Cronica di Matteo Villani, vol. 4 - 14

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corrompitori di baratteria che colle battaglie. E considerato le
grandi, e le lunghe, e disordinate spese delle guerre, per meno spesa
sono larghissimi ne’ trattati. Questa regola si scoperse in questi di
ne’ caporali di messer Bernabò, i quali teneano trattati con certi
soldati ch’erano in Bologna, i quali promisono, che approssimandosi
l’oste a Bologna darebbono una porta. Per la detta cagione all’uscita
di gennaio del detto anno il campo si mosse, e approssimossi alla
terra; ma scoperto il trattato, e presi i traditori, e fattone degna
giustizia, l’oste si ritrasse indietro, perchè stando dov’erano venuti
stavano in disagio è in pericolo, e tornaronsi a casa al luogo dov’era
la loro bastita maggiore.

CAP. LXXII.
_Come le sette di Cicilia si divoravano insieme._
La parte del re Luigi in Cicilia, sì de’ Messinesi, come de’
Palermitani, in questo tempo era dal giovane duca di Cicilia e da’ suoi
Catalani sopra modo tribolata e astretta, che ’l re Luigi altro che con
parole non aiutava i suoi partigiani, il quale era cresciuto al duca
il seguito suo, e di continovo cavalcavano sulle porte di Palermo e di
Messina, e loro tenute e fortezze e con assedio e trattati toglieano;
onde non potendo resistere alle continove e gravi oppressioni, da
capo con grande istanza richiesono il re d’aiuto, significando loro
stato e bisogno. Il re mandò a’ Fiorentini per trecento cavalieri che
gli erano stati per tre mesi promessi. Il comune per fare più presto
il servigio li mandò settemila fiorini d’oro, avendo sopra questo
risposto, che avendo altra volta mandata gente, era stata soprattenuta
i detti danari, perchè tanto montava il soldo di trecento cavalieri per
tre mesi, acciocchè ’l re li conducesse a suo modo, e quando n’avesse
bisogno. I danari presono luogo in altri servigi, e il soccorso de’
Ciciliani per quella volta furono lettere confortatorie, dando loro
speranza per animarli alla sofferenza, aspettando se si cambiasse
fortuna. Il di che di questo seguette, che i Catalani presono maggiore
cuore, e condussono gli amici del re a grande stretta, e con grandi
pericoli e partiti, come si potrà al suo tempo provare.

CAP. LXXIII.
_Come la Chiesa deliberò l’impresa di Bologna._
Egli è vero, che come già detto avemo, messer Giovanni da Oleggio
non veggendo sufficiente sua possa a resistere a messer Bernabò, nè
speranza di soccorso bastevole, cercato e ricercato avea se con lui
potesse avere convegna o pace fidata, e non di manco, come sagace
e astuto, cercava col legato di rendere Bologna alla Chiesa con suo
vantaggio e profitto. Il legato, ch’era d’animo grande, e desideroso di
torre quell’impresa per crescere suo onore e nome, non si attentava,
perchè non si vedea sufficiente a sostenere tanto fatto, e cominciare
non volea senza l’assento del papa e de’ cardinali, per non avere
riprensione nè vergogna. E avendo per questa cagione e con lettere e
ambasciadori sollicitato il papa, mostrandogli quelle buone ragioni
ch’erano a sua intenzione conformi, del mese di febbraio del detto
anno, ebbe per diliberazione del santo padre e de’ suoi cardinali, che
nel nome di Dio facesse l’impresa, tutto che in questo tempo messer
Bernabò con grande spendìo cercasse con danari con suoi protettori in
corte che ci ò non si facesse; e tanta fu la forza de’ danari e de’
doni, che ora sì ora no si dicea, con poco onore della Chiesa di Roma.
Nè a questo contento il tiranno, sua oste cresceva premendo d’imposte e
di colte tutti i cherici ch’erano di terre a lui sottoposte; e credendo
con parole altiere spaventare il legato ch’era uomo senza paura, forte
lo minacciava. E così la città di Bologna era di fuori tribolata,
e dentro stava in gelosia, e prima non sapendo a cui fosse venduta,
e sapendo che di lei si facea tenere mercato, e non osava parlare;
queste miserie si giugneano in loro gravi danni e le fatiche corporali.
Queste pene, se da’ cittadini erano pazientemente portate, meritavano
sollevamento, ma non era ancora il tempo che Iddio avea diliberato per
fine delle fatiche loro.

CAP. LXXIV.
_Come messer Giovanni da Oleggio fermò suo accordo con il legato di
Bologna._
Il legato poich’ebbe a suo proponimento l’assento di corte di Roma,
d’onde a tempo sperava favore, ritenendo singulare amicizia con messer
Giovanni da Oleggio, e gareggiandolo molto per avere da lui quello
che cercava, riprese con lui ragionamento e trattato con animo di
contentarlo, purchè Bologna venisse alle sue mani, e perchè non dava
del suo era largo per promesse. La cosa era venuta in termine, che
poco dibattito di lievi cose fra loro aveano. Messer Giovanni stava
sospeso, perchè non li parea ben fare rimanendo nemico di messer
Bernabò e della casa de’ Visconti, della quale era per gesta. E stando
in questo intra due, sentendo messer Bernabò che la convegna era per
prendere tosto conclusione, e temendo forte che ciò non venisse fatto,
mandò a messer Giovanni certi de’ Bonzoni da Crema, che gli erano
cognati, e a loro commise che con ogn’istanza cercassono che Bologna
non tornasse nelle mani della Chiesa, e che offerissono al loro cognato
ogni patto e sicurtà ch’e’ volesse. Costoro col detto mandato di
presente furono a Bologna, e trovarono come la concordia era in alto
da potersi e doversi fornire con messer Giovanni; onde si strinsono
con lui, e dissonli quanto aveano da loro signore, e lo confortarono
con belle e indottive ragioni ch’e’ non volesse rimanere nimico del
signore suo e in contumacia de’ suoi consorti, e di tanta possanza e
grandezza, che potea con suo onore e vantaggio rimanere in buona pace
con loro. Messer Giovanni rispose, ch’e’ volea fare certo e sicuro
messer Bernabò che dopo sua morte Bologna gli verrebbe alle mani,
mentre ch’e’ vivea la volea tenere per lui, e titolarsene suo vicario,
e che volea fidanza che ciò li fosse osservato; e dove a questo messer
Bernabò venisse realmente e facesse, disse d’abbandonare ogni altro
trattato, affermando che sopra tutte le cose desiderava d’essere in
grazia de’ suoi maggiori, e a loro ubbidiente e fedele. I cognati
vollono la fede da lui, ed egli la diede loro, dicendo, ch’e’ non potea
guari aspettare, e che la risposta prestamente volea; e con questo
voltarsi indietro, e tornarsi a messer Bernabò, il quale avea sentito
che l’accordo era fatto, e che il prendere stava a messer Giovanni;
di che avendo da costoro chiara certezza in consiglio disse, ch’era
contento di fare quanto messer Giovanni avea domandato, e che così per
sua parte fermassono con lui. I giovani poco sperti e poco accorti,
non considerando il pondo del fatto, e quanto il caso portava o potea
portare, rendendo la cosa per fatta, con matta baldanza, quasi se non
dovesse nè potesse fallare nè uscire di loro mani, lieti e allegri,
perchè pareva loro fare gran fatti, presono alquanto soggiorno,
aspettando il tempo carissimo e pericoloso in vani diletti, nelle quali
cose spesono tre giorni oltre all’aspetto che messer Giovanni attendea;
il perchè ne seguì, che essendo in prima messer Giovanni in sospetto
della fede di messer Bernabò, il sospetto gli crebbe, e la tema di non
essere tenuto a parole a mal fine, e senza più attendere prese partito,
e fermò l’accordo col legato, come nel seguente capitolo diviseremo.
Fornito il fatto, i giovani che gli erano cognati li vennono il giorno
seguente, e trovarono la pietra posta in calcina, sicchè il pieno
mandato ch’aveano da messer Bernabò tornò in fumo. Per questo fallo
seguette, che i giovani a furore e tutte le loro famiglie furono
disperse, e i loro beni guasti e incorporati alla camera del signore
come di suoi traditori, e ne rimasono in bando delle persone.

CAP. LXXV.
_Patti da messer Giovanni da Oleggio alla Chiesa, e la tenuta di
Bologna._
Per lo sospetto cresciuto a messer Giovanni di messer Bernabò, come
poco avanti dicemmo, prese l’accordo, e concedette alla Chiesa Bologna
con queste convegne: che il legato pagasse interamente i provvisionati
e’ soldati di ciò che dovessono avere infino al dì ch’e’ rassegnasse
Bologna, e che in cambio di Bologna avesse a sua vita liberamente
la signoria della città di Fermo, e di suo contado e distretto, e
che fosse titolato per lo detto marchese della Marca, e in sustanza
succedette l’accordo: e per sicurtà di fermezza dell’una parte e
dell’altra, il signore di Bologna mise nella città di Fermo messer
Azzo degli Alidogi da Imola con gente d’arme come amico comune, e al
capitano della gente che il legato avea messo in Bologna, ricevente
per lo legato e per la Chiesa di Roma, in presenza del popolo diede la
bacchetta della signoria, onde il popolo ne fece gran festa, perchè ciò
desiderava e temeva di peggio, gridandosi per tutta la terra: Viva la
santa Chiesa. Nondimeno il signore com’era ordinato nei patti, nelle
sue mani fece giurare tutta gente d’arme da piè e da cavallo infino che
li fosse attenuta l’impromessa; e così stette la città sotto titolo
e forza di messer Giovanni, come della Chiesa di Roma, da mezzo il
mese di marzo al primo dì d’aprile 1360. E in questo mezzo il legato
intendea a fare pagare i soldati, e’ cittadini avendo presa baldanza, e
in fatti e in parole villaneggiavano messer Giovanni e la famiglia sua,
ricordandosi dell’ingiurie ch’aveano ricevute da loro; e per questo
avvenne, che un dì messer Giovanni mandò per prendere di sua gente
uno de’ Bentivogli, il quale essendo bene accompagnato si contese, e
non se ne lasciò menare, gridando, all’arme all’arme; onde la terra
si levò tutta a romore, infiammata contro al vecchio tiranno: il quale
per tema si ricolse in cittadella, e tutta la notte stette armato con
la sua gente e della Chiesa sotto buona guardia. Il dì seguente giunse
messer Gomise in Bologna nipote del cardinale, il quale era marchese
della Marca, e racchetò il romore del popolo, e prese la guardia delle
porti e della città, e accomandatola a’ cittadini, corse la terra
col popolo insieme con grande allegrezza, e aperse a’ prigioni. Il
perchè i cittadini si certificarono che la signoria non potea tornare
nelle mani del tiranno, nonostante che ancora fosse in sua podestà
la cittadella, e il giuramento de’ soldati in sua mano. E stando le
cose in tale maniera, messer Giovanni fu certificato dalla moglie
come liberamente avea in sua podestà il Girfalco e l’altre fortezze di
Fermo, e come presa era per lui la signoria della terra; onde avendo
ciò, secondo i patti li convenia partire di Bologna, ma forte temea
l’ira del popolo che non l’offendesse in sulla partita, e per tanto si
stava in cittadella, e come, savio e avveduto ordinò ora una boce ora
un’altra, tenendo suo consiglio segreto nel petto; e per meglio coprire
l’animo suo pubblicamente facea cercare con gli Ubaldini che li dessono
sicura la via, e a’ Fiorentini domandò il passo per loro terreno; i
Bolognesi stavano a orecchi levati, e non faceano motto, aspettando di
predarlo, e di fare strazio di lui gran voglia n’aveano. Il savio con
maestria tranquillando i Bolognesi colse tempo, il martedì santo, a dì
31 di marzo nella mezza notte, dormendo i cittadini, chetamente e senza
fare zitto con mille barbute, tra di suoi provvisionati e soldati di
quelli della Chiesa, senza averne il dì fatta mostra uscì di Bologna,
e andossene a Imola senza impedimento nessuno, e di là si partì, e
andonne a Cesena a visitare il legato.

CAP. LXXVI.
_Come la città di Bologna fu libera dal tiranno in mano del legato e
della Chiesa essendo assediata._
Il primo dì d’aprile, gli anni domini 1360, Bologna rimase libera
dalla dura tirannia di messer Giovanni da Oleggio della casa de’
Visconti di Milano, il quale a dì 20 d’aprile 1355 l’avea rubata a’
suoi consorti per cui la tenea, come addietro facemmo menzione, e
nello spazio di questi cinque anni avea decapitati oltre a cinquanta
de’ maggiori e de’ migliori cittadini della terra, con trovando loro
diverse cagioni, e dell’altro popolo n’avea morti e cacciati tanti, che
pochi n’avea lasciati che avessono polso o forma d’uomo, e con averli
munti e premuti infino alle sangui; e avendo fatte tante crudeltadi,
e tante storsioni e ruberie, come volpe vecchia seppe sì fare, che
con grandissimo mobile di moneta e gioielli liberamente se n’andò, e
ridussesi in Fermo; e levato s’era del giuoco, e ridotto in luogo di
pace e di riposo, lasciando i Bolognesi e il legato nella guerra; e per
certo, s’egli era tenuto savio, questa volta lo dimostrò.

CAP. LXXVII.
_Come la Chiesa riformò Bologna._
Messer Gomise da Albonatio Spagnuolo nipote del legato, il quale
era stato marchese della Marca, e Niccola da Farnese capitano della
gente del legato rimasi nella libera signoria di Bologna, e fatta
grande allegrezza e festa co’ cittadini della partita di messer
Giovanni da Oleggio, e mostrando di loro grande confidanza, ma per
accattare loro benivolenza e favore, si cominciarono a ordinare alla
guardia, e alleggiarono il popolo di molte gravezze, e massimamente
delle soperchie, nelle quali li tenea il tiranno; e il popolo con
loro coscienza prese consiglio co’ più cari e sentiti cittadini, ed
elessono di comune concordia d’ogni stato e condizione, mescolando i
gentili uomini e’ popolari, e’ dottori e artefici eziandio dell’arti
minute, pure che ognuno fosse contento, certo numero di cittadini che
intendessono con gli uficiali della Chiesa alla guardia e alla difesa
della città; e ciò fatto, il capitano della gente della Chiesa mandò
comandando alla gente di messer Bernabò che si dovesse partire del
terreno della Chiesa, significando loro come Bologna era tornata alle
mani della Chiesa di Roma, com’essere dovea per ragione; la risposta
fu questa, che innanzi si partissono voleano vedere per cui, e che
s’e’ volessono se ne partissono glie n’andassono a cacciare. E preso
sdegno del baldanzoso comandamento, ed essendo loro di nuovo giunto
mille barbute, cavalcarono infino presso a Faenza, levando gran preda
di bestiame e di gente, la quale condussono al luogo senza impedimento
niuno; e com’aveano cominciato seguirono, facendo gran danno e
spaventamento de’ paesani, e rompendo le strade, minacciando di peggio
i Bolognesi e’ Romagnuoli; per le quali cose la letizia mostravano per
parere loro essere fuori delle mani del tiranno, e posto giù il caldo
voglioso si cominciò a raffreddare, e convertissi in paura di peggio, e
ciò venne loro, come si potrà leggendo innanzi trovare.

CAP. LXXVIII.
_Di una congiura si scoperse in Pisa._
Gli artefici della città di Pisa, e massimamente quelli dell’arte
minuta, vedendo loro mancare i guadagni per la partita de’ Fiorentini
i quali il loro porto teneano in divieto, se ne doleano, e mormoravano
e parlavano male; e perseverando nelle querele, una quantità di loro
si giurarono insieme molto occultamente, e presono ordine tra loro, il
quale il venerdì santo a dì 3 d’aprile doveano uccidere gran parte de’
loro maggiorenti ch’erano al governo della città, dove e come trovar
gli potessono insieme, o divisi; e ciò fatto, doveano mandare per li
Gambacorti, che allora si riduceano a Firenze, e con loro riformare
la terra, e pacificare co’ Fiorentini per riavere il porto. Infra’
congiurati erano religiosi alquanti, e preti e altri cherici assai,
intra’ quali fu un prete il quale fu veduto parlare con certi de’
secolari della congiura assai sconciamente, e per disusata maniera,
o che parola di suo ragionamento fosse intesa, o che per lo modo del
parlare si facesse sospetto, fu mandato per lui, e stretto, e’ confessò
tutto l’ordigno; onde subitamente furono presi quattro preti e sette
frati, e nel torno di cento artefici d’arte minute. I governatori della
terra procedendo nel fatto trovarono ch’erano tanti gli avviluppati in
questa congiura che per lo migliore si fermarono, e non si stesono più
oltre, e del numero ch’aveano presi dodici ne furono impiccati, i quali
trovarono più colpevoli e caporali, e gli altri furono condannati a
condizione in danari, i quali per ricomperare le persone tosto furono
pagati. Questa novità molto conturbò e impoverì la città con guasto
dello stato della setta che allora reggea, la quale ne rimase in grande
gelosia, e il popolo minuto malcontento e peggio disposto.

CAP. LXXIX.
_Di un trattato menato in Forlì contro alla Chiesa._
Messer Bernabò per l’impresa ch’avea fatto il legato della città
di Bologna era molto stizzito o infocato, e come signore animoso e
vendicativo non posava, e senza riguardo di spesa del continovo suo
oste cresceva, e sollecitava i suoi capitani a fare buona guerra a’
Bolognesi, e dovunque potessono ne’ terreni della Chiesa. Occorse in
questi giorni, che la gente ch’era alla guardia di Forlì gran parte
n’erano ad accompagnare infino a Fermo messer Giovanni da Oleggio;
questo caso diede materia a un messer Stefano giudice, e a un nipote
di messer Francesco degli Ordelaffi per addietro capitano di Forlì,
nato d’una sua figliuola bastarda, di cercare trattato in Forlì; questi
due matti baldanzosi, piuttosto per presuntuoso animo che per savio
consiglio, tenuto trattato col capitano della gente di messer Bernabò,
vedendo la terra sfornita di gente di soldo, sotto ombra di cavalcata
gran parte della migliore gente da cavallo e da piè dell’oste del
tiranno feciono appressare a Forlì, in luogo che per sua vicinanza
non gittasse tanto sospetto che al popolo fosse necessità prendere
l’arme, e d’onde partendosi la notte potessono entrare nella terra;
e tanto aveano predetta la cosa, che avendo i detti di sopra con
alquanti loro amici rotte in due parti le mura della città, ed essendo
condotti millenovecento barbute e fanti assai al tempo che loro era
dato alle dette rotture, poco accorti i traditori abbagliati della
voglia disordinata, tra gli steccati e le mura che fatti aveano ne
condussono tra gli ortali dentro e a piè delle mura oltre a trecento
cavalieri e dugento pedoni, anzi che dentro se ne sentisse niente, e
non presono avviso che i detti ortali erano tutti affossati, e senza
vie spedite che mettessono nelle strade mastre, il perchè ne seguì,
che nel ravvilupparsi disordinatamente e poco chetamente in quel
luogo, furono sentiti e scoperti; onde il popolo si levò a romore, e
francamente corsono ove si sentivano i nemici, e gli assalirono col
vantaggio del sito dov’erano, e non potendosi stendere nè campeggiare,
e inviliti, tutto che facessono per loro onore mostra d’arme, in fine
furono cacciati di fuori, ed essendone assai magagnati e fediti: e
mentre ch’era attizzata la zuffa, poco anzi il fare del giorno la gente
ch’avea accompagnato messer Giovanni da Oleggio tornò, onde quelli di
fuori perduta la speranza si ritrassono indietro, e’ traditori furono
presi e condannati alle forche. Parendo al capitano di messer Bernabò
avere avuto dell’impresa vergogna, quasi come se la preda gli fosse
uscita di mano, la seguente mattina con duemila barbute tentò di fare
in aperto quello che non avea potuto fare in occulto, e venuto infino
alle mura della città, la trovò sì bene ordinata e guernita a difesa,
che intendimento che dato gli fosse dentro riputò a niente; onde diè
la volta, e trovando il paese male fornito di roba da vivere, lasciò a
Luco quattrocento cavalieri, e tornossi nell’oste a Bologna.

CAP. LXXX.
_Come fu combattuta Cento dall’oste del tiranno._
Avendo i capitani di messer Bernabò perduta la speranza della città di
Forlì, come di sopra dicemmo, la sollecitudine loro rivolsono altrove,
e lasciando fornite le bastite d’intorno a Bologna, cavalcarono a
Cento grossa terra de’ Bolognesi, posta in quella parte che guata
Ferrara, e là si fermarono quasi in forma d’assedio, stimando che se
potessono o per paura o per forza vincere la terra, per la bontà del
sito attissimo loro per sicurare le strade verso Ferrara, e per fare al
campo e alle bestie dovizia per la grande quantità di biada che dentro
v’era raccolta, d’essere vincitori della guerra; e per tanto con molto
ordine e apparecchio per più e più riprese in diversi giorni assalirono
la terra con fiere battaglie di lunga bastanza, nelle quali e dall’una
parte e dall’altra assai di buona gente vi fu morta e fedita, ma più
assai di quelli di fuori; in fine trovando i capitani che la terra era
bene guernita a difesa, e vedendo che il loro stallo poco approdava,
con avere senza acquisto fatte prodezze si levarono quindi, e andarono
a Budrio, dove trovarono più larghezza di vittuaglia, ove s’arrestarono
per lunghezza di tempo.

CAP. LXXXI.
_Come gli Ubaldini si mostrarono tra loro divisi._
In questi tempi, maliziosamente per sagace consiglio la casa degli
Ubaldini si divise, e quelli di Tano da Castello col seguito loro
s’accostarono a messer Bernabò, e quelli di Maghinardo e d’Albizzo
da Gagliano con loro amici tennono col legato in palese, tutto che
in segreto, come ghibellini e antichi nemici della Chiesa di Roma,
s’intendessono, e che con l’animo fossono quello ch’e’ consorti loro;
litigavano per dare materia di rottura alle strade dell’alpe, sicchè
per quelle vie niuno osasse andare a Bologna. Per questa divisa, o
vera o infinta che fosse, l’una parte guerreggiava l’altra, e insieme
si danneggiavano assai; per modo che l’alpe era tutta rotta, e i passi
e le strade serrate in forma, che roba nè persona per que’ luoghi
non poteva ire a Bologna senza gravi pericoli; il perchè grave danno
e disagio ne tornava a’ Bolognesi assediati, che per quelli luoghi
soleano andare e foraggio e aiuto. E parne che sia da notare in questa
guerra lunga e pertinace, la maggiore parte di quello che bisognava per
vita dell’oste sparta, e grande opera quasi venia per Lombardia per lo
passo del Po, il quale il marchese da Ferrara compare di messer Bernabò
gli avea conceduto, pagando la roba il dazio usato, di che gran danaio
ne fece il marchese: e secondo ch’avemmo da persona degna di fede, che
di ciò ebbe degna notizia, tra soldo e vittuaglia e altri fornimenti
l’oste costava al tiranno ogni mese oltre a’ fiorini settantamila
d’oro, e tanto era la sua entrata che niente parea che ne curasse: è
vero che grande tesoro trasse da’ cherici delle terre che gli erano
suggetti, i quali con molti dispetti disordinatamente gravava.

CAP. LXXXII.
_Di portamenti degl’Inghilesi in Borgogna._
Per sperienza vedemo, che lo stomaco pure d’una vivanda prende
fastidio, e delle variazioni d’esse ricreazione e piacere, e così gli
orecchi d’uno suono continovo rincrescimento, e della mutazione di
molti vaghezza. Da questa mostrazione naturale preso esempio, lasceremo
stare alquanto i fatti d’Italia, le cui volture e travaglie continove
senza in tramessa delle forestiere possono ingenerare tedio, e
passeremo a quelle de’ Franceschi e degl’Inghilesi che in questi giorni
apparirono. Essendo, come nel passato dicemmo, il re d’Inghilterra,
e’ figliuoli e il duca di Lancastro in Borgogna, senza arrestare con
attizzamento di guerra il paese i Borgognoni, che allora in occulto
erano poco amici della casa di Francia, s’accordarono con loro, dando
loro derrata per danaio abbondevolmente di ciò che loro fosse mestiero;
e stando in tale maniera si cercava come il re per l’avvenire dovesse
rimanere col duca, il perchè gl’Inghilesi li riguardavano forte, senza
fare ingiuria o danno niuno; e ciò avvedutamente, perchè sapeano lo
sdegno nato tra’ Borgognoni e’ Franceschi, estimando d’attrarli a
loro con piacevolezza e amore. Il duca era giovane e di grande animo,
e di possanza il maggiore barone del reame di Francia, e de’ dodici
peri, a cui stava la coronazione del reame di Francia, alla quale con
tutti i sentimenti si dirizzava l’intenzione del re d’Inghilterra, la
quale era freno che non lasciava trasandare gl’Inghilesi. Nondimeno
i paesani delle castella, e sì delle ville, per essere più sicuri
donavano al re argento secondo loro possibilità, e di buona voglia
li prendea, e gli fidanzava. E per simile modo avea fatto negli altri
paesi di Francia; prendea da cui gli s’era raccomandato ciò che dare
gli voleano senza bargagnare, e avevali fatti sicuri di preda e di
guasto; onde per questa via avea accolta tanta moneta, che di largo
forniva i soldi ch’avea a pagare, e tutte altre spese occorrenti senza
avere a trarre d’Inghilterra danaio. E per questo modo la sperienza fa
manifesto quello che in fatto e’ parea quasi impossibile, ed era: e per
certo all’acquisto del reame di Francia la fortuna e ’l senno furono
del tutto dalla parte del re d’Inghilterra e solo gli fu in contrade
l’odio e lo sdegno de’ Franceschi, i quali non poteano patire d’udire
ricordare gl’Inghilesi, che sempre come vili genti aveano avuto in
dispetto.

CAP. LXXXIII.
_Come i Normandi con loro armata passarono in Inghilterra._
I Normandi, che più volte aveano in loro terre dagl’Inghilesi ricevuto
oltraggi e vergogna, vedendo che ’l re d’Inghilterra, e’ figliuoli
è ’l duca di Lancastro, di cui ridottavano molto, erano occupati
nell’impresa di Francia, e per ciò passati in Borgogna, pensarono che
’l tempo loro dava spazio di fare loro vendetta. E pertanto di loro
movimento raunarono in piccolo tempo centocinque navili, e di loro
gente gli armarono, e gli feciono passare nell’isola, e si posono a
Sventona e in altri porti, dove arsono legni assai, e feciono quello
danno che poterono il maggiore. Per, questo gl’Inghilesi sommossono
tutti i porti dell’isola, e furiosamente armarono per andare a trovare
i Normandi, i quali temendo i subiti movimenti e avvisi degl’Inghilesi,
avanti che loro armata fosse fornita si partirono, e tornaronsi a
salvamento in Normandia.

CAP. LXXXIV.
_Come il duca di Borgogna s’accordò con gl’Inghilesi._
Del mese di maggio 1360, il giovane duca di Borgogna, seguendo il
consiglio de’ suoi baroni, prese accordo col re d’Inghilterra in
questa forma. Che il re si dovesse partire del paese, e il duca a lui
dovesse dare in tre anni centoventi migliaia di montoni d’oro, come ne
toccasse per anno; e oltre a ciò, ch’avendo il re d’Inghilterra a sua
coronazione del reame di Francia per boce d’imperio, che la sua sarebbe
la seconda. Sotto questa concordia assai grande al re d’Inghilterra,
più per l’onore della promessa e della boce del duca che per altra
cagione il re d’Inghilterra con tutta sua oste si partì di Borgogna,
e dirizzò suo viaggio verso Parigi, non trovando, fuori delle terre
murate, chi lo contastasse niente, e tutti i paesani e le villate che
non si sentivano da poterli fare resistenza gli si feciono incontro,
e per riscatto di loro dammaggi li portavano danari, ed egli per sua
bonarità, ciò che gli era dato prendea, e della sicurtà era a tutti
cortese.

CAP. LXXXV.
_Come il re d’Inghilterra assediò Parigi._
Poichè ’l re d’Inghilterra vide che la fortuna per la maggiore parte
avea favoreggiati tutti i suoi consigli e ordigni, e che tutte le
cose, secondo il suo proponimento necessario a fornire anzi prendere
l’assedio di Parigi gli erano procedute prosperamente, eccetto che
presure di ville o di fortezze notabili, le quali vedea avere riguardo
a Parigi, e che quando la città ch’era capo del reame fosse a sua
podestà l’altre agevolmente gli verrebbono alle mani; e pensò come
ultimo fine d’ogni sua intenzione certo che la ventura gli concedesse
Parigi; e per tanto come trasse il piè di Borgogna, continovate sue
giornate con tutta sua oste se ne venne a Parigi, e giunto e riposato
alcuno dì, il sabato santo a dì 4 d’aprile 1360, la sua oste in tre
parti divise, l’una a Corboglio, l’altra accomandò al duca di Guales,
e lo fè porre in costa dall’altro lato della città, la terza diede al
conte di Lancastro, il quale si fermò dall’altra banda, sicchè quasi
in terzo a sesta fermarono l’assedio, e che questo fosse il deretano
pensiero manifestarono. Il re di Navarra e il fratello, il quale avea
formata pace col Delfino, come addietro dicemmo, a questo punto si
scopersono amici e servidori del re d’Inghilterra, che la pace che
fatta avea era stata infinta e a mal fine. Questa voltura del re di
Navarra e del fratello assai diedono che pensare a’ Franceschi. Il
Delfino avendo alcuno sentore della venuta del re d’Inghilterra e di
suo intendimento, con molti baroni del reame e con grande cavalleria
s’era ridotto in Parigi, e la città avea d’ogni cosa necessaria alla
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