Diana degli Embriaci: Storia del XII secolo - 15

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— E sia; — disse Caffaro. — Ci consenti dunque di mandarti il nostro
cartello di sfida?
— No, son io che vi sfido; — tuonò lo _Sciarif_; — ad Antiochia, e
dovunque, son sempre stato io il primo. Là da mezzodì, verso Medina, a
due tratti d'arco fuor delle mura, è un piano che dicono del Sicomòro.
Giuriamo una tregua di quattro giorni, di sei, di otto; insomma, di
tanti giorni quanti saranno i campioni d'Occidente, a cui giovi di
misurarsi con me. Al piano del Sicomòro andrò con cinquanta dei miei
cavalieri; veniteci con altrettanti, e farò di rimandarvi pentiti.
— Bandisci la giostra e terremo l'invito; — disse Caffaro,
infiammandosi alla sua volta. — Ma un giorno ed un scontro basteranno.
— Ti è lecito di sperarlo; — ribattè lo _Sciarif_ con accento
sarcastico. — Io vedrò alla prova il novello cavaliere di San Giovanni;
vedrò se un uomo, il quale ha rinunziato alle gioie dell'amore, potrà
vincerne un altro che per la prima volta le intende.
— Tu puoi deridere un voto, strappato ad Arrigo di Carmandino dal più
giusto dolore. Ma bada, o _Sciarif_; ci sarà sempre dopo di lui chi non
ha rinunziato a nessuna tra le dolci impromesse della vita. Tutto il
fiore dei cavalieri di Genova soccomberà, se fia mestieri, per liberare
madonna Diana.
— La perla dell'Occidente! — esclamò Bahr Ibn, passando improvvisamente
dal furore alla tenerezza. — Così la chiamava Abu Wefa, quando mi gittò
l'incantesimo, che ora mi brucia le carni.
— E sia questo il suo nome; — conchiuse Caffaro di Caschifellone. —
La perla d'Occidente ha da tornare al suo lido. Ho la tua parola, o
_Sciarif_?
— Pel sangue di Fatima, lo giuro. Siate contenti voi di scendere in
lizza, come io sono desideroso di mostrare a quella donna che io valgo
da solo tutti i suoi prodi campioni. —
Caffaro di Caschifellone se ne uscì da Tortosa assai più tranquillo
di quando c'era entrato. Infatti, il nostro amico sapeva due cose:
il rispetto di cui madonna Diana era circondata nella sua stessa
prigionia, e la possibilità di riaverla.
Di quest'ultima cosa non era a dubitarsi. Arrigo era uno dei primi
giostratori della Cristianità; poi, avrebbe dovuto combattere
contro un uomo che egli aveva già vinto in altra occasione, e senza
l'alta lusinga del premio. Infine, dopo Arrigo non c'erano tutti i
migliori di Genova? Non c'era Ugo Embriaco? Non c'era lui, Caffaro di
Caschifellone? Non c'era Pagano della Volta, Ingo Mallone, Ferrario di
Castello, e un centinaio d'altri, schermidori valenti e pronti ad ogni
sbaraglio?
Con questo pensiero in mente, il nostro Caffaro giunse al campo latino.
Tosto gli furono intorno tutti i giovani cavalieri dell'esercito, per
saper da lui le novelle. Ma il giovane, che preludiava così facilmente
a tutte le onorevoli ambascerie di cui fu ricca la sua vita pubblica,
volle anzi tutto recarsi a conferire coi capi; tra i quali, come vi
sarà facile argomentare, avea luogo il Carmandino.
Arrigo fremette di sdegno, udendo del tradimento di Bahr Ibn, chè ben
altro si sarebbe aspettato da lui; ma, data la sua parte alla rabbia,
ringraziò il cielo che Diana non avesse corso pericoli maggiori. Lo
_Sciarif_ era, dopo tutto, uno strumento della Provvidenza. Arrigo non
aveva forse votato la sua persona al servizio di Cristo, perchè Diana
uscisse salva dalle mani degli infedeli? E nella fortunata impresa di
Bahr Ibn contro il capo degli Assassini non era a riconoscersi che il
voto di Arrigo era stato accolto benignamente da Dio?
Avrebbe voluto accettar subito la giostra. Ma, oltre che era stato
risoluto tra Caffaro e Bahr Ibn che questi avrebbe fatto il primo
passo, i comandanti dell'armata pensarono che fosse utile maturare il
consiglio. E si recarono per ciò sulle galere, con cui erano venuti
pur dianzi Pagano della Volta e Mauro di Piazzalunga. Per conferire,
dicevano essi, in numero più ristretto di ottimati. Ma Arrigo non
intendeva nulla di ciò, e Caffaro nemmeno.
Del resto, erano essi i più giovani, e dovevano rassegnarsi a quel
dirizzone dei vecchi, cui pareva il mobile castello di poppa d'una
galera luogo acconcio a più saldi consigli, che non fosse la tenda
capitana, sotto le mura della assediata Tortosa.


CAPITOLO XVIII.
Dove si vede che la posta troppo alta confonde il giuocatore.

La conclusione di quel consiglio, tenuto sulla galera patrona, fu
questa: accettare la tregua profferta e l'invito dello _Sciarif_.
Bahr Ibn mantenne la fede giurata a Caffaro, e quel medesimo giorno un
araldo usciva dalla città assediata, per recare la doppia proposta, che
fu accettata senz'altro.
La mattina seguente, due squadre di artigiani, l'una genovese e l'altra
mussulmana, andavano sul piano del Sicomòro, per metter mano allo
steccato. E i maestri di campo si recavano anche essi sulla faccia del
luogo, per vedere e per misurare il terreno. Pei Genovesi era Mauro di
Piazzalunga; pei Saracini lo stesso emiro di Tortosa.
In un giorno il palco fu rizzato, e chiuso il campo destinato ai
combattenti. Vennero a guardia cinquanta cavalieri dalle due parti,
e fu solennemente giurato di stare ai patti, qualunque fosse l'esito
della disfida.
Arrigo da Carmandino fece nella notte la sua veglia d'armi davanti ad
un altare improvvisato, com'era debito d'un buon cavaliere, e promise
di consacrare alla Vergine le sue armi e quelle del suo avversario, se
mai gli fosse concesso di abbatterlo. Al sorgere dell'alba, consigliato
dall'amico Caffaro, prese qualche ora di riposo: ma, come vi sarà
facile indovinare, non potè chiuder occhio, tanta era in lui l'ansia di
giungere al paragone delle armi.
Il sole era già alto, quando le due schiere mossero verso il piano
del Sicomòro. Nella schiera genovese era il fiore dei cavalieri di
San Lorenzo, tutti giovani baldi, che invidiavano al Carmandino il suo
posto, e che gli sarebbero di grand'animo succeduti nell'arringo, se
a lui fosse stata contraria la sorte. Ma di questo non temeva nessuno.
Forse che non era Arrigo il prode tra i prodi?
Genova aveva inoltre, a testimone del valore dei suoi figli, uno tra
i più alti dignitari della Chiesa, il vescovo Maurizio, legato del
Papa in Terrasanta, quegli che, insieme col patriarca Damberto, aveva
assistito alla espugnazione di Cesarea. Era uno strano impasto di
religioso e di guerriero, il vescovo Maurizio, e, scambio di pastorale,
impugnava la mazza in forma di maglio, arma particolare dei vescovi
e degli abati, che si trovavano in persona nelle battaglie, secondo
l'obbligazione annessa alle loro terre, feudi ed uffici.
Qui sarebbe il caso di ricordare, cogli autori timorati, come fosse
vietato agli uomini di chiesa di portar spada e lancia, per toglier
loro il biasimo di crudeltà, e consentito in quella vece l'uso della
mazza, arme da difesa, e non fatta per uccidere, nè per ferire la
gente. Per altro, se al buon vescovo Maurizio si fosse detta una cosa
simile, egli sarebbe stato il primo a riderne, anche senza aspettare il
riverito parere di Giulio II, che era ancora di là da venire.
I Genovesi erano già al piano del Sicomòro, quando vi giunse l'Emiro,
coi suoi cinquanta Cavalieri e con uno stuolo di donne velate. Perchè
quella novità? Voleva l'Emiro offrire un po' di svago alle sue mogli,
annoiate dalla vita rinchiusa di una città assediata? Od era un
sentimento di cortesia per gli avversarii, che gli consigliava di
dare alla giostra l'ornamento e lo stimolo della bellezza, secondo
la costumanza d'Occidente? Nè l'una cosa, nè l'altra. Quelle donne
erano là per volere dello _Sciarif_. La bella figliuola di Guglielmo
Embriaco non doveva essere il premio del vincitore? Era dunque
naturale che fosse condotta laggiù, spettatrice del combattimento,
che aveva a farla schiava per sempre. Così almeno pensava Bahr Ibn; e
il miglior modo di farle intendere la sua sorte e di consigliarle la
rassegnazione ai voleri del cielo, era quello di farla assistere alla
giostra, e di mostrarle che il suo signore, dopo averla ritolta al capo
degli Assassini, sapeva contenderla in giusta guerra a' suoi medesimi
concittadini e meritarla colla sua prodezza nelle armi.
E la bella Diana, mutata in una veste femminile la tunica crocesegnata
dello scudiero Carmandino, veniva in mezzo a quello stuolo di ancelle,
per andarsi a sedere sul palco, davanti alla lizza; con che cuore,
lascio a voi di pensarlo.
Bianca nel viso come persona morta, soltanto dagli occhi le traluceva
la fede nella giusta causa per cui combattevano i suoi. Alla vista di
Arrigo, che s'avanzava allora sul suo palafreno, mentre un valletto gli
conduceva a fianco il suo destriero di combattimento, e lo scudiero gli
recava la lancia, la bella fanciulla degli Embriaci sentì una stretta
al cuore, la stretta acerba che precede il pericolo, e a cui sfugge
di rado anche il più valoroso degli uomini. Si recò allora una mano
al petto, come per comprimere i battiti violenti del cuore; e la sua
mano sentì la sciarpa che le stringeva la vita. Snodar quella sciarpa e
sventolarla in guisa di saluto al suo campione, al suo fidanzato, fu un
punto solo per lei.
Era tutto ciò che potesse fare quella povera bella. Il braccio le
ricadde inerte sulle ginocchia; la fronte si abbassò; un tremito
convulso la invase; nè per un pezzo vide più altro di ciò che accadeva
davanti ai suoi occhi smarriti.
— Credenti in Dio e seguaci del profeta Gesù, — diceva intanto
il banditore dei Saracini, facendosi in mezzo al campo con tutta
la solennità del suo nobile ufficio, — il mio signore Bahr Ibn,
secondogenito di Abu Temin Maad al Mostanser Billah, il vittorioso
Califfo d'Egitto, che Asraele ha rapito anzi tempo alla gloria
dell'Islam, scende in campo a combattere con quanti cavalieri cristiani
potranno misurarsi seco lui, fino al numero di dodici, quante sono le
costellazioni del firmamento. Chi lo vincerà, avrà in premio la perla
d'Occidente. Voi tutti, nemici suoi, giurate che, quando egli abbia
abbattuto i suoi dodici, a due per giorno, nessuno potrà dire che egli
non meriti di tenere la sua conquista, e nessuno ardirà accusarlo di
avere profittato soltanto della sua grande fortuna. —
— Giuriamo! — rispose Mauro di Piazzalunga per tutti.
Intanto il giovane Arrigo, lucente nell'armi, riceveva la benedizione
del vescovo Maurizio. Il campione di madonna Diana vestiva, secondo
l'uso dei tempi, il giaco di maglia, sorta di corazza intessuta
strettamente di anella, o maglie di ferro. Del medesimo tessuto erano
le maniche e gli schinieri. Una cuffia di ferro sottilissimo gli
difendeva le tempie, donde scendeva una gorgiera anch'essa di maglie,
per proteggere il collo. Sulla cuffia posava l'elmo di acciaio brunito,
sormontato da un grifone colle ali spiegate. Al braccio sinistro del
cavaliere era adattata la rotella di cuoio bollito, con un cerchio di
ferro all'intorno, perchè non fosse troppo agevolmente troncata e fessa
da un colpo di spada.
Fieramente piantato in arcione su d'un destriero morello, tutto
bardato di cuoio, con piastre di ferro, Arrigo da Carmandino avrebbe
potuto essere paragonato a San Giorgio, nell'atto di muovere contro il
dragone.
Bahr Ibn, memore allora più che mai della sua sconfitta sotto le mura
d'Antiochia e desideroso di vendicarla, stava immobile dall'altro lato
del campo. Montava un cavallo bianco, anch'esso bardato di ferro, ma
coperto, a dimostrazione di magnificenza araba, d'un manto di seta
verde, ricamato a fogliami d'argento. Gli luccicava sul capo l'elmo
aguzzo d'acciaio, senza visiera e senz'altro ornamento fuorchè il verde
zendado dei discendenti del Profeta, che era attorcigliato a mo' di
turbante intorno alle tempie. Anch'egli indossava il giaco di maglia,
sottilissimo e saldo lavoro dei fabbri di Damasco; ma l'armatura
si nascondeva sotto un mantello bianco di latte. Al lato manco gli
splendeva la spada ricurva dei Saracini; la mazza ferrata pendeva
dal pomo della sella, per modo che il cavaliere potesse spiccarla ad
ogni occorrenza. In pugno aveva la lancia, il cui calcio posava sul
cosciale, poco sopra al ginocchio.
I maestri di campo erano già al loro posto, di rimpetto al palco delle
donne. Tutto in giro allo steccato si accalcavano i cavalieri dei due
eserciti.
Finalmente gli araldi diedero il segnale convenuto. I due avversarii si
saettarono d'uno sguardo, che significava lo sdegno ond'erano animati
ambedue, in quella che volevano misurare la probabilità dello scontro;
e, dato di sproni nel ventre ai cavalli, si precipitarono a furia l'uno
sull'altro. Fu un momento solenne e terribile per tutti gli spettatori,
al vedere quelle due lunghe antenne spianate, che muovevano l'una verso
l'altra colla rapidità della folgore.
Certo, a parità di forza nel braccio dei cavalieri o di saldezza nelle
gambe dei cavalli, l'uno e l'altro dei combattenti dovevano balzare
fuori di sella.
Ma così non avvenne. Il colpo dello _Sciarif_, sviato dal tronco
dell'asta di Arrigo, andò a vuoto. E l'asta di Arrigo trovata sulla
sua via la rotella di Bahr Ibn, che era tutta d'acciaio levigato, andò
in ischeggie senz'altro. Balenò il cavaliere percosso, piegò tutto sul
manco lato, come presso a cadere; ma le ginocchia erano saldamente
aggrappate ai fianchi del cavallo, e questo, colla intelligenza di
tutti i cavalli arabi, diede un balzo a sinistra, aiutando il suo
signore a cavarsi d'impaccio, mentre il tronco spezzato della lancia di
Arrigo scivolava sulla rotella cedevole dello _Sciarif_.
Tutto ciò avvenne in un batter d'occhio, e i due cavalli volarono
oltre, in mezzo a due nembi di polvere.
Grida confuse, di raccapriccio e di giubilo, salutarono il bel colpo di
Arrigo e la salvezza di Bahr Ibn.
— Alle mazze! alle mazze! — gridarono allora i maestri di campo.
Giunti all'estremità della lizza, i due combattenti gittarono i tronchi
inutili, e, spiccate le mazze dagli arcioni, voltarono i cavalli, per
corrersi addosso con una furia più grande di prima.
Le mazze levate s'incrociarono, rombando nell'aria. Il Carmandino,
destro e forte com'era, aveva meditato il colpo e preso il tempo giusto
per assestare la mazzata sull'elmo del suo nemico. Ma lo _Sciarif_
rammentava come fosse gagliardo il braccio di Arrigo, e già si era
prudentemente coperto il capo colla rotella. Frattanto, sviata un
tratto la mazza percuoteva destramente la cervice del cavallo, e d'un
colpo così forte, che, malgrado il frontale di cuoio, difeso da piastre
di ferro, lo fece stramazzare di botto, in quella che il suo scudo di
acciaio, colpito dalla mazza poderosa di Arrigo, andava in frantumi,
come se fosse stato di vetro.
Questo aveva preveduto il Saracino. Curvando il capo e le spalle sul
collo del suo destriero, e prima che Arrigo potesse raddoppiare il
colpo, gli menò un manrovescio alla visiera, che andò spezzata a sua
volta, come poc'anzi la rotella dello _Sciarif_. E al secondo, aiutando
il fatto che Bahr Ibn si trovava allora più in alto, tenne dietro
un terzo colpo che fiaccò l'ali al grifone del Genovese, e rimbalzò
sull'elmetto.
Sbalordito da quella tempesta, messo in un grave impiccio dalla caduta
del suo cavallo, Arrigo da Carmandino non ebbe più modo a rispondere.
Bahr Ibn si era rialzato sull'arcione, in tutta la sua alterezza, e la
gioia feroce del trionfo gli fiammeggiava dagli occhi. Già stava per
sollevare il braccio e ferire un quarto colpo, che avrebbe vendicato
davvero l'onta del suo duello d'Antiochia allorquando un grido acuto
s'intese. Lo _Sciarif_ volse la faccia al palco delle donne, e vide
Diana che cadeva svenuta, fra le braccia delle ancelle.
Fino a quel punto egli non aveva pensato a Diana. Ma quel grido,
quell'accento supplichevole della bellezza, gli scese nel cuore,
destandovi una corda dimenticata.
— Che dirà essa, se io lo uccido? — pensò. — Non mi basta aver vinto?
E calata la mazza, ad alta voce proseguì:
— Cristiani, udite; concedo la vita ad Arrigo. —
Ciò detto, e mentre uno stuolo di valletti si affrettava ad entrare
nella lizza per sollevare il caduto, lo _Sciarif_ si allontanò maestoso
dalla parte dei suoi.
E accostatosi a Zeid Ebn Assan, così gli disse all'orecchio:
— Va sul palco, a rassicurare la perla d'Occidente. Il suo antico
fidanzato non riceverà altri colpi da me. —
Lo sgomento regnava nelle file cristiane. Si capiva che cagione di
quella sconfitta era stato il colpo fuor delle regole cavalleresche,
dato sulla cervice al destriero. Ma, oltre che poteva essere un
colpo involontario, i ragionamenti più dotti intorno all'accaduto non
potevano fare che ciò che era stato non fosse. E Arrigo, il più destro
schermidore dell'esercito, era caduto, e Bahr Ibn era illeso.
Tornato nel mezzo del campo, lo _Sciarif_ si volse a Mauro di
Piazzalunga e così gli parlò:
— Cristiano, ricordo che Arrigo da Carmandino è stato mio ospite. Io
l'ho raccolto morente in Cesarea e l'ho condotto nel deserto con me.
Il mio Zeid ha medicato le sue ferite e lo ha campato da morte. Se vi
piace, anche una volta il sapiente mio servitore potrà dar l'opera sua
al ferito. —
Il maestro di campo ringraziò, quantunque di mala voglia. Ma che altro
poteva far egli? L'offerta era cortese, e il bisogno di accettarla
era grande. A quei tempi, la scienza aveva patteggiato cogli Arabi, e
Galeno ed Ippocrate non avevano migliori sacerdoti dei Saraceni, dopo
che questi si erano impadroniti d'Alessandria, la città più dotta del
mondo.
Frattanto il caduto era portato via dal campo, fuori dei sensi, e a
tutta prima creduto morto dai suoi. Per ventura, non si trattava che di
uno stordimento, cagionato dal colpo sull'elmetto, e di qualche lieve
ferita al viso, su cui si era spezzata la visiera di ferro. Zeid Ebn
Assan, mandato dallo stesso _Sciarif_ e accolto con segni di grande
onoranza dai capitani genovesi, visitò con ogni diligenza il ferito, e
dichiarò che pericolo di vita non c'era.
Il vecchio Arabo ebbe anzi la fortuna di vedere aprir gli occhi
al suo antico ammalato e di udirne le prime parole, che erano un
ringraziamento ed una interrogazione.
— Mio signore — gli bisbigliò Zeid all'orecchio, — porterò la lieta
novella della tua salvezza alla donna del tuo cuore. —
Gli occhi di Arrigo espressero al Saracino tutta la gratitudine di cui
egli era compreso. Ma il pensiero della prigionia di Diana e del non
aver potuto egli far nulla per lei, tornò, insieme con quelle parole,
alla mente del giovane, che tosto ricadde nel suo abbattimento.
In quel mezzo, i cavalieri di Genova si consigliavano di ciò che
avessero a fare. Caffaro di Caschifellone voleva ad ogni costo entrar
secondo in lizza; ma si opponevano altri, chiedendo a gara di succedere
ad Arrigo. A chetarli, fu proposto di lasciare il giudizio alla sorte;
e già si disponevano a tentare la prova, allorquando si udì lo scalpito
di un cavallo che giungeva a galoppo.
Si volsero incontanente e videro un cavaliere tutto vestito a
gramaglia, su d'un destriero anch'esso bardato di bruno.
— Messeri, — diss'egli, avvicinandosi e rivolgendo la parola ai due
figli di Guglielmo Embriaco, — mi concedete voi di combattere contro
il rapitore di madonna Diana, vostra sorella? Io ve ne prego, ve ne
supplico, per quanto avete di più caro sulla terra.
— E chi siete voi, messere, — disse di rimando Ugo Embriaco, a cui la
visiera calata del nuovo venuto non permetteva di conoscer chi fosse, —
per nutrire la speranza che noi vogliamo concedervi questo onore?
— Son tale, — rispose lo sconosciuto, con voce tremante per la
commozione, — che ha il diritto e l'obbligo di domandare, non già
l'onore, come voi dite, ma la grazia di andar primo al pericolo.
— La grazia; — ripetè Ugo Embriaco, che non afferrava il senso di
quella distinzione.
— Sì, messere. Ma consentite che io non dica di più. Ad uno di voi,
a messer Nicolao, se non vi spiace, dirò tal cosa che lo persuaderà
certamente di farsi mallevadore per me. —
La novità del caso avea tolto la parola a tutti gli astanti. Ugo si
volse al fratello, che era il maggiore dei due, come per lasciargli la
cura di cavarsi d'impiccio, o il carico di prendere una deliberazione
in proposito. Messer Nicolao si fece avanti, senza aprir bocca, e
avvicinatosi allo sconosciuto, stette ad udire il secreto, che quegli
voleva confidare a lui solo.
Alle prime parole del nero cavaliere, il primogenito di Guglielmo
Embriaco fece un gesto di meraviglia; ma tosto si ricompose, in atto di
severo ascoltatore. Le ragioni dello sconosciuto dovevano essere molto
incalzanti, o molto ben disposto Nicolao ad accoglierle, perchè, dopo
alcuni istanti di colloquio, questi andò verso il fratello Ugo e gli
disse:
— Io penso che dobbiamo lasciare entrar primo in lizza costui.
— Ma lo conosci tu? — chiese Ugo, stupito della pronta condiscendenza
del fratello.
— Mi pare; — rispose quell'altro.
— Pare anche a me d'indovinarlo, — riprese Ugo. — E se io non
m'ingannassi...
— Dovreste ammettere, fratello mio, — interruppe messer Nicolao con
accento tra malinconico e severo, — o la prova dell'innocenza, o la
giustizia di Dio.
Ugo Embriaco non aggiunse parola.
— Ma forse v'ingannate, — continuò Nicolao. — Ed ora, messeri, lasciate
passare il cavaliere innominato. Io lo conosco e sto mallevadore per
lui.
— Grazie! — mormorò lo sconosciuto, chinando la fronte sul collo del
suo destriero, come se non gli paresse bastante la visiera dell'elmo a
nascondere la sua commozione.
Gli araldi cristiani diedero una seconda volta nelle trombe in segno di
sfida, e al loro squillo risposero tosto dall'altra parte le trombe dei
Saracini.
Bahr Ibn fu sollecito a ritornare nello steccato, con una nuova rotella
al braccio e una nuova lancia nel pugno.
Egli guatava frattanto quell'altro avversario che gli era opposto dal
campo cristiano.
— È nero dal capo alle piante come Azraele! — dicevano i suoi cavalieri
intorno a lui.
— Ben venga l'angelo della morte! — gridò lo _Sciarif_. — Egli mi avrà
liberato da un peso assai grave. Ma temo, — soggiunse, con un accento
tra minaccioso e triste, — che non sarà neppur lui il padrone della mia
vita. —
I maestri di campo si fecero innanzi per adempiere al loro uffizio e
stabilire le condizioni dello scontro, o, a dire più veramente, per
farle conoscere al nuovo venuto, poichè erano le stesse dello scontro
antecedente, e Bahr Ibn non aveva ad udirle più oltre.
Come ebbero finito, un gran silenzio si fece per tutto il campo.
L'ansietà si dipingeva in varie guise su tutti quei volti abbronzati,
ma tra i Cristiani più viva, più profonda, che non tra i Saracini.
Questi conoscevano già alla prova il loro campione, quegli altri non
sapevano neppure il nome di colui che era venuto così d'improvviso a
vendicar l'onta della loro prima sconfitta. Chi era costui? Non poteva
anche essere un temerario, che troppo presumesse di sè? E non dovevano
per avventura prepararsi ad un nuovo scorno, tanto più probabile, in
quanto che tutti conoscevano la somma valentia di colui che era stato
vinto dallo _Sciarif_ e altro vantaggio non potevano sperare che da un
capriccio di fortuna?
A Caffaro non diè neppur l'animo di assistere al combattimento.
— È una perdita di tempo; — diceva egli a Ferrario di Castello. — E ciò
senza contare che questo cavaliere sconosciuto mi torna di mal augurio
per gli altri che la sorte chiamerà a succedergli. —
Finalmente, fu dato il segnale. I due campioni erano liberi di andarsi
contro l'un l'altro.
Stettero un tratto a guardarsi. Poi lo _Sciarif_ volse gli occhi al
palco su cui stavano le donne. Diana era al suo posto, ed appariva più
calma. Zeid Ebn Assan stava ritto al suo fianco, e certo le avea recato
nuove di Arrigo.
— Per Allah! — disse il forte guerriero tra sè. — Questa volta io non
la farò piangere. Chiunque abbia a cadere di noi due, non si tratterà
più di vedere in pericolo il suo fidanzato. —
Diede, ciò detto, un'ultima occhiata al suo avversario, e lo vide
pronto a partire. Spianò la sua lancia, ne fermò il calcio tra l'òmero
e il petto, e lanciò il suo cavallo a carriera.
Il generoso animale sentì l'impulso delle ferree ginocchia, e, caldo
ancora del primo incontro, andò veloce come uno strale verso il mezzo
del campo.
Chi non sa come il cavallo partecipi alle nostre passioni, alle ire,
ai desiderii, agli impeti nostri? Il nobile amico dell'uomo si sente
amato e riama, dando la gagliardia dei suoi tendini, l'ardore della sua
indole al cavaliere, diventando come una moltiplicazione della forza di
lui, mettendo un'altra volontà, un'altra vita, a servizio della sua.
Così Antar, il cavallo prediletto di Bahr Ibn, volava feroce allo
scontro.
Anche l'avversario era ben provveduto. Ma il cavaliere riusciva nuovo
al cavallo, che riconosceva in lui un padrone, e non sentiva un amico.
Però, all'urto delle due lancie, il cavallo bardato di nero inalberò, e
il cavaliere, perduto l'equilibrio, spinto da una forza irresistibile,
fu balzato di sella.
Che era egli avvenuto?
Lo _Sciarif_ quella volta aveva mirato più basso di prima. Non
voleva che gli fosse sviato il colpo, come già gli era occorso col
suo primo avversario. A mezzo il cammino che doveva percorrere, si
era curvato quanto più poteva sull'arcione, badando a coprire colla
rotella il breve spazio che intercedeva tra il suo petto e il collo di
Antar. L'asta del cavaliere innominato urtò sull'elmetto, e scivolò,
stracciando la verde fascia dei discendenti del Profeta. Quella di Bahr
Ibn entrò fra lo scudo del nemico e l'arcione, trovando il giaco del
cavaliere, là dove finisce il costato. La maglia, colta in pieno dal
ferro di Bahr Ibn, non resistette, così violento fu l'urto. L'asta in
quella vece si ruppe, ma il tronco rimase nella ferita.
Mandò un gemito il disgraziato, e cadde riverso a terra. Lo _Sciarif_,
fornita la sua corsa fino alla estremità della lizza, tornò indietro
a briglia sciolta, balzò da cavallo colla rapidità della tigre, e,
sguainata la spada, volle dare il colpo di grazia, cercando colla punta
l'allacciatura dell'elmo.
— Ferma — gridarono i maestri di campo, accorrendo solleciti.
— Perchè? — gridò lo _Sciarif_. — Non è questo il mio dritto?
— Sì; — disse Mauro di Piazzalunga; — ma tu colpisci un morto. —
E mostrò a Bahr Ibn il petto squarciato del suo avversario. Il tronco
della lancia palpitava nella ferita, e il sangue gorgogliava nerastro
intorno alle anella spezzate della maglia d'acciaio.
Bahr Ibn si arrestò e rimise la spada nel fodero.
Intanto erano accorsi i valletti, e insieme con essi il vecchio
Zeid, per offrire l'opera sua, quantunque, a giudicarne dalla prima
apparenza, la vedesse inutile affatto.
Slacciarono l'elmo e tolsero la cervelliera al ferito. La morte
gli stava nel viso. Ma anche tra i lividori ond'era cosparso e le
contrazioni cagionate dallo spasimo atroce dell'ultim'ora, fu agevole
a tutti di riconoscerlo. Bahr Ibn diede in un grido di stupore e di
raccapriccio.
— Gandolfo! — esclamò.
Indi, volgendosi al palco delle donne, soggiunse:
— Perla dell'Occidente, son io che ti vendico!
— Ah, l'avevo pure indovinato! — disse Ugo Embriaco, volgendosi al
fratello.
— Orbene? — replicò Nicolao. — Che cosa vi dicevo io? O la prova
dell'innocenza, o la giustizia di Dio. Passi la giustizia di Dio:
— aggiunse con una voce piena di tristezza, il primogenito degli
Embriaci: — e gli uomini si dispongono a perdonare. —
Ciò detto, senza che Ugo ardisse rispondere altro in quel momento
solenne, messer Nicolao si avvicinò al suo vecchio amico, la cui vista
cominciava ad offuscarsi, mentre le braccia annaspavano, come cercando
di aggrapparsi a qualche cosa che lo trattenesse un istante sull'orlo
della tomba.
— Povero Gandolfo! — mormorò Nicolao. — Potessi tu almeno morire in
pace colla tua coscienza!
— Ho tradito... — balbettava il morente, — ho tradito, sì... ma ho
pure, espiato!... _Sciarif_, rendi la fanciulla.... o morrai....
Quest'oggi morrai.... — incalzò, facendo uno sforzo supremo, per
compier la frase, — quest'oggi, come muoio io.
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