Diana degli Embriaci: Storia del XII secolo - 06

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Diana fissava i suoi occhi in quegli del narratore; e questi, non
potendo sostenerne l'incontro, chinata la fronte, terminò il suo
discorso cogli sguardi a terra.
— Guardatemi in viso; — diss'ella; — forse vi faccio paura? —
Gandolfo del Moro avrebbe voluto rispondere; ma bene intese che quello
non era il caso di venir fuori con una gentilezza, e che Diana non gli
aveva già chiesto un detto di quella sorte. Perciò, alzate le ciglia in
atto di obbedienza, stette a guardarla perplesso.
— Giurate, — ripigliò la fanciulla con accento solenne, spiccando
dalla parete un dittico di avorio, in cui era dipinta da un artista
bisantino la passione di Cristo, — giurate su questa croce, che ha
toccato le ceneri del Precursore, che voi siete certo di ciò che dite,
e che in quegli avanzi avete riconosciuto il corpo di messere Arrigo da
Carmandino.
— Ho sempre desiderato di aver preso abbaglio, — rispose Gandolfo,
schermendosi; — ma pur troppo mi pare che non possa essere altrimenti.
Tra i vivi non è tornato; i morti, dell'ardita comitiva, eran quelli;
nè altri se ne sono trovati più lunge. Di certo il povero Arrigo è
caduto insieme co' suoi.
— No, non è vero; — gridò la fanciulla, seguendo l'impulso del cuore,
anzi che un barlume di ragione. — Non so come ciò possa essere; ma
Arrigo da Carmandino non è morto. Credo ai presentimenti; — soggiunse a
mezza voce, quasi parlando per sè.
Gandolfo si appigliò prontamente a quel filo.
— Se credete ai presentimenti, madonna, ho fede che crederete a quelli
di messere Arrigo non meno che ai vostri. —
Diana lo guardò con occhio attonito.
— Che dite voi ora? — balbettò ella, non bene intendendo il senso delle
parole di lui.
— Dico, madonna, che un amico del povero Arrigo ha un messaggio per
voi. Egli è Caffaro di Caschifellone, suo compagno nell'assalto di
Cesarea, fino al punto in cui la sorte li divise, dando ragione ai
tristi presagi di Arrigo.
— Come sapete voi ciò? — chiese Diana, guatandolo con occhio
diffidente. — E come avete voi primo un messaggio, che l'amico di
Arrigo non ha creduto opportuno di recarmi finora?
— Lo ha detto poc'anzi a me; — rispose allora Nicolao, quantunque non
fosse rivolta a lui la domanda. — Messer Caffaro di Caschifellone,
giunto a mala pena di Sorìa, aveva dovuto recarsi in Polcevera, per
abbracciare i suoi nel loro castello di Pontedecimo, donde è tornato
per l'appunto stamane.
— Ed ha un messaggio per me? Di Arrigo? — chiese ella, smarrita.
— Di Arrigo. Egli non ardiva presentarsi qui, non essendo da voi
conosciuto, e non ardiva domandarne licenza a nostro padre. Nè io, nè
Gandolfo del Moro, che era con me quando Caffaro mi toccò di questo
messaggio, avremmo osato parlarne a voi, se la necessità....
— Basta, fratello; — interruppe Diana. — Venga il signore di
Caschifellone; mio padre non troverà mal fatto che un prode cavaliero
della croce mi rechi le ultime parole, l'ultimo saluto del mio
fidanzato. —
Quel medesimo giorno, Caffaro di Caschifellone adempiva l'ufficio
pietoso che aveva accennato nel duomo di San Lorenzo al console Pagano
della Volta, al fratello di sua madre.
Entrò nelle stanze di madonna Diana atteggiato ad una profonda
mestizia, ben sapendo di dover rinnovare un acerbo dolore nell'animo
di quella gentil creatura, che egli vedeva per la prima volta, e di cui
non aveva mirato mai la più bella.
Imperocchè, lo sapete, la fanciulla degli Embriaci era un miracolo
di bellezza, senz'altro. Caffaro, nella sua adolescenza, era vissuto
lontano da Genova, nel castello de' suoi padri. Più tardi era passato
in Genova, ma presso un congiunto, prete nella chiesa di San Teodoro,
il quale lo aveva diligentemente ammaestrato nelle umane lettere,
col proposito di farne un chierico. Ma l'uomo propone e il caso
dispone. Caffaro di Caschifellone non doveva lasciare ai fratelli
Oberto e Guiscardo il carico di continuare la stirpe; era destinato
a far parlare di sè nelle istorie della sua patria. Del resto, gli
studi fatti presso il suo consanguineo avevano a dare i loro frutti,
poichè Caffaro di Caschifellone, soldato, ambasciatore e console,
doveva riuscire anche uno scrittore, anzi il primo annalista d'Italia,
nell'alba del suo risorgimento.
Tutte queste parole per chiarirvi come e perchè Caffaro di
Caschifellone non conoscesse Diana, la perla di casa Embriaca, la bella
tra le belle di Genova. Anche visitata così aspramente dalla sventura
e abbattuta dalle sue afflizioni, madonna Diana era sovranamente
bella, come certe Vergini addolorate, che derivano dalla espressione
dell'interno affanno una nuova e più efficace bellezza.
Il giovane, affacciatosi appena all'uscio, e veduta la fanciulla degli
Embriaci, avrebbe voluto ritirarsi. Ma era tardi, poichè essa pure
aveva veduto lui; donde avvenne che rimanesse estatico a contemplarla.
Tutta nel suo dolore, la fanciulla non si avvide di quella ammirazione,
che del resto era improntata d'un ossequio profondo, e gli fe' cenno di
avvicinarsi.
— Madonna! — diss'egli, inchinandosi.
— Venite, cavaliere, e non temete di parlarmi liberamente. Son forte,
credetelo. E poi, se Arrigo da Carmandino è morto, che altro può egli
toccarmi di più? E non deve giungermi come un refrigerio ben meritato,
— notò ella mettendosi una mano sul cuore, con gesto d'ineffabile
angoscia, — quella parola sua che voi mi portate di Terra Santa?
— Sì, madonna, è vero ciò che voi dite; — rispose il giovane,
facendosi animo a compiere l'ufficio suo. — Le ultime parole dei cari
estinti sono continuazione del loro affetto ai superstiti. Arrigo da
Carmandino, il mio sventurato e glorioso amico, pensava a voi, madonna,
pochi istanti prima di abbandonarci. Salivamo ambedue per la medesima
scala sulle mura di Cesarea, quando egli, a poca distanza dalla
merlata, volgendosi a me, che mi stringevo al suo fianco, mi disse....
Ah, le sue parole mi suonano distinte all'orecchio, come se egli
parlasse ancora in questo momento!
— Orbene, messere! Vi disse?....
— «Amico mio, ve ne prego, se io muoio, dite a madonna Diana che ho
pensato a lei nell'ultima ora, e che l'anima mia, con licenza di nostro
Signore, a cui mi raccomando, andrà a dirle tutto l'amore che io le ho
portato vivendo.» —
Il viso della fanciulla, cosparso di un pallore mortale al cominciare
delle parole di Arrigo, si era a mano a mano trasfigurato. Poi che ebbe
finito di riferirle, Caffaro guardò Diana, e gli parve di non aver più
davanti a sè una povera donna addolorata, ma una visione celeste; una
martire sì, ma raggiante, levata sulle nubi in una gloria di spiriti.
Poco stante, la trasfigurata, la martire, ridiscese sulla terra. Un
dubbio le si era affacciato alla mente.
— Avete detto questo a mio fratello Nicolao? — dimandò ella al
messaggiero.
— Non rammento, madonna.
— Pensateci, messere; raccogliete i vostri ricordi, ve ne prego! —
E aveva un'aria così soavemente supplichevole, così cara nella sua
mestizia, che Caffaro ne fu intenerito.
— Vidi messer Nicolao questa mane; — diss'egli. — Era coll'amico suo
Gandolfo del Moro. Udito della vostra tristezza (ben ragionevole,
madonna, ed ogni cuore ben nato la intende), accennai al messaggio che
avrei avuto da compiere. E questo dissi, lo ricordo bene ora, dopo aver
notato che Arrigo aveva il presentimento della sua morte.
— E non altro diceste? non altro?
— No, Messer Nicolao mi rispose che non avrebbe mai osato annunziarmi
a voi. Ed io, in verità, non avrei creduto mai d'esser chiamato così
presto.
— Oh grazie! grazie pel bene che mi fate! — esclamò Diana, giungendo
le palme, quasi parlasse al serafino delle sue veglie verginali. —
Tacete, ve ne supplico, tacete quind'innanzi le parole di Arrigo....
segnatamente le ultime.
— Perchè, madonna? — dimandò il giovane, non intendendo il senso di
quella preghiera.
— Perchè? Mi chiedete il perchè? Ah, non sapevano davvero quello che
si facessero, quando mi hanno accennato il vostro messaggio! Perchè...
infine, a voi amico di Arrigo da Carmandino io lo dirò; quelle parole
sue erano per me, per me sola; e qualcheduno, — soggiunse Diana,
rabbrividendo involontariamente, — qualcheduno, in cui mio fratello
Nicolao ripone una fede soverchia, non è degno di risaperle. Perchè
Arrigo vive, intendete? vive, e ritornerà tra coloro che l'amano.
— Madonna, e che cosa vi fa sperare?....
— Sperare no, esser certa. Arrigo ha promesso di venirmi a recare
il suo saluto di là dalla tomba, se era volontà del cielo che egli
morisse. Arrigo non è venuto; Arrigo non è morto. —
Caffaro rimase muto e triste a guardarla. Temette allora di avere col
suo racconto lusingato una vana speranza, di aver forse dato esca ad
una pericolosa follia, ed una profonda compassione ricercò tutte le
fibre del suo cuore.
— Madonna, — rispose egli, dopo un istante di pausa, — non vi fidate
in questi argomenti. Le parole di Arrigo erano un saluto, un desiderio,
non già una promessa. Ahimè, pur troppo non tornano gli estinti!
— No, no, non dubitate; — gridò la fanciulla degli Embriaci. —
Dopo quella solenne promessa, se fosse morto, sarebbe venuto, e
Iddio misericordioso avrebbe esaudito questo voto all'anima di un
martire della sua fede. Oh signore onnipotente, — proseguì ella,
inginocchiandosi davanti alla immagine del Crocefisso, — voi mi avete
dunque veduta nella mia afflizione? —
E diede in uno scoppio di pianto. Erano le prime lagrime che quella
poveretta avesse versato, dal giorno dell'annunzio fatale della morte
di Arrigo.
Caffaro di Caschifellone, giovane com'era ed inesperto delle cose
del cuore, non poteva argomentare come fosse benefico quello sfogo
improvviso. E si sottrasse discretamente allo spettacolo di un dolore
che credeva di aver rinfrescato, promettendo a sè stesso di non
far parola a nessuno del messaggio che aveva recato a quella bella
infelice.
Da quel giorno Diana non disse più verbo, non fece più atto, che
accennasse alla memoria di Arrigo. Non tornò ilare già, nè serena, come
era suo costume in passato; ma si mostrò tranquilla e rassegnata, umana
con tutti, perfino con Gandolfo del Moro, che andava spesso alle case
degli Embriaci, e incominciò a sperare, lo sciocco, di poter cancellare
un giorno da quel cuore la immagine di Arrigo da Carmandino. Certi
uomini hanno la insigne baldanza di credersi irresistibili; certi altri
il torto gravissimo di credere che tutte le donne sian pari. Gandolfo
del Moro teneva molto di questi e di quegli.
La fanciulla degli Embriaci non parve accorgersi di tutte quelle rinate
speranze. I suoi modi erano aperti e pieni di cortesia per ognuno; la
sua anima era chiusa. Unico accenno al segreto di quell'anima, era il
lampo fugace degli occhi e un più soave sorriso, quando si presentava
a lei il giovine Caffaro. Il quale non pensò davvero che tanta soavità
di grazie celestiali andasse a lui, proprio a lui. Non era Gandolfo
del Moro, per ingannarsi a quel segno, e, memore amico del Carmandino,
ricacciò, seppellì nel suo cuore un sentimento involontario, che, nato
appena, minacciava di comandare alla sua stessa ragione.
Passarono tre mesi. E finita la _campagna_, cioè il reggimento de' sei
consoli che abbiamo accennati nel principio del nostro racconto, alle
calende di febbraio del 1102, si designò un nuovo magistrato. Quattro
furono i consoli nuovi: Guglielmo Embriaco, Guido Visconte, suo padre,
che era stato il primo a portare il soprannome di Spinola, Guido di
Rustico del Riso, e Ido di Carmandino, fratello maggiore del povero
Arrigo. Era, come si vede, un consolato tra consanguinei, appartenendo
tutti, salvo Guido del Riso, alla schiatta di Ido Visconte.
Anche Guglielmo Embriaco, datosi tutto alle cose del Comune, potè
ingannarsi intorno allo stato dell'animo di sua figlia. E un bel
giorno, mentre ella era a mala pena tornata dalla vicina chiesa di
Santa Maria del castello, così le parlò il suo glorioso genitore:
— Figliuola mia, provvediamo al futuro. Fu triste il passato, e abbiamo
dovuto rassegnarci ai decreti del cielo. «Dio lo vuole» fu il grido
che ci ha condotti in Terra Santa e ci ha fatto meritar la vittoria;
«Dio lo vuole» sia anche il nostro grido e la nostra forza nelle cose
domestiche. —
L'esordio non prometteva niente di buono a Diana, che stette in
silenzio, ma col cuore in soprassalto, ad ascoltare la fine.
Guglielmo Embriaco proseguì il suo discorso annunziando alla figliuola
che essa doveva pensare a prender marito.
— Gandolfo del Moro — diss'egli — è un gentil cavaliere; ha congiunti
in nobile stato, attinenze poderose e castella che lo fanno desiderabil
partito per ogni padre che abbia una figliuola da accasare. I tuoi
fratelli lo amano come se già egli fosse della famiglia; io lo pregio
grandemente e lo amerò come figlio, se anche tu, come spero, lo vedrai
di buon occhio. —
Al nome di Gandolfo, la fanciulla impallidì e sentì piegarsi i
ginocchi. Resistere alla volontà di suo padre, quando si fosse
chiaramente manifestata, sarebbe stato impossibile per lei. Sarebbe
morta di crepacuore, ma non avrebbe ardito alzare la voce, per
respingere la mano che a lui fosse piaciuto di unire alla sua. Per
fortuna, le ultime parole di lui temperavano il rigore della paterna
autorità, ed ella trovò ancora la forza di rispondergli, sebbene con
voce tremante per la violenta commozione ond'era compresa.
— Padre, il mio cuore è spezzato, nè batterà più per altr'uomo. —
Messere Guglielmo fu scosso da quella confessione dolorosa.
— Diana! — esclamò egli, turbato. — Dici tu il vero?
— Per la santa croce di Cristo; — rispose ella con accento solenne. —
Tu puoi uccidermi, o padre; ma io non amerò più nessuno. —
Messer Guglielmo non diede risposta a sua figlia. La guardò un tratto,
corrugando le sopracciglia, come se volesse concentrar tutta in lei la
virtù degli occhi e penetrare nel suo cuore. Indi si mosse, andando su
e giù per la camera a passi disuguali, che dovevano certo rispondere
ai varii moti dell'animo. Non era già crucciato, ma pieno di rammarico,
vedendo sua figlia, una mite fanciulla fino a quel dì, mostrarsi donna
in quella forma di dolore che egli bene scorgeva invincibile. Povera
Diana! Come doveva aver sofferto, per rispondere in quella guisa a suo
padre! E come, alla saldezza della fede, alla profondità del sentire,
egli riconosceva in quella gentil creatura il suo sangue!
Diana, intanto, stava ritta ed immobile davanti a lui, bianca in viso
come una statua di marmo, aspettando la risoluzione di suo padre.
Ma egli stesso non sapeva che risolvere. Si fosse trattato di muovere
all'assalto d'una città, di vedere, così sui due piedi, il lato debole
d'un esercito nemico schierato in battaglia davanti a lui e di dar
dentro con tutte le forze in quel punto, manco male, era quello il
fatto suo, perchè il Testa di maglio vedeva giusto, pensava pronto
e colpiva sicuro. Ma là, davanti ad una povera fanciulla, padre, non
capitano d'eserciti, messer Guglielmo titubava, non vedeva l'uscita.
— Ed ora, — diss'egli finalmente, fermandosi a un tratto, — che cosa
intenderesti di fare? —
Diana raccolse le sue forze e rispose:
— Con tua licenza, padre mio, andrò in pellegrinaggio al sepolcro di
Cristo; donde muoverò alla volta di Cesarea, in traccia di Arrigo. Se
Arrigo è morto, e se in capo ad un anno io non avrò contezza di lui,
fonderò un monastero là dove si narra esser egli caduto, e finirò la
mia vita pregando per lui e per tutti. —
Messer Guglielmo capì che non c'era nulla a fare e che la risoluzione
di sua figlia era immutabile. Avrebbe egli potuto negarle il suo
assenso paterno; ma col suo rifiuto l'avrebbe anche uccisa.
Diana s'inginocchiò a' piedi del suo glorioso genitore.
— Padre mio, acconsenti; — gridò; — acconsenti, te ne prego per l'amore
che portavi un giorno ad Arrigo. —
Si scosse a quella invocazione l'Embriaco, e una lagrima apparve sul
ciglio del fiero soldato di Gerusalemme, dell'espugnatore di Assur e di
Cesarea.
— Un giorno! — ripetè egli con accento di profonda amarezza. — Dite,
figliuola mia, che l'immagine di Arrigo non è uscita mai dal mio cuore,
come non è uscita dal vostro. Se l'ho amato! Fanciulla, il cuore del
guerriero ha amori così gagliardi, che una donna, non che sentirli,
non verrebbe a capo d'intenderli. Il compagno nostro di speranze, di
fatiche, di pericoli e di glorie.... ma sai tu, Diana, ch'egli è più
d'un fratello per noi? Avere nel tuo campo uno che t'intenda, che ti
risponda anche da lunge, da un altro punto della battaglia, come ti
risponde il tuo cavallo generoso ad un toccar di sprone, ad un premere
di ginocchio; sapere che là, dove è più grande il bisogno, combatte
un altro te stesso, che comparirà tra breve, guidando un pugno di
valorosi, e ti porterà la vittoria, come tu la porterai a lui; che
fa voti per te, come tu li stai facendo per esso; e tutto ciò senza
dubbiezze, senza timori, senza invidia (perchè là, davanti alla morte,
non c'è invidia, sai!), questa è l'amicizia del guerriero, questa è la
fratellanza delle armi. E posso io dimenticare Arrigo da Carmandino?
Mio figlio Arrigo? Pensa, immagina quel che vorrai; dimentica che
poc'anzi ti parlava un padre, costretto a consigliarti pel tuo bene
futuro; ma non giudicare il soldato, il soldato che ha il suo culto
immutabile nel cuore, il soldato che ti risponde: un altro Arrigo non
c'è; nessun altri prenderà il suo posto qui dentro. —
E si lasciò cadere su d'un seggiolone, il grand'uomo, e pianse come
avrebbe pianto un bambino.
— Vedi, padre, vedi? — gridò ella, esaltandosi a quelle infiammate
parole del console; — tu lo hai amato davvero, e non potresti più
amarne un altro in sua vece.
— È vero. Ma il cuore dell'uomo può chiudersi; quello di una donna,
di una fanciulla, come tu sei, non lo può, non lo deve. La donna, nel
corso della vita, ha mestieri di appoggiarsi ad un uomo.
— O ad una memoria; — soggiunse Diana. — Ho veduto l'edera e la vite, a
cui siamo spesso paragonate, appoggiarsi alle rovine. E la mia scelta
è fatta. Se Arrigo non è morto, verrà, o noi dovremo rinvenirne le
traccie.
— Le traccie! In che modo?
— Chiedi a Gandolfo del Moro. Egli, a cui tanto premeva di riconoscere
un compagno d'armi in poche ossa non consumate dalle fiamme, egli sarà
il primo a dirti, se tu lo interroghi col medesimo sguardo con cui
fulminavi i nemici, il primo a dirti che Arrigo vive, e che egli ne ha
la certezza.
— Che dici tu mai?
— Dico, padre mio, che Arrigo, sulle mura di Cesarea, fece voto di
poter venire in ispirito a recarmi un ultimo saluto, se era destinato
che egli dovesse cadere. Iddio, per la cui fede egli combatteva, Iddio
lo avrebbe esaudito; io avrei veduto lo spirito di Arrigo, se egli
veramente fosse rimasto tra i morti. Non deridere la mia fede, o padre;
essa è più salda che mai. Arrigo non è venuto; egli è vivo, ed io debbo
rintracciarlo, dedicare a lui la mia vita. Non me lo avevi tu concesso
in isposo, e non doveva egli consacrarmi la sua? —
Messere Guglielmo rimase un tratto sovra pensiero.
— Hai risoluto? — le chiese, dopo un istante di pausa.
— Sì, padre mio; so di accorarti, ma invero non meriterei di essere tua
figlia se pensassi altrimenti. O con lui, o su lui. —
Il console piangeva, ve l'ho detto. E le sue lagrime bagnarono la pura
fronte di sua figlia.
Quel medesimo giorno l'Embriaco andò per le usate faccende alla casa
del Comune. I quattro consoli avevano allora non pure il reggimento
della signorìa, ma altresì quello delle controversie e delle cause
civili, non essendo ancor l'uso, che venne pochi anni dopo, di separare
i consoli dello Stato, o maggiori, dai consoli de' placiti.
Però, quel giorno, finito di render giustizia, Guglielmo Embriaco
invitò i suoi colleghi a radunarsi in segreto, per vedere se non fosse
il caso di allestire una nuova armata e mandarla a guadagnare altri
allori ed espugnare altre terre in Sorìa.


CAPITOLO IX.
Nel quale è dimostrata l'utilità del combattere a capo scoperto.

La saracinesca era calata con alto fragore alle spalle degli animosi,
e Arrigo da Carmandino, che li precedeva, colla spada nelle reni ai
fuggenti nemici, non se ne era avveduto. Bene lo avvisarono i più
tardi tra i suoi compagni, che all'improvviso rumore si erano voltati
indietro. Ma era tardi oramai per rifarsi alla porta e costringere i
guardiani a rialzare l'ostacolo. Un'altra schiera di Saracini giungeva
alla riscossa, arrestava i compagni, rianimava la difesa, metteva in
grave pericolo quel pugno d'audaci, che dovevano pentirsi, ma tardi,
della loro temerità, con un nugolo di avversarii che li incalzavano di
fronte e coi guardiani della porta che rumoreggiavano alle spalle.
— Ammazza! ammazza! — era il grido dei Saracini.
La strada angusta tornava propizia alla resistenza dei crociati. Ma
quanto avrebbe potuto essa durare? Era da supporsi che l'esercito
genovese, dato di cozzo nella seconda cinta, superasse l'ostacolo nuovo
prima che i suoi compagni perduti là dentro fossero tagliati a pezzi?
Arrigo da Carmandino aveva dato un'occhiata intorno a sè e non si
pasceva di vane speranze. Cinque cavalieri genovesi lo avevano seguìto.
Quanto tempo avrebber resistito sei uomini, anche valorosi come sei
paladini di Carlomagno?
— Amici, — disse Arrigo ai compagni, approfittando di un momento di
confusione che in quella stretta rendeva impossibile ai nemici un utile
assalto. Che si fa? Pensate voi di arrendervi?
— No, piuttosto morire, mille volte morire!
— Bene, preghiamo dunque il Signore che riceva le anime nostre. —
E brandendo la spada sul capo, con alta voce gridò:
— Difensori di Cesarea, seguaci del Profeta, noi Arrigo da Carmandino,
Simone Gontardo, Marino della Porta, Tanclerio Burone, Vassallo
Cavaronco, Anselmo di Zoagli, cavalieri genovesi, sfidiamo tutti voi a
combattere, uomo contro uomo, fino a tanto ci basti la vita. Del resto,
meglio sarebbe per voi lo arrendervi alle insegne della Croce. Infatti,
a che vi gioverebbe la resistenza? Tutto l'esercito genovese è nelle
mura di Cesarea, e tra poco anche la seconda cinta sarà superata e voi
non otterreste misericordia.
— Arrenditi tu per il primo, cane cristiano, — urlò uno dei Saracini,
facendosi incontro ad Arrigo colla scimitarra levata. — Hai buona la
lingua; vediamo se hai buono il braccio ugualmente.
— Ti sia permesso di vederlo, ma non di ricordartene; — tuonò Arrigo da
Carmandino.
E serratosi addosso al nemico, prima che questi avesse tempo a
cansarsi, con un fendente della sua spada poderosa gli spezzò l'elmo
sul cranio.
Fu quello il segnale della mischia.
— San Giorgio il valente! — gridarono ad una voce i Crociati genovesi.
— Viva San Giorgio! Ammazza i cani infedeli! —
E levata la spada, si fecero avanti animosi, a vender cara la vita.
Arrigo da Carmandino era il primo tra tutti, e primo si slanciò nel
folto della fronte nemica. Rotta la spada, combattè col tronco, ed
anche questo, che più non gli serviva, scaraventò sulla faccia del
primo che ardì farglisi contro, oltre quel mucchio di morti e di feriti
onde il valoroso giovane si era come asserragliata la via. Quindi,
spiccò dal fianco la sua mazza ferrata, e, piantatosi fieramente su
quel cumulo di carne sanguinosa e palpitante, prese a tempestare di
colpi i suoi assalitori. Quanti, adescati dal poco numero dei nemici o
spinti innanzi dai compagni accorrenti, si facevano sotto, tanti egli
ne stendeva a terra, o ne rimandava acciaccati. Più disperato valore
non si era visto mai. E i compagni di Arrigo, Simone Gontardo, Marino
della Volta, Anselmo di Zoagli, animati dall'esempio, combattevano con
pari fortuna al suo fianco.
Tanclerio Burone e Vassallo Cavaronco, facendo testa dall'altra parte,
impedivano che i guardiani della porta, meno numerosi e non ancora ben
raffidati, cogliessero quel pugno di valenti alle spalle. E anch'essi,
sebbene in due soli, fornivano lavoro per dieci.
Da lunga pezza durava quella pugna disuguale, senza che i Saracini
avessero guadagnato un palmo di terreno. E già i loro assalti
riuscivano più lenti, poco piacendo a quella plebe di fantaccini di
morder la polvere sotto i colpi di quei furibondi, che prendevano forza
sovrumana dalla loro medesima disperazione. Ma appunto allora, un nuovo
aiuto venne ai Saracini, che in quella stretta via non potevano trar
d'arco; e fu la rena ardente, fu il bitume infiammato, che incominciò
a piovere dall'alto delle logge circostanti sul capo ai cavalieri
cristiani. Contro quel nuovo assalto non c'era difese nè scampo.
Pararono alla meglio co' palvesi quella pioggia di fuoco; ma anche i
palvesi ardevano, e i combattenti furono costretti a gittarli, restando
scoperti sotto il rovente flagello; involti in un turbine di fiamma e
di fumo, che li acciecava e toglieva loro il respiro.
Anselmo di Zoagli e Marino della Volta caddero i primi; Simone
Gontardo e Vassallo Cavaronco, già investiti dalla liquida fiamma, si
avventarono ai nemici, si strinsero a corpo a corpo con loro e parecchi
ne costrinsero a morire della loro medesima morte.
Arrigo da Carmandino volse gli occhi intorno e vide che non c'era più
nulla a sperare. Anche l'ultimo superstite de' suoi compagni, Tanclerio
Burone, mugghiando come un toro ferito, si scagliava ferocemente
nelle file nemiche, non d'altro desideroso che di uccidere ancora un
Saracino, prima di cadere a sua volta, crivellato di ferite com'era.
Il giovine Arrigo sanguinava anch'egli da molte piaghe per la rotta
armatura, ma ancora non si era avveduto di nulla. L'ardore della pugna
gli avea tolto di sentire lo spasimo. Bene sentì in quella vece che
l'ultima sua ora suonava. Diede un pensiero a Diana, raccomandò la sua
anima a Dio, e strappatosi l'elmo dalla fronte, a capo nudo, colla
spada levata in aria, si calò dal sanguinoso carnaio, si gettò per
morto in mezzo agli urlanti nemici.
L'atto strano colpì di stupore i Saracini. Era egli un eroe, od un
pazzo? Comunque fosse, non avevano agio a sincerarsene, e sdegnati
di vedere un infedele che affrontava così baldanzosamente la morte,
vollero punirlo di una temerità che pareva dispregio, e gli si
strinsero addosso, non udendo la voce di uno tra loro, che doveva esser
il comandante della Schiera, o alcun che di simigliante.
— Non lo uccidete! — gridava egli accorrendo e tentando di farsi strada
in mezzo a loro. — Non lo uccidete! —
Arrigo da Carmandino era già caduto bocconi, per una larga ferita alla
fronte.
— Lo _Sciarif!_ Largo allo _Sciarif!_ — gridavano intanto i Saracini
delle file più lontane dal luogo del combattimento. — Largo al nipote
del Profeta! —
Quelle grida ripetute di fila in fila giunsero finalmente all'orecchio
dei forsennati. Arrigo era caduto boccheggiante nel suo sangue e non
era più il caso d'infellonire contro un morente. Le file si apersero
quantunque a stento, e colui che avevano chiamato col nome di _Sciarif_
(nome che equivaleva a quello di nobile e si dava allora ai discendenti
della famiglia di Maometto), spinse il cavallo fino ai piedi del
giovine crociato genovese.
— Non avete udita la mia voce? — diss'egli corrucciato. — Quest'uomo è
sacro. Allà lo protegge.
— Un infedele! — esclamarono i soldati.
— Dice il libro: o credenti, meditate le opere vostre; non dite mai
del primo che incontrate: costui è un infedele. Dio possiede infiniti
tesori di misericordia; Dio solo conosce i cuori. —
I soldati s'inchinarono alla parola del Profeta, e, obbedendo al cenno
dello _Sciarif_, sollevarono da terra il ferito, con tanta cura e
sollecitudine quanta furia avevano messo ad abbatterlo.
Lo _Sciarif_ era un bel giovanotto, dal viso pallido e scarno, colla
barba intiera e rada, gli occhi infossati e lucenti, tutto vestito di
maglia d'acciaio, su cui era gittato un mantello di lana bianca alla
guisa moresca. Una fascia di zendado verde, ravvolta in giro all'elmo
acuminato dei cavalieri arabi, diceva chiaramente che egli apparteneva
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