Diana degli Embriaci: Storia del XII secolo - 16

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— Pensa a te, bugiardo profeta! — gridò lo _Sciarif_, inasprito da
quella minaccia del moribondo. — Salva te stesso, se puoi.
— L'anima... l'anima vorrei salva... — rispose Gandolfo — E il perdono
dei miei... il perdono di madonna.... —
Voleva aggiungere Diana; ma il sangue incominciava a flottargli dalla
bocca e non gli consentiva altre parole.
Mauro di Piazzalunga si volse al palco delle donne, e ad alta voce
espresse il desiderio del morente.
— Madonna Diana, — gridò, — Gandolfo del Moro chiede il vostro perdono.
Concedetelo, e sia per lui l'impromessa del perdono di Dio. —
La fanciulla degli Embriaci esitò un istante, ma più pel turbamento
ond'era stata colta da quella sequela di casi, che non per titubanza a
concedere. Indi, mormorato un sì, e temendo che la sua voce, soffocata
dalle lagrime, non potesse giungere al moribondo, slacciò la fascia che
le stringeva la vita e la gettò a Mauro di Piazzalunga.
Lo _Sciarif_ guardava e taceva. Ma fremette, nel profondo del cuore,
al vedere quell'atto. Avrebbe cangiato volentieri di posto con Gandolfo
del Moro, per ottenere quel segno di perdono da lei.
— Madonna si raccomanda alle vostre preghiere lassù, e vi manda la
sua sciarpa: — disse Mauro di Piazzalunga, parlando amorevolmente
all'orecchio di Gandolfo. — I suoi fratelli e tutti i vostri
concittadini vi hanno perdonato del pari. —
Gandolfo fece uno sforzo per riaprir gli occhi e vedere il dono della
fanciulla. Ma non ne venne a capo, e allora si strinse la ciarpa alle
labbra.
— A lei... il pensiero; — mormorò; — l'anima a Dio... se vorrà
perdonarmi.
— Pregatelo, mio figlio; — egli è il Dio delle misericordie! — disse il
vescovo Maurizio, facendo il segno della croce sulla fronte a Gandolfo.
Il disgraziato non rispose più verbo. Tentò bensì di aprire la bocca
per balbettare una preghiera. Ma un altro botto di sangue uscì dalle
fauci, e Gandolfo del Moro aveva cessato di vivere.


CAPITOLO XIX.
Che potrebbe intitolarsi il principio della fine.

A tutta quella vicenda di casi e di mestizie assisteva in disparte
un cavaliere, muto, immobile e solo, che si sarebbe potuto credere un
simulacro di guerriero, come quelli che decoravano le sale d'armi delle
antiche castella, se tratto tratto non lo si fosse veduto muovere il
capo, ora per guardare nel palco delle donne, ora per seguire degli
occhi le fasi della giostra.
Nessuno dei cavalieri cristiani si era avvicinato a lui per rivolgergli
la parola, nè egli aveva mostrato mai di volersi frammettere nei
discorsi degli altri. Pareva che niente lo commovesse, di quanto
accadeva sotto i suoi occhi. Alto della persona, poderoso di membra,
tutto chiuso nella sua armatura, ravvolto in un mantello bianco, che
era segnato sull'òmero da una croce vermiglia, lo si poteva riconoscere
a tutta prima per un cavaliere d'alto grido, ma senza altrimenti
poterne ripetere il nome. Infatti, egli era andato e rimaneva là, fin
dal principio della giostra, colla visiera calata, lasciando immaginare
ai più curiosi che si trattasse d'un voto.
In que' tempi, simiglianti stranezze non erano rare. Un cavaliere
giurava di rimanere per un certo numero d'anni coll'occhio destro
bendato, e non ardiva sciogliersi di per sè stesso dal voto, neanche
dopo aver perduto in guerra il sinistro.
Il cavaliere sconosciuto non si scosse neppure alla scena dolorosa
della morte di Gandolfo del Moro, nè quando il cadavere fu trasportato
fuori del campo. Le braccia incrociate sul petto, il mento chino
sulla gorgiera, dinotavano che il cavaliere se ne stava assorto in una
profonda meditazione, o che sapeva padroneggiarsi in tal guisa, da non
lasciare intendere ad altri qual senso facessero sull'animo suo le cose
che accadevano a pochi passi lontano.
La pugna per quel giorno poteva dirsi finita, giusta le condizioni
poste dallo _Sciarif_. E già i due maestri di campo erano per darsi
commiato e prender ora pel giorno seguente.
Ma il vincitore appariva poco desideroso di tornarsene in città. Era
profondamente crucciato; le ultime parole di Gandolfo del Moro gli
stavano ancora sull'anima.
Tutto ad un tratto scosse fieramente la testa, come uomo che abbia
presa una risoluzione subitanea, e si avanzò nel mezzo del campo.
— Cristiani, udite; — gridò egli allora. — Il vostro profeta di
sciagure mi ha pronosticato la morte per questo medesimo giorno. Se
esco dalla lizza, direte che lo _Sciarif_ è stato colto dalla paura.
E poi, se è vero che la mia ultim'ora sia giunta, non sarà meglio il
morir qui, della morte del guerriero, che per via, o entro le mura di
Tortosa, per un malore improvviso e volgare? Rimarrò dunque, per altri
due scontri, se vi dà l'animo di tentare la prova, e vedrò subito qual
fede meritasse l'augurio. Son fresco ancora di forze; le mie membra
non hanno toccato una di quelle graffiature che pure si hanno così
facilmente da una mano di donna. A voi dunque, poichè siete uomini; non
rimandate il pericolo a domani; io son pronto. —
Le acerbe parole punsero i cavalieri cristiani, a cui bastava assai
meno, per uscire da quella inerzia apparente. Invero, nessuno di que'
baldi giovani si era attentato di proporre la continuazione della
giostra, perchè lo _Sciarif_ aveva detto fin da principio di non
volere che due campioni al giorno. Ma poichè egli rompeva la sua legge,
balzarono tutti verso lo steccato, gridando di esser pronti del pari; e
Caffaro di Caschifellone tra i primi.
— Oramai, — diss'egli, — nessuno vorrà contendere il primo luogo
all'amico e al compagno di Arrigo da Carmandino.
— Io ve lo contendo, messere; — gridò Nicolao. — Se voi siete l'amico
di Arrigo, io sono il fratello di madonna Diana, per cui si combatte
quest'oggi. Neanche Ugo mio fratello potrebbe passarmi innanzi, perchè,
se egli è il primo capitano dell'armata, io sono (io, m'intendete?) il
primogenito degli Embriaci.
— È giusto! è giusto! — gridarono tutti. — Il primo luogo a messer
Nicolao! —
Al giovine signore di Caschifellone dispiaceva quel consenso
universale. Già due campioni erano stati abbattuti dal Saracino. Il
terzo, poi, non aveva di grande che il nome, e Caffaro temeva a ragione
di vedergli fare, per sua imperizia, la fine che avevano fatto i primi
due, uno per capriccio di fortuna e l'altro in espiazione de' suoi
falli. Comunque fosse, una terza sconfitta in quel giorno sarebbe
stata troppo dolorosa, e avrebbe nociuto grandemente al buon nome
dei cavalieri di Genova. Perciò doleva a Caffaro di vedere come tutti
s'inchinassero al volere di messer Nicolao, ed egli tentò ancora una
volta di smuoverlo.
— Sia pure come voi dite; — replicò. — Ma perchè non vorreste
concedermi in grazia ciò che sarebbe l'orgoglio di tutta la mia vita?
Pensate, messer Nicolao, che i capitani non debbono avventurarsi in
ogni maniera d'imprese, che il loro senno e il loro valore sono sacri
alla salvezza di tutti....
— Perchè dite voi ciò? — chiese una voce alle spalle di Caffaro.
Era la voce del cavaliere sconosciuto, che credeva finalmente opportuno
di rompere il silenzio.
— Sappiate, messere, — proseguì egli, — che i capitani debbono saper
comandare, ma altresì combattere all'uopo, come l'ultimo dei loro
uomini d'arme. —
Caffaro voleva rispondere. Ma gli parve di conoscere quella voce e
rimase perplesso.
— Del resto, — riprese lo sconosciuto, — messer Nicolao non entrerà in
lizza contro il Saracino. E di ciò spero sarete contento. Antiochia, il
mio cavallo! —
Le ultime parole erano rivolte ad un vecchio scudiero, che pareva le
aspettasse, poichè egli fu d'un balzo fuor della cerchia degli astanti,
e tornò poco dopo, conducendo un destriero fieramente bardato di maglia
e munito d'un ampio frontale d'acciaio.
I cavalieri, che erano pur dianzi così pronti a contendersi l'onore di
scendere in lizza, guardarono stupefatti quell'uomo, che si prendeva il
primo luogo senza pure domandarlo; indi si volsero a messer Nicolao, e
rimasero sbalorditi senz'altro, vedendo com'egli non tentasse neanche
di resistere.
— Chi sarà mai?
— Uno dei nostri non è.
— Son tutti a visiera alzata, i nostri campioni; e costui, nelle membra
e nella voce, non somiglia ad alcuno.
— E perchè mo' gli lasciano il campo libero?
— Certo, è un campione disceso dal cielo.
— L'arcangelo San Michele!
— O San Giorgio il valente.
— San Giorgio, di sicuro. Vedete come impugna la lancia! —
E il grido corse rapidamente tra le file. Quel cavaliere non era, non
poteva essere altri che il glorioso barone San Giorgio. Del resto, una
certa somiglianza c'era, tra lo sconosciuto e San Giorgio. Il forte
guerriero di Cappadocia non aveva corso anche lui la sua lancia, per
liberare una povera principessa dalle ugne del drago?
Era quello il tempo dei miracoli, non lo dimentichiamo. Pochi anni
addietro, Sant'Andrea era apparso tre volte ad un prete di Marsiglia,
per annunziargli che in una chiesa d'Antiochia si sarebbe rinvenuta
la santa lancia, quella appunto che aveva trafitto il costato di Gesù
Cristo in croce. E qualche giorno dopo l'invenzione della Santa Lancia,
uscendo i Crociati a battaglia, non avevano avuto il soccorso di tre
cavalieri vestiti di bianco, che il legato pontificio, uomo a cui si
poteva credere senz'altro, affermò essere San Giorgio, San Teodoro e
San Maurizio in persona? E in Gerusalemme, nella cappella del Santo
Sepolcro, non si ripeteva forse ogni anno il miracolo delle lampade,
che si accendevano senza mestieri d'aiuto?
Per altro, se la pia moltitudine dei Crociati credeva ai miracoli,
non ci avea fede Bahr Ibn. Egli era in questo un vero discendente di
Maometto, che di miracoli ne avea fatto uno abbastanza istruttivo;
quello, io vo' dire, di andare alla montagna, poichè la montagna non
volea muoversi per andare a lui.
Ora, come ebbe veduto entrare in lizza quel nuovo guerriero, lo
_Sciarif_ non seppe trattenersi dal dire:
— È dunque mia sorte di combattere cogli sconosciuti? Il tuo nome, se
puoi confessarlo!
— Il mio nome! — esclamò il cavaliere misterioso. — Esso è scritto
sulla punta della mia spada. —
A quella fiera risposta Bahr Ibn diede in un ghigno sarcastico.
— Poco fortunate, le vostre spade, o cristiani! Oggi non hanno avuto
neppure il tempo di uscire dal fodero.
— Non t'inorgoglire per questo! La fortuna ti ha concesso il suo
primo sorriso. Il cielo ti ha dato di uccidere il secondo dei
tuoi avversarii, perchè.... così doveva accadere; — soggiunse con
pietosa reticenza lo sconosciuto. — Ma Iddio non è già sceso a patti
cogl'infedeli, ed io ti consiglio d'implorarne la misericordia nella
tua ultima ora.
— Non temo la morte; — gridò esacerbato lo _Sciarif_. — Ma non
foss'altro, per provarti che menti.... —
E senza finir la frase, voltò il cavallo per prender campo, e tornare a
briglia sciolta sull'avversario.
Il cavaliere sconosciuto rimase immobile al suo posto; ma appena vide
che Bahr Ibn, compiuto il suo tratto di cammino, si rimetteva alla
corsa contro di lui, diè di sproni nei fianchi al cavallo, e corse
colla lancia spianata, alla volta del nemico.
E qui va notato un fatto, che dimostra come lo sconosciuto facesse
a fidanza colla gagliardìa dei suoi muscoli d'acciaio. Scambio di
stringere il tronco della lancia tra il braccio e il costato, come
portava la consuetudine, prima che fosse inventata la resta da
trattener l'arma sulla corazza, egli ne piantò finalmente il calcio tra
il petto e i muscoli tesi dell'òmero, che erano così stretti al costato
da formare il più saldo degli ostacoli, guadagnando per tal modo la
lunghezza d'un cubito. Ora, perchè il colpo non gli andasse sviato al
primo intoppo, non occorreva soltanto che il petto fosse gagliardo, ma
altresì che il pugno avesse la tenacità inflessibile del bronzo.
E così era di fatti. I due focosi destrieri si toccavano appena, e già
l'asta dello sconosciuto coglieva Bahr Ibn sotto la gorgiera, mentre
l'antenna di quest'ultimo balenava senza far colpo davanti alla rotella
del suo avversario.
Non valse al generoso Antar di tentare uno dei suoi salti di fianco.
La lancia del cavaliere misterioso non era costretta a seguire una
linea immutabile. Il calcio faceva pernio in un punto solo, e il pugno
poderoso che la tenea salda, poteva aiutarla a seguire i movimenti
del nemico, mantenendone la punta sul petto di lui. Liberare il suo
signore non era dunque possibile; e Antar s'impennò, sbuffando, sotto
la spinta gagliarda. Lo _Sciarif_ si strinse colle ginocchia ai fianchi
del destriere; lasciò cadere la lancia e le redini; cercò la sua
mazza all'arcione, ma non ne venne a capo, respinto com'era da quella
terribile antenna. Provò allora ad arrovesciarsi sulla groppa per
scivolargli da un lato, come i cavalieri della sua nazione, quando si
piegano col petto in fuori per raccogliere un anello, od altro premio
della corsa, che sia posato a terra, mentre il cavallo prosegue la
via. Ma l'asta del nemico incalzava; il cavallo era impennato; e lo
_Sciarif_ cadde miseramente d'arcione.
Se la gorgiera di Bahr Ibn non fosse stata di buona tempra, quel colpo
di lancia lo avrebbe certamente finito.
Un grido di giubilo si levò allora nel campo crocesegnato. Finalmente,
il cielo veniva in soccorso dei suoi.
— Potrei ucciderti; — gridò lo sconosciuto. — Amo meglio averti
prigione. Arrenditi! —
Bahr Ibn si rialzava allora da terra, dopo aver liberato destramente il
piè dalla staffa.
— Perchè? — gridò egli, furente dalla patita vergogna. — Se tu mi togli
la perla dell'Occidente, a che mi serbi la vita? Difenditi, guerriero,
e non mi fare il mercante! Se la tua lancia ha guadagnato una misura
sulla mia, questa spada ragguaglierà le distanze. —
Così dicendo, lo _Sciarif_ corse al cavallo, che si era fermato pochi
passi più oltre, levò dall'arcione la spada, e si piantò fieramente in
attesa.
Il cavaliere sconosciuto non disse parola. Balzò di sella, diè di
piglio alla poderosa sua lama e andò verso il nemico, che voleva ad
ogni costo proseguire la pugna.
Non è da creder qui che le spade d'allora fossero quali ce le
rappresenta l'arte del Quattrocento e dei secoli posteriori, cioè a
dire pugnali allungati alla misura di spiedi. Anche pesanti per le
nostre braccia disavvezze, quando ci proviamo a trattarne qualche
rugginoso esemplare, queste spade non potevano paragonarsi alle
antiche, nè pel loro peso, nè per la larghezza della lama, nè pel
modo di usarle. Fu solamente dopo la metà del secolo decimoterzo che
gl'italiani incominciarono a seguire la nuova usanza dei Francesi,
dimenticando gli antichi spadoni a due tagli, per servirsi delle spade
da punta, più sottili e più maneggevoli a gran pezza. Le vecchie
spade, le spade di Orlando, di Oliviero, e di Uggero il Danese,
pesavano intorno a cinque libbre; la lama era lunga almeno un metro, si
allargava nel forte fino ad otto centimetri, nel debole si restringeva
a quattro. Così larghe e pesanti, dovevano tagliare assai meglio che
pungere. Tali erano Fusberta, Durindana, Gioiosa, e tutte le altre
spade gloriose dei quattro secoli intorno al Mille; veramente temperate
con arte magica, poichè dovevano fendere le armature, e far servizio di
ore, di giorni intieri, in mano ai loro possessori. E in quell'arte i
maghi più esperti di Sorìa potevano trovarsi a Damasco; quelli d'Italia
a Milano.
I due campioni si posero in guardia; lo sconosciuto colla punta in
alto, pronto a calare un fendente appena si muovesse quell'altro; Bahr
Ibn colla lama poco distante da terra, colla persona a mezzo curvata,
per tenersi pronto del pari a ferire e a cansarsi.
Era evidente che lo _Sciarif_, notata la corporatura straordinaria del
suo avversario, mirava a sfuggirgli, e lasciarlo ruzzolar dietro ad
un colpo che gli andasse a vuoto, per coglierlo di fianco e scegliere
il punto in cui potesse più sicuramente ferirlo. Ma il cavaliere
sconosciuto mostrò fin dai primi colpi di non voler essere ingannato
che a mezzo. Infatti, calò il suo fendente, ma fiacco, e quasi nel solo
intento di palpare davanti a sè, come uomo che brancoli nel buio. Lo
_Sciarif_ spiccò un salto e gli fu rapidamente sulla destra. Ma l'altro
non si era punto squilibrato, e il suo fendente, rimasto a mezz'aria,
non ebbe che a mutarsi in manrovescio, per far capire al Saracino che
certe malizie erano fuori di luogo. E perchè la lezione si stampasse
meglio nella testa d'uno scolaro, quel manrovescio diè così forte sulla
visiera dell'elmo, che la ruppe senz'altro.
Fremette di rabbia lo _Sciarif_, e, senza badare al sangue che
gli grondava dalla guancia percossa, si avventò allo sconosciuto,
menandogli un colpo a tutta forza sul capo. Ma non trovò che l'òmero
del nemico, perchè questi si era cansato in quel punto, e la lama, dopo
aver rotta la maglia, rimbalzò lungo dal corpo, sospinta da un moto
repentino del ferito.
La fretta, la bramosìa furibonda di render sangue per sangue,
aveva tradito Bahr Ibn. Prima che egli avesse rialzato la lama per
raddoppiare il colpo, quell'altro aveva colla manca afferrato la
sua spada a mo' di croce sotto gli elsi, e spingendosi sotto misura
colla rapidità della folgore, dava del capo a mezzo il petto del suo
avversario.
Un masso scagliato da una catapulta non avrebbe fatto rovina maggiore.
Lo _Sciarif_ balenò un tratto sulle ginocchia, annaspò colle braccia;
lasciò cadere la spada, e andò ruzzoloni sul terreno.
A quel colpo maestro, i Cristiani riconobbero il loro campione.
— Tosta di maglio! — gridarono. — È il glorioso Testa di maglio! —
I lettori rammentano certamente, non per merito mio, ma per l'altezza
del personaggio, quello che di Guglielmo Embriaco ho raccontato in
principio. Nella presa di Gerusalemme il forte uomo aveva rotto in
simil guisa l'ostacolo che opponeva al suo passaggio un manipolo
di Saracini; e il soprannome di Testa di maglio aveva consacrato
l'impresa.
Immaginate l'allegrezza di tutti quei cavalieri, quando credettero di
aver conosciuto l'eroe. Immaginate quella di madonna Diana, al cui
pensiero già era balenato il dubbio che quel cavaliere sconosciuto
potesse essere il padre suo, poichè egli lo ricordava tanto nella
voce e negli atti. Il dubbio, ho detto, e non altro. Infatti, come
poteva egli trovarsi laggiù, davanti a Tortosa? Ella non sapeva già
che Arrigo da Carmandino e Caffaro di Caschifellone, tornati appena
dalla trista spedizione di Gaza, avevano spiccato una galera sottile
dell'armata di Tortosa, per mandare incontanente a Guglielmo Embriaco
l'annunzio di ciò che era avvenuto alle strette di Cades. Non sapeva
già, che, un mese dopo l'invio, erano capitate nelle acque di Tortosa
altre otto galere genovesi, comandate da Mauro di Piazzalunga e da
Pagano della Volta, e che quando lo _Sciarif_ ebbe bandita la giostra
di cui essa doveva essere il premio, i comandanti dell'armata genovese
non avevano accettato l'invito, se non dopo un consiglio tenuto sulla
galera padrona, consiglio segreto, a cui erano stati ammessi soltanto
i più vecchi, gli uomini consolari della spedizione, e che era parso
misterioso più del bisogno a Caffaro e ad Arrigo.
Udite le tristi nuove di Soria, messer Guglielmo non aveva posto tempo
in mezzo, e, con tutte le navi che erano allestite nel porto, si era
messo alla via per lo stretto di Messina, donde a golfo lanciato aveva
fatto cammino per alla volta di Rodi e Tortosa. Non era sicuro di
salvare la sua bella figliuola; ma aveva giurato di vendicarla.
Ma torniamo al racconto, che, per questi cenni necessarii, abbiamo
dovuto interrompere.
— Sì, Testa di maglio! — gridò lo scudiero, che poc'anzi aveva risposto
al nome d'Antiochia, e che era per l'appunto il nostro Anselmo, il
vecchio arcadore, il servo prediletto di madonna Diana. — Testa di
maglio, castigo dei miscredenti e dei rapitori di donne! —
Nuove grida risposero alle parole del vecchio Anselmo. Quel terribile
cavaliere che ristorava le sorti della giostra e il buon nome
delle armi genovesi, era proprio messer Guglielmo, il vincitore di
Gerusalemme e di Cesarea, il console del Comune di Genova.
Intanto l'Embriaco era corso addosso all'avversario, per mettergli il
ferro alla gola. Si trattenne, per altro, vedendo che lo _Sciarif_ non
faceva atto di resistenza, e chiamò i valletti, perchè andassero in
aiuto del vinto.
Slacciato l'elmetto, si vide lo sfregio alla guancia; ma questo non era
grave, e il sangue che inondava la faccia di Bahr Ibn non doveva esser
sgorgato in copia così grande da una così lieve ferita. Zeid Ebn Assan,
che era accorso a sua volta, vide pur troppo donde venisse quel sangue.
Le labbra del ferito ne erano tutte imbrattate, e ad ogni tanto ne
davano fuori, minacciando di soffocarlo.
— Mio signore! — gridò il vecchio Zeid, con voce lagrimosa. — Mio dolce
signore! —
E così dicendo, si fece con amorosa cura a sollevare da terra il
caduto. Tra lui e i valletti, ne vennero a capo, e l'infelice Bahr Ibn
potè finalmente trarre il respiro.
— Aveva ragione il profeta! — mormorò lo _Sciarif_. — Sono un uomo
spacciato.
— Perchè dici tu questo? Vivrai, gloria dell'Islam; la mano
dell'onnipotente è ancora distesa su te.
— No, mio Zeid, mi sento morire. Non vedi? — E accennava il sangue che
gli fiottava dalla bocca. — Ho il petto infranto, e le menzogne pietose
non giovano. —
Zeid Ebn Assan diede in uno scoppio di pianto. Egli bene intendeva come
ogni speranza fosse perduta oramai.
— Non piangerei — riprese Bahr Ibn. — Così era scritto lassù. E a me
non duole il morire... purchè non mi maledica Diana....
— Essa ti compiange, mio signore! — rispose il vecchio, che aveva
veduto la fanciulla degli Embriaci discendere dal palco, e gettarsi
nelle braccia del padre, poco lunge da loro. — Il cuore della bionda
cristiana è buono, e sa perdonare le colpe d'amore. Ah perchè doveva
il destino colpir noi in tal guisa, e privarci di te, quando ne era più
grande il bisogno?
— Meglio così — disse Bahr Ibn. — È la morte del guerriero, e niente è
più bello... del morir giovani... quando non si spera più nulla dagli
angeli della vita. Ditemi... — soggiunse, dopo aver fatto uno sforzo,
per rattenere lo sgorgo del sangue dalle fauci; — vive Arrigo? Potrà
risanare?
— Si, mio signore. Non gli hai tu accordato generosamente la vita?
— Ah, sono felice di averlo fatto! A lui il mio buon destriero....
datelo a lui il mio fedele Antar! Pregatelo di non odiare la memoria
di Bahr Ibn. Era destino che io gli fossi rivale. Chi aveva veduto la
perla di Occidente, doveva possederla... o morire. —
Furono le ultime parole di Bahr Ibn, il Fatimita secondogenito
dell'estinto califfo del Cairo, o del soldano di Babilonia, come
dicevano allora i Cristiani.
Certo, il giovine e valoroso _Sciarif_ meritava una sorte migliore.
In quell'indole fiera l'amore aveva destato un incendio, e nell'impeto
delle sue vampe gagliarde si era offuscata la ragione. Ma pensiamo, a
sua scusa, che era un figlio del suo tempo e della sua nazione, ancor
barbara a mezzo, e non dimentichiamo neppure che, giusta il sentimento
del vecchio Zeid, le colpe d'amore meritano più facilmente d'ogni altra
il perdono dei cuori gentili.
La fanciulla degli Embriaci, campata finalmente da tanti pericoli,
sentì di non odiare Bahr Ibn, che l'aveva salvata dal più tristo
dei suoi persecutori, e nel candore della sua coscienza pregò pace
all'anima dello _Sciarif_, non ricordando neppure essere egli un
infedele, morto lontano da ogni via di salvezza.
Badate, egli non è per sentenza mia che vi parlo così. Tento di
conciliare la cosa colle idee del tempo di cui vi ho narrato. Quanto a
me, ricordo di aver letto nelle epistole di un padre della Chiesa, non
doversi in questa delicata materia giudicare a occhio e croce. «Che ne
sapete voi dell'ultim'ora di un uomo? Un angelo può sempre giungere in
tempo e bisbigliare non visto all'orecchio del morente la parola che
deve aprirgli le porte chiuse del cielo.»
Santo padre della carità! Dopo voi, bisogna confessarlo a nostra
vergogna, non è stato più detto nulla di simile.


CAPITOLO XX.
In cui si finisce una storia, promettendone un'altra.

Il triste esito della giornata sul piano del Sicomòro aveva colpito
d'alto sgomento i Saracini. La superiorità delle armi cristiane si
era solennemente affermata colla inattesa apparizione di Guglielmo
Embriaco. Anche questi aveva dovuto comperare la vittoria con qualche
goccia del suo sangue: ma lo _Sciarif_, anima della difesa di Tortosa e
speranza dell'Islam in Terrasanta, aveva cessato di vivere.
Tortosa oramai si trovava orbata del suo più valido campione, e, quel
che era peggio, obbligata a difendersi dal più terribile avversario
che i Saracini potessero avere in Sorìa. Guglielmo Embriaco mostrò,
con la prontezza delle sue risoluzioni, che lo sgomento dei nemici non
era punto fuori di luogo. I difensori della città noveravano ancora
i giorni che sarebbe potuta durare la resistenza, e già nei consigli
dell'esercito genovese era deliberato l'assalto.
Arrigo da Carmandino, riavutosi dal suo stordimento, chiese a Messer
Guglielmo Embriaco di poter guidare egli stesso le schiere genovesi
all'assalto. Il valoroso Testa di maglio, il quale non era andato in
Sorìa per togliere ai giovani la gloria di una spedizione che essi
avevano già così bene avviata, non volle negare questa consolazione a
quel prode congiunto, che egli amava già come un figlio. E l'esercito
intiero giubilò, quando seppe che Arrigo da Carmandino, uno dei primi
sulle mura di Antiochia, di Gerusalemme e di Cesarea, lo sarebbe stato
del pari sulle mura di Tortosa. Il nome del capitano non era per sè
stesso di buon augurio all'impresa?
La fama del Giovannita non si era punto scemata per l'esito infelice
del suo combattimento collo _Sciarif_. Rammentavano tutti come Bahr Ibn
andasse debitore della sua prima e facile vittoria al colpo di mazza
che aveva dato sulla cervice del cavallo di Arrigo, colpo disgraziato,
secondo i giudizii più miti, ma sempre contro le norme della
cavalleria.
Cento e sessantatrè anni più tardi, sul piano di Benevento, dovevano
macchiarsi di grave colpa i cavalieri di Carlo d'Angiò, per aver rotte
le schiere di Manfredi, usando il brutto artifizio di ferire i cavalli.
E messer Ludovico Ariosto, narrando la pugna di Ruggero e Mandricardo,
potè raccogliere la dottrina cavalleresca, intorno a questo particolare
nella ottava seguente:
Ferirsi alla visiera al primo tratto;
E non miraron, per mettersi in terra,
Dare ai cavalli morte; ch'è mal atto,
Perch'essi non han colpa de la guerra.
Chi pensa che tra lor fosse tal patto,
Non sa l'usanza antiqua, e di molto erra;
Senz'altro patto, era vergogna e fallo
E biasmo eterno a chi ferìa 'l cavallo.
L'assalto di Tortosa, felicemente riuscito, coperse di gloria il nome
Arrigo. E messer Guglielmo, che era stato presente a tutta quella
importantissima fazione lodò assai il giovine capitano, pel valore e
per la saviezza di cui aveva fatto prova, ottenendo una così splendida
vittoria con poco spargimento di sangue.
Non meno lieto dell'Embriaco fu il re Baldovino, che, risaputo appena
il felicissimo evento, mandò con gran sollecitudine a Tortosa il suo
confidente Folchiero di Chartres, per congratularsi coi Genovesi, e
invitare i capi a recarsi in Gerusalemme.
Andarono tutti, e messer Guglielmo condusse la figlia con sè. Del
vecchio Anselmo non occorre il dire, perchè questi, nella sua nuova
qualità di scudiero, doveva seguire il suo signore, come fa l'ombra il
corpo.
Baldovino accolse con grande onoranza i suoi fidi e valorosi amici di
Genova, e molto si rallegrò di vedere la bella figliuola dell'Embriaco,
che egli aveva già ricevuta nella sua corte, celata sotto spoglie
virili, e intorno a cui si era svolta, in quel breve spazio, di tempo,
una vicenda così assidua di strane avventure.
Data la parte loro alle cerimonie ed alle feste, il re Baldovino pensò
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