Diana degli Embriaci: Storia del XII secolo - 07

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per l'appunto alla discendenza del Profeta e dava la ragione
dell'ossequio con cui lo ascoltavano i suoi correligionarii.
Lo stesso Emiro El Heddim, che era, siccome ho già detto, il comandante
militare di Cesarea, non gli parlava che a capo chino.
S'incontrarono i due capi all'entrata del castello. L'Emiro aveva in
volto le tracce di un alto spavento.
— Siamo perduti! — diss'egli a bassa voce. — Il nemico è penetrato
nella seconda cinta. Io venivo in cerca di te, mio signore, per dirti
che è tempo....
— Taci! — interruppe lo _Sciarif_. — Se questo sarà il volere di Dio,
andremo, senza mestieri di fuggire come cerbiatti davanti al leone. Non
vedi? Porto un ferito con me.
— Un cristiano!
— Un ospite è sempre una benedizione del cielo. —
E senza aspettar la risposta, entrò nell'androne della porta, dove
i soldati avevano deposto Arrigo. Il giovane era svenuto, e a tutta
prima lo si credette morto. Ma Zeid Ebn Assan, un vecchio arabo, che
sapeva di medicina, dopo avergli spruzzato il viso di acqua fresca e
fasciata colla sua cintura la fronte, assicurò che il cristiano viveva,
e avrebbe, col permesso di Allà, potuto anche reggere ad un nuovo
trasporto.
— Hai fatto esplorare il passaggio? — chiese lo Sciarif all'Emiro.
— Si, mio signore; e la cavalcata aspetta negli oliveti di Malca.
— Andiamo dunque, e sia fatta la volontà del Signore; — disse il
giovine capo. — Voi portate con ogni maggior cura il ferito; lo
metteremo poi sul dorso d'un cammello.
— Onore dei figli di Fatima, — rispose l'Emiro, — il tuo desiderio sarà
soddisfatto. Purchè tutto ciò non faccia ritardare di troppo la marcia!
— Meglio così; — disse il giovine. — Non avremo l'aria di fuggire
al cospetto degli infedeli. Del resto, vedrai che non tenteranno
d'inseguirci. Importa troppo a loro di non discostarsi dalla spiaggia,
dove hanno le navi. Zeid Ebn Assan, hai tu finito?
— Sì, mio signore. Dio è grande e misericordioso. —
I soldati allora sollevarono di bel nuovo il ferito, che mandò un lieve
sospiro. E preceduti dal vecchio medico, che aveva acceso una torcia
di legno resinoso, entrarono in una stanza buia, che metteva ad una via
sotterranea verso levante. Lo _Sciarif_ e l'Emiro rimasero gli ultimi,
per chiuder l'ingresso. La stanza buia doveva custodire il segreto
della sua uscita ai Cristiani, che inerpicatisi sulle mura per l'albero
di palma scoperto dall'Embriaco, penetravano intanto nella seconda
cinta e andavano a furia verso la moschea maggiore, intorno a cui si
erano raccolte le ultime difese di Cesarea.
Entrato cogli altri compagni d'armi nel cuor della città, Gandolfo
del Moro si diè pensiero come tutti gli altri della sorte di Arrigo. E
saputo che vivo non lo si trovava in nessun luogo, si diede egli stesso
a cercarne il cadavere, con una sollecitudine, con una diligenza, che
l'amico più intrinseco non ce ne avrebbe spesa altrettanta. Il destino
gli avea fatto servizio, di certo; ma quel bravo Gandolfo lo avrebbe
desiderato intiero. Gli sarebbe piaciuto, verbigrazia, di metter la
mano sugli avanzi del prode concittadino, per render loro gli onori
dovuti, e magari per riportarli a Genova in una custodia di vetro, come
stinchi di santo.
E il corpo d'Arrigo non pareva mica disposto a profittare di quelle
pietose intenzioni. Infatti, non c'era verso di trovarlo. Si era
risaputo bensì dove i primi sfortunati assalitori avessero fatto
testa al nemico; quel carname, consumato a mezzo dal fuoco, diceva
chiaramente che là erano rimasti. Ma tutti? E se non tutti, quali i
caduti? Nessun lume di ciò appariva alla mente curiosa di Gandolfo del
Moro.
Notate che egli era solo a metterci tanta e così minuta attenzione.
Gli altri tutti, non escluso il Testa di maglio, pensarono che Arrigo
fosse rimasto tra i morti e che il suo cadavere dovesse aver corso
la sorte di quelli de' suoi compagni. Ma Gandolfo del Moro andava più
lungi e più addentro colle sue indagini; studiava i particolari, notava
gl'indizi più lievi e più disparati. Per esempio, aveva saputo che
anche l'Emiro, il comandante della difesa di Cesarea, non si trovava
più neppur egli, nè vivo nè morto. Che fosse fuggito? Era questo il
sospetto del Cadì, che non sapeva perdonare all'Emiro el Heddim la sua
matta ostinazione. E se questi era fuggito, non poteva essere fuggito
anche Arrigo?
Ma come? ma perchè? Qui si smarriva l'ingegno sottile di Gandolfo del
Moro, che tornò a Genova colla voglia, in una continua incertezza, tra
speranza e timore.
Intanto che Gandolfo del Moro e gli altri cavalieri di Genova andavano
in traccia di Arrigo, costoro sperando e quegli temendo di trovarlo
vivo, ma nè gli uni nè l'altro rinvenendone il cadavere, per la ragione
semplicissima che ormai il lettore conosce, la comitiva dei fuggiaschi
Saracini aveva traversato il passaggio sotterraneo.
Metteva questo alle rovine di un tempio antico, negli oliveti di Malca,
a levante di Cesarea, o Caisarieh, come era chiamata dagli Arabi. Già
sacro a Venere Astarte, il tempio greco romano era abbandonato dalla
sua divinità mezzo fenicia; le colonne erano crollate sulle lastre del
pavimento e tutto era un ammasso di macerie, non rimanendo di intatto
che un pozzo, donde più non si attingevano le acque lustrali, ma dove i
pastori arabi andavano ad abbeverare gli armenti.
Colà fu deposto Arrigo, ancor fuori dei sensi, e mentre lo _Sciarif_
co' suoi cavalieri, trovati in vedetta laggiù, esplorava i dintorni
per custodire la sua gente da un incontro col nemico (incontro del
resto assai poco probabile, perchè i Crociati dovevano avere ben altra
bisogna alle mani), il vecchio Zeid Ebn Assan, spogliato con ogni cura
il giovine crociato, visitò le ferite e le spalmò de' suoi unguenti
meravigliosi. La più grave era quella toccata da Arrigo alla fronte; ma
il cranio appariva solamente scheggiato. Il che del resto non era poco,
dovendosi sempre temere di una commozione troppo forte al cervello e
di tutte le conseguenze d'una mezza frattura, in una parte così nobile
del corpo; conseguenze più gravi a gran pezza allora, che la scienza
chirurgica era tuttavia bambina, e l'arte empirica affatto, come vi
sarà facile di argomentare.
Il vecchio Esculapio saracino, lavata diligentemente la ferita e
stesovi sopra il suo balsamo, rinnovò la fasciatura, ma con più garbo
che non avesse potuto fare la prima volta, nel castello di Cesarea.
— Speri? — gli chiese ansioso lo _Sciarif_, che tornava in quel mentre
dalla sua esplorazione.
— Dio è grande; — rispose il vecchio.
— Sì; ma tu che cosa ne pensi? — incalzò il giovine capo, che non
poteva contentarsi di quella mezza risposta.
— Penso, — ripigliò allora Zeid Ebn Assan, — che Asrael ha posto gli
occhi su lui, ma che i Moakkibat non si sono ancora allontanati. —
Asrael era l'angelo della morte presso i seguaci di Maometto. I
quali credevano ancora che ogni uomo fosse accompagnato da due angeli
custodi, che notavano le opere sue, dandosi la muta ogni giorno; donde
il loro nome di _al Moakkibat_, cioè di angeli che _si succedono_.
— Spero, infine; — aggiunse il vecchio, vedendo che nemmeno l'accenno
agli angioli spianava le sopracciglia dello _Sciarif_. — Se almeno
potessimo fare una lunga sosta in qualche luogo!...
— Riposeremo a Thaanach, — disse il giovine capo, — alle falde del
Carmelo. —
Poco stante, la cavalcata si pose in viaggio. Lo _Sciarif_ volse un
ultimo sguardo alle mura di Cesarea, donde gli veniva all'orecchio un
suono confuso. Erano gli estremi aneliti della resistenza, misti alle
grida dei vincitori. Il giovine capo diede un fremito di rabbia, che
contrastava in modo singolare colla sua affettuosa sollecitudine pel
ferito, e spinse il cavallo al galoppo lungo le rive del Nahr el Acdar,
il cui letto inaridito rimontava dalla foce a mezzogiorno di Cesarea
fino alle, alture di Hadad Rimmon, ultimi contrafforti del Carmelo, che
la cavalcata doveva costeggiare, per giungere a Thaanach, nella pianura
di Jesreel.
Il sole volgeva al tramonto e l'aria incominciava ad essere più
respirabile. Le ore notturne furono intieramente spese nella marcia. La
mite andatura del dromedario e i freschi aliti della notte rendevano
meno disagevole il tragitto al povero Arrigo, sospeso tuttavia tra
la vita e la morte. Ad ogni fermata, lo _Sciarif_ si accostava
al dromedario su cui era accomodato il ferito, in una basterna
improvvisata coi mantelli della carovana, e interrogava il vecchio
Zeid, che mutava e rimutava in tutte le forme la sua prima risposta
«Dio è grande,» aggiungendo ora il clemente, ora il misericordioso,
e, a farla breve, la lunga fila di epiteti che il sentimento profondo
della divinità ha inspirato agli adoratori del Corano.
Spuntava il mattino e la cavalcata, già superato il valico dei monti,
giungeva in vista di Thaanach, rosseggiante tra le palme, ai primi
raggi del sole, che appariva in quel punto dalle lontane alture di
Gelboà, memorande per la rotta e la morte di Saul, e dietro alle quali
si stende la fertile pianura di Zarthan, irrigata dalle bionde acque
del Giordano, al suo uscire dal lago di Genezareth.
Lo _Sciarif_ e tutti i compagni suoi smontarono da cavallo, e
genuflessi, colla faccia rivolta a mezzogiorno, nella direzione della
Mecca, recitarono la loro preghiera mattutina. Dopo di che, si rimisero
in marcia per alla volta di Thaanach. Laggiù non essendoci il pericolo
di veder giungere Cristiani, lo _Sciarif_ disegnava di lasciare il
ferito, affidato alle cure di Zeid e di parecchi tra i suoi più fedeli
servitori. Egli intanto, traversata la pianura di Jesreel, sarebbe
andato, per la via di Betlem in Galilea, fino alle mura di Acco,
l'antico Tolemaide, portatore a quell'Emiro delle tristi novelle di
Cesarea.
Era un'altra città, un altro lembo della costa, che cadeva in mano
ai guerrieri d'Occidente. Gli Emiri di Soria, padroni delle città
marittime in quella confusione che avevano portato le guerre tra i
Turchi e gli Arabi, andavano perdendo alla spicciolata i loro piccoli
regni.
La comunanza di religione aveva fatto muovere nel 1097 Kerboga,
principe di Mosul, con ventotto emiri dell'interno dell'Asia, in
soccorso d'Antiochia. Ma lui sconfitto, come già il turco Solimano a
Nicea, non restava altra speranza all'Islamismo in Palestina fuorchè
l'aiuto del Soldano d'Egitto, o di Babilonia, come dicevasi allora,
dando erroneamente questo nome alla città del Cairo.
Per altro, se il califfo fatimita d'Egitto era potente, Gerusalemme,
la vera meta del pellegrinaggio armato dei Cristiani, era allora in
potere dei Turchi. Sfortunatamente per questi, il retaggio di Malek
Scià era disputato da quattro de' suoi figli. E la discordia loro e
la debolezza che ne derivava al popolo turco, persuasero al califfo
d'Egitto di tentare il ricupero dei possedimenti perduti in Sorìa. Era
sul trono il fatimita Abu Cacem Ahmed el Mostala Billah, succeduto nel
1094, lui secondogenito, coll'aiuto del suo visir El Afdhal, al padre
Abu Temin Maad el Mostanser Billah. Crudele al segno di far morire per
fame il fratello maggiore, Mostala Billah, o Mostalì, come fu chiamato
più brevemente, uomo privo d'ingegno e di carattere, lasciò ogni cura
di governo ad Afdhal. E fu questi che nel 1098 moveva al conquisto di
Tiro e di Gerusalemme, impadronendosi della città santa un anno prima
di Goffredo Buglione.
I Fatimiti avevano appena restaurata in Palestina la loro autorità
civile e religiosa, quando udirono dei numerosi eserciti cristiani
passati d'Europa in Asia. Si allegrarono a tutta prima di assedii e
combattimenti che distruggevano la possanza dei Turchi, loro giurati
nemici. Ma quei Cristiani medesimi non erano meno avversi al Profeta,
e, dopo espugnata Nicea ed Antiochia, dovevano condurre le loro imprese
sul Giordano, e chi sa? fors'anco sul Nilo. Il califfo Mostalì, o
per lui il suo audace visir, entrò allora in carteggio coi Latini,
procurando di averne le grazie, presentandoli di cavalli, di vesti
di seta, di vasellami, di borse d'oro e d'argento. Ma fermi stettero
i Crociati sul rispondere che, lungi dallo esaminare i diritti di
questo o di quello tra i settarii di Maometto, essi avevano ugualmente
per nemico l'usurpatore di Gerusalemme, Turco od Arabo, Selgiucide o
Fatimita, Ommiade od Abasside, che si fosse. Quindi lo consigliavano di
consegnare senz'altri indugi la città santa e la provincia tutta alle
armi latine, aggiungendo, non aver egli altra via per serbarsele amiche
e sottrarsi alla rovina ond'era minacciato.
Come i Crociati espugnassero Gerusalemme, non voluta restituire da
Istikar, il luogotenente del Califfo, l'ho già raccontato ai lettori.
Ho accennato altresì come, pochi giorni di poi, Afdhal, non giunto
in tempo, per impedire la caduta di Gerusalemme, ma affrettatosi
coll'ansietà di trarne vendetta, toccasse una rotta solenne nel piano
di Ramnula. Da quel giorno in poi la difesa delle città marittime di
Sorìa fu abbandonata agli Emiri, senz'altra speranza di validi aiuti
contro il nuovo regno dei Franchi, adeguato in estensione, se non
per avventura in numero d'abitanti, agli antichi regni d'Israele e di
Giuda.
Restava di poter fare assegnamento su aiuti volontari e parziali. C'era
uno dei Fatimiti d'Egitto, che veramente poteva dirsi l'anima di tutte
le difese saracine in Sorìa, da Antiochia a Gerusalemme, da Gerusalemme
a Cesarea. E costui, giovine valoroso, ma capitano di piccola schiera,
non amato dal fratello maggiore Mostalì, che volentieri gli avrebbe
inflitto la morte di Nezer, il primogenito dei tre, invidiato dal visir
Afdhal, cui premeva di essere solo al comando, nell'uscire dalle vinte
mura di Cesarea, non volgeva già i suoi passi all'Egitto, sibbene ad
Acco, dove temeva che sarebbero andati a nuova impresa i Crociati di
Genova, che egli sapeva per prova i più pericolosi di tutti.
Invero, l'esercito latino si era grandemente scemato di forze e poteva
prevedersi il giorno che non bastasse più a mantenere la sua larga
conquista. Dei diecimila cavalieri che Goffredo Buglione aveva condotto
dall'Occidente, soli mille cinquecento erano giunti sotto le mura di
Gerusalemme, e seicento, a mala pena seicento, ne rimanevano in piedi
per difendere il nuovo regno di Sion. Undicimila fanti rimanevano col
successore di Goffredo, dei diciottomila che questi aveva guidato in
Sorìa. Ma se i Latini erano deboli in terra, Genova, colle sue audacie
navali, poteva renderli ancora possenti sul mare.
Perciò, temendo dei Genovesi, poco sperando dal fratello e dal suo
ambizioso visir, e di nient'altro desideroso che di dare un indirizzo
a tutte quelle disgraziate difese degli Emiri di Sorìa, il giovine
_Sciarif_ muoveva con pochi cavalieri alla volta di Acco, dopo aver
lasciato Arrigo in Thaanach, raccomandato alle cure del vecchio Zeid.
— Bada, — gli disse, accomiatandosi, — la tua vita mi sta mallevadrice
della sua.
— Farò il poter mio, non dubitare. Ma se il ferito soccombesse per
volere di Allà? — notò il vecchio servitore con voce tremebonda.
— Sarebbe un indizio certo per me che Allà vuole anche la tua testa; —
rispose lo _Sciarif_, aggrottando le ciglia.
Zeid Ebn Assan s'inchinò fino a terra.
— Dio è grande! — diss'egli poscia, abbandonandosi al fatalismo
orientale.
Per altro, come lo _Sciarif_ si fu allontanato, il vecchio Zeid
non istette ad aspettare i miracoli dal cielo e si adoperò con
ogni possa ad assicurare la vita pericolante di Arrigo. La febbre e
l'infiammazione furono lungamente ribelli alle sue cure, ma l'arte da
un lato e la natura dall'altro gli fecero ottenere l'intento. Zeid
giuocava la sua testa, e lavorò colla vigilanza di un uomo che non
voleva perderla, tanto nel proprio quanto nel figurato.
Cionondimeno, se la malattia fu lunga, la convalescenza non lo fu meno,
e il vecchio Esculapio saracino pensò che il genovese affidato alle sue
cure, ricuperando la salute del corpo, non fosse per riavere altrimenti
la sanità dello spirito. Per tutto quell'autunno e per l'inverno che
seguì, Arrigo da Carmandino visse come un uomo sbalordito, e non aveva
più memoria o discernimento di quello che potesse averne un fanciullo.
Obbediva macchinalmente ai consigli del medico; stava ad udirlo, ma con
aria melensa, come se non cogliesse il senso di ciò che quegli diceva;
lo guardava fiso, ma senza intendere chi fosse colui, e come e perchè
egli stesso si trovasse nelle sue mani.
Un giorno, il vecchio Zeid, che si era rassegnato ad avere in custodia
un povero mentecatto, pure di veder conservata sulle spalle la testa,
accompagnava il Carmandino sulla piazza di Thaanach. E già lo aveva
fatto sedere al sole, presso una macchia di lentischi, allorquando
un fitto polverìo che si levava da tramontana in fondo alla pianura
annunziò una cavalcata che si appressava rapidamente. Era lo _Sciarif_
che ritornava da Acco. Il vecchio servitore aveva avuto più volte sue
nuove, perchè ad ogni quindici giorni giungeva un suo messaggiero a
Thaanach, per domandare della salute di Arrigo e vedere se egli fosse
ancora in caso di muoversi dalla sua solitudine.
Quella volta lo _Sciarif_ capitava in persona, non aspettato da Zeid,
che lo sapeva tutto intento nelle cose di guerra.
Arrigo da Carmandino stava seduto, come ho detto, all'aperto,
bevendo istintivamente i raggi di quel benefico sole. L'ampia
ferita, rimarginata da qualche tempo, rosseggiava sulla sua fronte,
contrastando vivamente col pallore onde era tuttavia cosparso il suo
volto.
Il giovine diede uno sguardo distratto a quello stuolo di cavalieri,
senza che il cuore gli battesse più forte, come avviene al guerriero
quando vede cosa o persona che gli rammenti la prediletta sua vita. La
luce della coscienza stentava a ritornare in quella mente offuscata.
Lo ravvisò da lunge il capo della schiera, e spronato il suo cavallo
verso di lui, fu a terra d'un balzo.
— Arrigo da Carmandino, — gli disse, muovendogli incontro col sorriso
sul volto, — non mi conoscete voi più? —
Quella voce e quell'aspetto risvegliavano un ricordo lontano e confuso
nella mente di Arrigo, che si alzò da sedere, interrogando degli occhi
il nuovo venuto, mentre il suo spirito cercava di raccapezzarsi, ma
senza pro.
— Bahr Ibn, — ripigliava intanto quell'altro, venendo in aiuto alla
sua memoria affievolita. — Bahr Ibn, il Saracino di Antiochia; non lo
rammenti già più, valoroso cristiano?
— Ah! — gridò Arrigo, — Antiochia! I Saracini! Bahr Ibn, il mio
nemico?....
— Che ti è debitore della sua vita; — aggiunse lo _Sciarif_. — Come son
lieto, o soldato di Cristo, di aver potuto salvare la tua! Siamo pari,
adesso. Vedi, rosseggia ancora la mia fronte pel colpo della tua lama
gagliarda, come la tua fronte pel colpo toccato nella presa di Cesarea,
e che io, pur troppo, non giunsi in tempo a sviare dal tuo capo. —
Così dicendo, Bahr Ibn si toglieva l'elmetto acuminato, mostrando la
sua cicatrice ad Arrigo.
— Cesarea! — ripetè il Carmandino, a cui tornava finalmente la memoria
del tempo trascorso. — Siamo noi padroni di Cesarea?
— Sì, col volere di Allà; — rispose Bahr Ibn, chinando mestamente il
capo. — I tuoi compagni superarono la seconda cinta poco dopo la tua
caduta. Io e l'Emiro El Heddim ci siamo ritirati per un passaggio
sotterraneo, portando te svenuto nelle nostre braccia.
— Ma come.... tu.... — balbettò Arrigo, che non intendeva in qual modo
fosse stato campato da morte.
— Io ti ho ravvisato quando gettavi l'elmetto, per scagliarti sulle
nostre file e cercarvi la morte dei valorosi. —
Alla evocazione di quei ricordi che tanti altri ne richiamavano al suo
pensiero, Arrigo diede in uno scoppio di pianto.
— Asraele aveva già stese le sue ali su te, e la tua anima avrebbe
dormito il gran sonno fino a che non la risvegliasse la tromba
d'Israfil. Ma ecco, — soggiunse, additando il vecchio Zeid Ebn Assan,
— l'uomo savio e dotto di farmachi che Allà aveva posto al mio fianco.
Egli ha lavato le tue ferite e le ha rimarginate co' suoi balsami
meravigliosi. Tu vivrai ancora, o Cristiano, alla gloria della tua
terra e all'amore de' tuoi.
— Grazie! — rispose Arrigo, cadendo nelle braccia del suo generoso
nemico. — Ma dimmi, sono io libero?
— Sì; partiremo questa notte per alla volta di El Kasr, dove io debbo
recarmi, e laggiù provvederemo al tuo tragitto, se pure desideri di
abbandonarmi così presto.
— El Kasr! — esclamò il vecchio Zeid. — Tu pensi davvero, mio signore,
di tornare in Egitto? E tuo fratello?
— Mostalì ha reso la sua anima a Dio, che la ricompenserà secondo i
suoi meriti; — disse gravemente Bahr Ibn. — Ho avuto l'annunzio in
Acco, e son partito senza indugio. Mostalì lascia un figlio, Amar, di
cinque anni appena....
— E tu pensi?
— Di assumere la tutela. Non sono io l'unico superstite dei figli di
Mostanser Billah?
— Mio signore, — ripigliò il vecchio, — non rammenti come sia possente
El Afdhal?
— Lo combatterò.
— Con quali forze? E mentre i Franchi saranno pronti a trar profitto
delle nostre discordie? —
Lo _Sciarif_ rimase sopra pensieri. Troppo peso avevano gli argomenti
del vecchio servitore, ed egli non aveva nulla da opporgli.
— Potresti aver ragione; — brontolò egli, dopo alcuni istanti di pausa.
— Ma andrò cionondimeno a vedere. Dice il libro: «L'uomo non muore
che per volontà di Dio, secondo il termine assegnato nel volume del
destino.» Mettiamo la nostra fiducia in Dio. Il libro dice ancora: «Se
Dio viene in vostro aiuto, chi potrà vincervi? Se vi abbandona, chi
potrà darvi soccorso?»
— Che egli ti ascolti, mio signore! — disse Zeid inchinandosi. — E
quando pensi di ripartire, perchè noi ci prepariamo a seguirti?
— Questa notte. Il viaggio farà bene anche a te, ospite cristiano; —
soggiunse lo _Sciarif_, volgendosi ad Arrigo da Carmandino; — ma perchè
forse non saresti in caso di tenerti ritto in sella, monterai sulla
nave del deserto. —
Gli Arabi, siccome è noto, chiamano nave del deserto il cammello e il
dromedario.
— Amico, — disse Arrigo timidamente, — se tu volessi compiere l'opera
tua....
— Chiedi; — rispose Bahr Ibn. — Che altro posso io fare per te?
— Son libero, hai detto?
— Come il vento e come il mare, come la gazzella che fugge stampando a
mala pena le orme sulla sabbia, come il leone che regna solitario nella
pianura, sei libero.
— Orbene, — ripigliò Arrigo da Carmandino, — rimandami a Cesarea.
— Per far che?
— Ma.... — disse il giovine crociato; — i miei compagni staranno in
pensiero per me.
— I tuoi compagni! — ripetè Bahr Ibn. — Essi hanno da lunga pezza
abbandonato Cesarea. La città è rimasta ai Franchi, pei quali sembra
che l'abbiano essi conquistata. —
Arrigo da Carmandino rimase attonito a quell'annunzio inatteso.
— E non c'è dunque più un genovese?
— Neppur uno. Prima che io abbandonassi le mura di Acco, giungeva
un mercante giudeo reduce dalla vostra conquista, ed ebbi da lui
confermata la nuova che l'armata de' tuoi concittadini ripigliò il
mare pochi giorni dopo la espugnazione della città. A quest'ora i tuoi
compagni d'armi sono tutti alle loro case, e mediteranno già nuove
imprese contro di noi. —
Arrigo trasse un profondo sospiro dal petto.
— E mi crederanno morto! — diss'egli. — Se almeno si trovasse una vela!
— Meglio ti converrà prendere il mare a Damietta; — notò
affettuosamente Bahr Ibn. — Io stesso ti darò la nave che dovrà
ricondurti alla tua gente. Vedi, del resto, io ora non potrei
accompagnarti in Cesarea senza pericolo. Nè a te converrebbe andar
solo, colle vie piene di ladroni. E poi, dimmi, t'incresce egli tanto
di restare per qualche tempo col tuo servo? —
Arrigo gli strinse la mano in aria di ringraziamento.
— Non dubitare; — proseguì il Saracino; — mentre noi andiamo verso
l'Egitto, uno de' miei tornerà in Acco e manderà in Cesarea il mercante
giudeo, per avvisare i Franchi che tu sei vivo. Noi stessi, per via,
se ci imbatteremo in qualche figlio d'Israele, manderemo tue nuove a
Gerusalemme e al porto di Giaffa, nella speranza che qualcheduno le
rechi in Occidente ai tuoi cari. Ma certo, — soggiunse Bahr Ibn, con
piglio risoluto, che non ammetteva contrasti, — tu giungerai alla tua
terra prima d'ogni altro messaggio. —
Arrigo da Carmandino alzò gli occhi al cielo, pregando Iddio che
accogliesse l'augurio del suo ospite, del suo salvatore.
Quella medesima notte la cavalcata dello _Sciarif_ ripartiva da
Thaanach, prendendo la via di levante, verso i monti di Gelboà, varcati
i quali doveva scendere nella valle di Zartan, guadare il Giordano, e
di là, per la montagna di Galaad, andare a trovare la vecchia strada
dei pellegrini maomettani, da Damasco alla Mecca.
Col nuovo reame cristiano di Gerusalemme piantato tra il monte Carmelo
e quello di Giuda, era quell'unica strada sicura che rimanesse ai
Saracini, tra l'Egitto e le coste di Sorìa, che ancora per poco
dovevano restare in poter loro.


CAPITOLO X.
Sulle tracce di Arrigo.

Il secondo re di Gerusalemme, che fu Baldovino I, già principe di
Edessa, non si trovava certamente, nell'estate del 1102, sopra un letto
di rose;
Già dello stato di quel nuovo regno ho fatto un brevissimo cenno
ai lettori, ed ora, per l'intelligenza dei casi che rimangono da
raccontare, debbo rifarmi da capo.
Goffredo di Buglione, espugnata Gerusalemme e rotti gli Egiziani sulla
pianura di Ramnula, aveva appeso alla parete del Santo Sepolcro la
bandiera e la spada di Afdhal. I baroni che lo avevano seguito in
Palestina, se ne tornavano la più parte alle castella d'Occidente.
Tra essi i due Roberti, l'uno, duca di Normandia, l'altro, conte di
Fiandra. Abbracciati per l'ultima volta i suoi compagni di fatiche
e di gloria, il pio Goffredo li aveva accomiatati, non ritenendo con
sè, per difendere la Palestina, che l'italiano Tancredi, con trecento
uomini a cavallo e duemila fanti; in tutto tremila uomini o poco più,
se si voglia considerare che ogni cavaliere armato in guerra aveva con
sè quattro scudieri a cavallo, e questi cinque uomini si contavano per
_una lancia_.
Il fratello Baldovino essendosi assicurato un picciolo regno in Edessa
e Boemondo di Taranto un altro in Antiochia, Goffredo di Buglione aveva
dovuto accettare la suprema autorità in Gerusalemme; ma non aveva
già accettato le insegne e gli onori di re, ricusando, come dice la
prefazione delle _Assise di Gerusalemme_, di _porter corosne d'or là ou
le roy des roys porta corosne d'épines_, e contentandosi in quella vece
del modesto titolo di barone e difensore del Santo Sepolcro.
Meno scrupoloso di lui si era addimostrato il Clero latino.
Morto nell'ultima peste ad Antiochia il savio Ademaro, gli altri
ecclesiastici erano saliti in orgoglio, usurpando le rendite e la
giurisdizione del patriarca di Gerusalemme e accusando di scisma e
d'eresia i Greci e i Cristiani d'Oriente; per modo che questi ultimi,
Melchiti, Giacobiti, Nestoriani, i quali avevano adottato l'uso
della lingua araba, oppressi dal ferreo giogo dei loro liberatori, si
augurassero la tolleranza dei Califfi Fatimiti.
Damberto, arcivescovo di Pisa, condottiero d'una armata de' suoi
concittadini in Sorìa, e molto addentro nei riposti disegni della
Corte di Roma, era stato nominato senza contrasto capo temporale e
spirituale della chiesa d'Oriente, e da lui Goffredo e Boemondo avevano
ricevuto l'investitura dei nuovi possedimenti. Come se ciò non bastasse
ancora, una quarta parte di Gerusalemme e d'Antiochia furono assegnate
alla Chiesa. Il modesto prelato riserbò a sè ogni diritto casuale sul
rimanente, ogni qual volta, o Goffredo morisse privo di figli, o la
conquista del Cairo, o di Damasco, gli fruttasse un regno più grande.
Morto Goffredo nel 1100, gli succedette nel regno il fratel Baldovino,
sotto cui si vennero espugnando le città della costa, e tra le prime
Cesarea, il cui emiro, nostra conoscenza, accusavasi comunemente
di aver propinato il veleno a Goffredo in un canestro di frutte,
mandategli in dono. Se ciò fosse vero non saprei dirvi. L'emiro El
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