. Forse era andato
prima alle sue case. Ma che? Bene era egli tornato una prima volta
di Soria, e la sua prima visita era stata per le case dell'Embriaco.
Il cuore le si strinse d'improvviso, come per presentimento d'una
sciagura. Volse gli occhi a suo padre e vide il volto di lui impresso
di profonda pietà. — Arrigo! Arrigo! — balbettò essa, e si sentì venir
meno.
Messer Guglielmo fu pronto a sostenerla nelle sue braccia.
— Animo, figliuola mia! — le susurrò egli all'orecchio, mentre cercava
di condurla verso le scale. — Pensate che siete del sangue d'Ido
Visconte, e che, dove la patria è in festa, debbono tacere i privati
dolori. Diana, fate buona custodia al cuor vostro, in questi momenti
solenni. Io sono addolorato al pari di voi. Venite, figliuola, e
preghiamo Iddio che accolga nella gloria celeste i martiri della sua
fede. —
La preghiera di suo padre era un comando per la nobilissima fanciulla.
Mormorò alcune frasi sconnesse; rattenne le sue lagrime, le ricacciò
indietro a forza, le sentì ridiscendere, gelarsi intorno al suo povero
cuore. Non le reggevano le membra, ma il braccio del padre era saldo
ed ella si trovò, senza pure avvedersene, nella sua fidata cameretta,
dove aveva tanto pensato a lui, tanto pregato per lui, pel suo gentil
fidanzato. Eppure non pianse, tanto era lo smarrimento dell'animo;
non rispose parola alle molte ed amorevoli del padre, che, congedati
i suoi famigliari, si era ridotto per quel giorno al fianco dell'amata
figliuola.
Muta e fredda a guisa d'un marmo, ascoltava il suo fiero genitore,
diventato un fanciullo per lei. Cogli occhi sbarrati e l'orecchio
intento, beveva avidamente, più che non udisse, le dolenti notizie
della presa di Cesarea e della sparizione di Arrigo. Il valore di lui,
la fama acquistata, l'amore e l'ossequio dei compagni d'arme, cose
tutte che ella sapeva e che le venivano ricordate nel racconto paterno,
erano una vana memoria oramai, raggio di un sole che si dileguava, eco
d'un suono che era cessato. E tutte quelle parole fatte di lui, come
voci di là dalla tomba, le rimbombavano nell'anima, davano suono come
di corda spezzata.
Povero cuore! Quale vi apparve da quel giorno la vita! Quella casa
in cui si affaccendavano i servi, lieti pel ritorno del loro glorioso
signore, era un chiostro per lei, un antico chiostro in rovina, tutto
popolato di larve, che andavano e venivano, ma senza dar suono al
suo orecchio, che gestivano e parlavano tra loro, ma in una lingua
sconosciuta. Quella città, tutta piena di gente operosa ed allegra,
tutta suoni e canti e rumori festosi, era un camposanto, nel quale
ella si trovava, raccolta in un angolo, a pregare su d'una fossa, a
piè d'una croce. La croce! la fossa! Ahimè, neppur quelle ci aveva, su
cui raccogliere i suoi affetti desolati. Non c'era, in tutto quel mondo
mutato, un luogo, un punto d'appoggio per lei. Diana stessa, la povera
Diana, era una larva tra i vivi.
Le avete mai sognate, quelle solitudini ignude e fredde, in cui
si rimpicciolisce il cuore e si smarrisce il pensiero? Il cielo, i
monti, il piano, son tutti d'un colore; non un fil d'erba su cui posar
l'occhio; non un batter d'ali a cui tener dietro sull'orizzonte; un
senso di freddo vi corre per tutte le fibre; il sole è spento; si
ha la certezza che non tornerà più. Bel sole, glorioso sole, che eri
la vita del mondo, che facevi risplendere così puramente quel cielo,
scintillare così allegramente quel mare, e variare per tante gradazioni
di tinte quei colli, che avevi dato impulso e dettato un inno d'amore
a tante umili esistenze, sei morto anche tu? Ancora una reliquia del
tuo calore, che si andrà spegnendo a grado a grado, e poi regnerà in
terra la notte. Oggi il male, domani il peggio; in lontananza il nulla,
l'orrido nulla!
Tale apparve la vita a Diana. Non sorrisi, non carezze dei suoi,
valsero a distogliere il suo spirito dai tetri abissi in cui si era
sprofondato. Non piangeva: fu anzi veduta sorridere umanamente alle
sue donne, che si facevano intorno a lei colle usate dimostrazioni
di ossequioso affetto, e quel sorriso parve a tutti più doloroso
del pianto. Che avveniva egli in quell'anima chiusa ad ogni
sguardo indagatore? Si maturava la follia? O si preparava le vie lo
struggimento della morte?
Per molti giorni e settimane, quella povera mesta non accennò il
desiderio di ritornare sul doloroso argomento. Ma ognuno, al solo
vederla, indovinava qual cura fosse presente nell'animo della infelice
Diana.
Finalmente, un giorno, ella chiese di sapere per filo e per segno
l'accaduto. Forse le si era snebbiata la mente e l'afflizione si era
chetata un tratto nel suo cuore; forse una speranza le si affacciava
allo spirito, una speranza lieve ed incerta, che un più assegnato
racconto di tutti i particolari della espugnazione di Cesarea e un più
diligente esame di tutti gli indizi raccolti dai compagni di Arrigo,
avrebbe potuto rendere più salda, o far dileguare del tutto.
Ugo, il diletto fratello, si fece ad esporre partitamente le cose già
dette in breve dal padre. Diana, sebbene rabbrividendo ad ogni tratto,
come persona colta dalla febbre, pure ascoltò attentamente, e di
molti particolari, che le erano sfuggiti dapprima, volle ripetuto il
racconto.
— Infine, — diss'ella, quando si avvide che Ugo non aveva più altro
a narrarle, — Arrigo da Carmandino non è stato più rinvenuto. Questo
soltanto è accertato. —
Nicolao aggiunse, rispondendo alla tacita conchiusione del ragionamento
di lei:
— Gandolfo del Moro lo ha riconosciuto tra i morti. —
Il cuore della fanciulla diè un balzo violento, a quell'accenno crudele
e al ricordo di quel nome odiato, che, dall'ultimo ritorno dei crociati
in poi, non le era più venuto all'orecchio.
— Consentite, sorella, — ripigliò Nicolao, — che il nostro amico
Gandolfo vi racconti la cosa egli stesso. È doloroso, — soggiunse,
notando il senso che la sua proposta aveva fatto sull'animo della
fanciulla, — ma infine, se voi dovete sapere, e se è giusto, come io
penso, che voi sappiate ogni cosa... —
Nicolao non ebbe tempo di finir la sua frase, perchè Diana, che a
tutta prima non aveva saputo dissimulare un senso di ripugnanza, si era
subito ravveduta e lo interrompeva a mezzo.
— Venga l'amico vostro, — diss'ella. — È ancora un omaggio alla memoria
di Arrigo, che io ascolti chiunque mi parla di lui. —
Gandolfo del Moro non era mai troppo lontano dal suo fido Nicolao,
e giunse più sollecito che la stessa Diana, dopo essersi risoluta di
riceverlo, non avrebbe potuto desiderare.
Il giovine cavaliere dai capegli rossi e dalla torva guardatura si fece
avanti tutto peritoso, severo all'aspetto, ma più azzimato del solito,
colla sua gavardina di color pavonazzo aggiustata all'imbusto e colle
calze divisate di bianco e di azzurro.
— Madonna, — diss'egli, sospirando, — la perdita di un così prode
cavaliere è un lutto universale. La cristianità ne aveva pochi che
gli stessero a pari, nessuno che gli andasse avanti per gentilezza e
valore. —
Diana accolse le parole compunte di Gandolfo, con un gesto che voleva
dire: — sta bene, ma venite al fatto, messere. —
Così dato sesto all'esordio, Gandolfo del Moro narrò come fosse
entrata nell'animo suo la persuasione dell'orrida fine d'Arrigo.
Quegli avanzi umani da lui veduti erano per l'appunto in una viuzza
angusta e tortuosa, presso alla seconda cinta di mura. Colà il valoroso
Arrigo e i suoi compagni di sventura dovevano essere stati arrestati
dai difensori, trovatisi allora in numero soverchiante. Le armature,
comunque ridotte, si riconoscevano essere di cristiani, e, sebbene
in gran parte consumati dal fuoco, si potevano ancora distinguere
alcuni brani di sorcotta, che era la clamide portata dai cavalieri
sulla corazza, o sulla maglia d'acciaio. Come quel pugno di valorosi
fosse stato ridotto in tal guisa, era facile argomentare. Avevano
combattuto disperatamente, approfittando della strettezza del passo
per non lasciarsi cogliere in mezzo, e i nemici non erano venuti a
capo di finirla con quella meravigliosa difesa, se non col gittare,
dai parapetti delle logge e delle altane, bitume infiammato sui
combattenti.
Tutte queste erano prove generiche. L'indizio che colà e in quel
modo fossero finiti parecchi dei Genovesi entrati con Arrigo entro la
seconda cinta di mura, non poteva esser più certo. Ma chi in quegli
avanzi miserandi, aveva riconosciuto il Carmandino?
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