Cronica di Matteo Villani, vol. 4 - 11

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fretta sconciamente si partirono, quasi come in fuga, non aspettando
l’uno l’altro, valicando il colle delle Donne in su quello di Lucca,
ch’era loro presso; sicchè prima furono in su quello di Lucca infra sei
miglia, che l’oste de’ Fiorentini li potessono impedire. E ciò avvenne,
perchè il nostro comune avea imposto al capitano che si guardasse
di non rompere la pace a’ Pisani cavalcando in su quello di Pisa o
di Lucca, che la teneano allora, e per la detta cagione il capitano
non si mise a seguirli. E certo e’ si portò valentemente in tenere a
ordine e bene in punto così grande oste, e farsi temere e ubbidire alla
gente che gli era commessa, e alla forestiera che serviva per amore,
procedendo con savia condotta, e buona e sollecita guardia, per modo
che in pochi giorni ricise il pensiero dell’offesa de’ nemici, e a loro
tolse ogni speranza che ’l conte di Lando avea e gli altri caporali di
fare quel male che aveano promesso di fare al nostro comune. Questa
utile impresa e degna di fama fece assai manifesto, e fece conoscere
pienamente a tutti i comuni di Toscana e d’Italia, e a’ signori, che
gente di compagnia, quantunque fosse in numero grande, e terribile
per sua operazione scellerata e crudele, si potea vincere e annullare,
perocchè la sperienza occorse, che tale gente somigliante furono per
natura vile e codarda cacciare dietro a chi fugge, e dinanzi si dilegua
a chi mostra i denti. Noi vedemo, che il ladro sorpreso nel fallo
invilisce, e lasciasi prendere a qualunque persona; e così addivenne
di questa mala brigata, che solo per rubare si riducea in compagnia. E
per non dimenticare il resto, quello di che giudichiamo degno di nota
intorno a questa materia, pensiamo che fosse operazione di Dio, che
in quel dì ch’elli erano stati sconfitti a piè delle Scalee nell’alpe,
in quel medesimo dì rivolto l’anno e finito, essendo nel piano largo e
aperto, si fuggirono del campo alle Mosche. Basti d’avere tanto detto,
e faremo punto qui alle nostre fortune, per seguire delle straniere
quante n’avvenne ne’ tramezzamenti di questi tempi, secondo che siamo
usati di fare.

CAP. XXXII.
_Come il re d’Ungheria passò nel reame di Rascia._
Poco addietro di sopra scrivemmo i casi occorsi nel reame di Rascia,
e come il re di Rascia s’era partito dall’omaggio del re d’Ungheria,
ed erasi fatto rubello; e seguendo la detta materia, tenendo il re di
Rascia parte della Schiavonia appartenere a dominio al re d’Ungheria,
cessava fare il debito servigio, onde il re d’Ungheria n’era forte
indegnato. Il perchè trovato che il passo della Danoia gli era sicuro,
e ricetto di sua gente apparecchiato per lo barone del re di Rascia,
che colla forza e aiuto degli Ungheri avea vinto e sconfitto il suo
avversario, e fattosi uomo del re d’Ungheria, del mese di maggio 1359,
il re d’Ungheria con più de’ suoi baroni passarono la Rascia con grande
quantità d’arcieri a cavallo e d’altra gente d’arme, colla quale si
partirono dalla riva della Danoia, e passando per piani corsono infino
alle grandi montagne di Rascia, e quivi trovarono nel piano molto di
lungi dalle coste de’ monti gran gente del re di Rascia, quivi ragunata
per difesa del regno. Gli Ungheri vogliosamente s’abboccarono con
loro, e dopo lunga battaglia li ruppono, onde in fuga abbandonarono il
piano, e ridussonsi alla montagna. E avendo la gente del re d’Ungheria
fatto questo principio, il re in persona valicò la Danoia con grande
esercito, e accozzato con l’altra sua oste, e seguendo la fortuna, si
mise contra quella gente vile, e combattendo vinse gli aspri passi per
forza, sicchè in breve tempo tutta la grande montagna fu tutta in sua
balìa. Veggendosi il re prosperare, diliberò di valicare in persona la
montagna, ma i baroni suoi non glie l’assentirono, perchè non parve
loro che per questo la persona del re si mettesse a questa ventura,
ma molti de’ baroni e molta di sua gente valicò per combattersi
col re de’ Servi, che così è titolato il re di Rascia; il quale in
campo non osò comparire, ma con tutta sua gente si ridusse, secondo
loro costume, alle fortezze delle boscaglie, ove non poteano essere
impediti, senza smisurato disavvantaggio di chi ne fosse messo alla
punga. Gli Ungheri senza trovare contradizione o resistenza alcuna
piccola o grande cavalcarono infra ’l reame più d’otto giornate per
li piani aperti, non trovando niente che potessono predare, perchè
tutto era ridotto alle selve; alquanti cavalieri ungheri si misono
il campo in una boscaglia, ed essendo assaliti d’alquanti villani,
credendo avere trovato il grosso de’ nemici, assai di loro si ferono
cavalieri, stimando di venire a battaglia, i quali appellati furono poi
per diligione e scherno i cavalieri della Ciriegia, perocchè essendo
abbattuti nel bosco a’ ciriegi, ne mangiavano quando da’ detti villani
furono assaliti. Il re d’Ungheria, veggendo sua stanza senza profitto,
non avendo trovato contasto, con tutta sua oste si ritornò in Ungheria.

CAP. XXXIII.
_Come messer Feltrino da Gonzaga tolse Reggio a’ fratelli._
Messer Guido da Gonzaga signore di Mantova, quando fermò la pace tra’
signori di Milano e la lega di Lombardia, segretamente promise a messer
Bernabò, che per li suoi danari gli darebbe la città di Reggio. Questo
segreto venne agli orecchi di messer Feltrino suo fratello innanzi che
la detta promessa avesse effetto. Messer Feltrino prese suo tempo, e
senza saputa di messer Guido entrò in Reggio, e con aiuto di gente e
d’amici rubellò la città. Messer Guido credendo ricoverare la città per
forza, del mese di maggio del detto anno ricolse grande gente d’arme,
e impetrò ed ebbe aiuto da’ signori di Milano: e stando in Mantova, e
ordinandosi per porre l’assedio, sentì che ’l signore di Bologna e ’l
marchese di Ferrara aveano alla difesa fornita la terra, onde si rimase
dell’impresa, la quale faceva malvolentieri, per non appressarsi troppo
la forza de’ signori di Milano.

CAP. XXXIV.
_Come il vescovo di Trievi sconfisse gl’Inghilesi._
Il vescovo di Trievi veggendo il reame di Francia in tanta rivoluzione
e traverse, e che necessario era a’ cherici per difesa di loro
franchigia prendere l’arme, come uomo valoroso, ricolse gente d’arme e
d’amistà e di soldo, e abboccossi per avventura in un assalto con certi
Inghilesi, ch’erano guidati per gente del re di Navarra, e combattè
con loro e sconfisseli, i quali erano intorno di millecinquecento, de’
quali assai ne furono morti. In questo medesimo giorno il Delfino di
Vienna si mise ad assedio a Monlione, il quale era venuto alle mani
degl’Inghilesi, per racquistarlo, e forte lo strinse, perchè essendo il
castello presso a dieci leghe a Parigi, gli parea gran vergogna fosse
della corona e grande abbassamento che fosse in podestà de’ nemici, e
’l luogo era molto presso a Parigi, e forte offendea. Durante l’assedio
avea il Delfino a suo soldo certi baroni alamanni, e non avendo di che
pagarli, loro diede in gaggio due buoni castelli del reame. Puossi
considerare in quanta soffratta e debolezza era in questi giorni il
reame di Francia, che si stimò per li savi se non fosse stato, com’era,
antico e corale l’odio per lunghe riotte aveano avute i Franceschi e
gl’Inghilesi, in dispetto innaturale convertito, il quale facea a’
Franceschi sostenere ogni affanno e ogni tormento, per certo il re
d’Inghilterra era sovrano della guerra.

CAP. XXXV.
_Come fu soccorsa Pavia, e levatone l’oste de’ Visconti._
L’oste di messer Galeazzo signore di Milano lungamente era stato sopra
Pavia con certe bastite, forte tenendo stretta la terra; il marchese
di Monferrato preso suo tempo, con la più gente potè ragunare s’entrò
cautamente in Pavia, e avuto per sue spie del reggimento dell’oste,
e del poco ordine e guardie di quelli delle bastie, subitamente e
aspramente li assalì improvviso, e li ruppe e sbarattò, e liberò
dall’assedio, e menò in Pavia più di dugentocinquanta cavalieri e molti
prigioni, e fornimento e arnese; e ciò fatto, si tornò alle terre sue.
Messer Galeazzo per la sua gran potenza poco pregiando quella rottura
rifornì subitamente le frontiere di Pavia di gente d’arme assai più
che di prima, facendo tutto dì cavalcare in sulle porti di Pavia di
gente d’arme assai più che di prima, sicchè senza tenervi bastia forte
gli affliggea, e tenevagli sì stretti, che non s’ardivano d’uscir
fuori persona, e di loro frutti non poteano avere bene. E del seguente
mese di luglio il detto messer Galeazzo fece un’altra grande oste, e
mandolla nel Monferrato addosso al marchese.

CAP. XXXVI.
_Come il capitano di Forlì s’arrendè al legato._
Avendo perduto il capitano di Forlì il caldo della compagnia, ed
essendo per la lunga guerra molto battuto, e vedendo che più non potea
sostenere, e che poco era in grazia e in amore de’ suoi cittadini
per la messa che fatta avea della compagnia in Forlì, essendo tra il
legato e lui per mezzani lungo trattato d’accordo, prese partito di
arrendersi liberamente alla discrezione e misericordia del legato,
con alcuna promessa d’essere bene trattato e del modo, che a dì 4 di
luglio 1359, il legato in persona, avendo prima messa la gente sua e
prese le fortezze, entrò in Forlì con grande festa e solennità e di
sua gente e de’ cittadini di Forlì. Nella quale entrata Albertaccio
da’ Ricasoli cittadino di Firenze, il quale al continovo era stato
al consiglio segreto del cardinale, e delle sue guerre in gran parte
conducitore e maestro, in sull’entrare del palagio fatto fu cavaliere.
E ciò fatto, il legato ordinato la guardia della città e lasciatovi
suo vicario se n’andò a Faenza, e ivi in piuvico parlamento, essendo
dinanzi da lui messer Francesco degli Ordelaffi per addietro capitano
di Forlì, riconobbe e confessò tutti i suoi falli ed errori che
commessi avea contro la Chiesa di Roma e suoi pastori, i quali letti
li furono nella faccia in presenza del popolo, domandando umilmente
perdono e misericordia dalla Chiesa di Roma. Il legato fatto ciò, e in
lungo e bello sermone gravando in parole l’ingiurie e la pertinacia
della resia, e le pene nelle quali era incorso il capitano, privollo
d’ogni dignità e onore, e per penitenza gl’impose, ch’elli vicitasse
certe chiese di Faenza in certa forma; e ciò fatto, il legato cavalcò
a Imola, ove venne il signore di Bologna sotto la cui confidanza il
capitano s’era arrenduto; e stati a parlamento insieme più giorni,
a dì 17 di luglio, il cardinale ricomunicò nella mensa messer
Francesco degli Ordelaffi, e nominatamente tutti i suoi aderenti
e quelli che l’aveano favoreggiato, e ristituillo nell’onore della
cavalleria, e perdonogli tutte l’offese per lui fatte alla Chiesa di
Roma, e annullò ogni processo per lui fatto di resia contro a lui, e
ridusselo nella grazia sua, e dichiarò che dieci anni fosse signore
di Forlimpopoli e di Castrocaro, potendo stare in ciascuno de’ detti
luoghi famigliarmente, e rimanendo le rocche in guardia d’amici comuni,
e liberamente li ristituì la moglie, e’ figliuoli, e tutti quelli
che tenea in prigione degli amici e seguaci del capitano; e così
ebbe fine la lunga e pertinace guerra e ribellione del capitano di
Forlì; e per la detta cagione la Romagna rimase in pace, e liberamente
all’ubbidienza della Chiesa di Roma.

CAP. XXXVII.
_Di una compagnia creata d’Inghilesi in Francia._
Volendo il re d’Inghilterra mostrare osservazione di pace secondo
l’ordine, infintamente in suo titolo o nome niuna guerra fatta nel
reame di Francia, ma i molti Inghilesi ch’erano nel reame seguendo
il segreto ordine dato per lui ora con uno ora con altro caporale
s’accostavano che li guidasse a guerreggiare e sconciare il reame di
Francia; in questi tempi della state uno sartore inghilese il quale
avea nome Gianni della Guglia, essendo nella guerra dimostrato prode
uomo con gran cuore in fatti d’arme cominciò a fare brigata di saccardi
e assai Inghilesi che si dilettavano di mal fare, e che attendeano a
vivere di rapine, e cercando e rubando ora una villa ora un’altra nel
paese crebbe in tanto sua brigata, che da tutti i paesani era ridottato
forte; e per questo senza i casali non murati cominciarono tutti a
patteggiarsi con lui, e li davano pannaggio e danari, ed egli li faceva
sicuri; e per questo modo montò tanto sua nomea che catuno si facea suo
accomandato, onde in pochi mesi fece gran tesoro. Essendo moltiplicato
di gente e d’avere, cominciò a passare di paese in paese, e sì andando
venne insino al Pau, e ivi prese laici, e’ cherici rubò, e’ laici
lasciò andare; onde la corte di Roma ne mostrò gran paura, e pensava
a farsi forte per resistere a quella brigata. Costui nell’avvenimento
del Pau de’ signori d’Inghilterra lasciò il capitanato e la gente, e
ridussesi all’ubbidienza del re, e de’ danari ch’avea accolti ne fè
buona parte a’ reali; e così andavano in que’ tempi i fatti di Francia.

CAP. XXXVIII.
_D’una zuffa che fu tra gli artefici di Bruggia._
Noi avemo detto più volte, che ’l mondo per lo suo peccato non sa
nè può stare in riposo, e le sue travaglie, le quali scrivemo, ne
fanno la fede, che si può dire veramente l’opera nostra il libro
della tribolazione, e nuove. In questi dì a dì 17 di luglio, avendo
il conte di Fiandra ragunata la comune di Bruggia per alcuna sentenza
che dare dovea per danno d’alcuno sopra certo misfatto, uno calzolaio
prosuntuosamente si levò a dire nella ragunanza contro alla volontà
del conte, il perchè due degli altri minuti mestieri parlando lo
ributtarono, e dissono contro a lui. Il calzolaio trasse fuori la
spada, e disse, che chi ’l volesse seguire con sua arme n’andasse
alla piazza di Bruggia, il perchè molti de’ mestieri il seguirono; e
ragunati in sul mercato con loro arme e transegne stavano in punto,
e attenti per rispondere a chi gli volesse di quel luogo cacciare.
Altri mestieri, che non erano contenti che costoro pigliassono nella
villa maggioranza, de’ quali si feciono capo folloni e tesserandoli,
s’andarono ad armare, e in breve spazio di tempo in gran numero
si ragunarono in sul mercato, e di subito senz’altro consiglio in
fiotto si dirizzarono a coloro ch’erano schierati in sulla piazza, e
percossonli, e rupponli, e nell’assalto n’uccisono cinquantasette,
e molti ne magagnarono di fedite. E ciò fatto, co’ loro avversari
di presente feciono la concordia, e di loro feciono tre capi, uno
tesserandolo, e uno carpentiere, e uno calzolaio, e in questi tre fu
riposto e commesso il fascio e tutto il pondo di loro governamento
e reggimento; e al conte non feciono violenza alcuna, nè niuno mal
sembiante. E racchetò la furia e il bollore del popolo in un batter
d’occhio, questi tre mandarono la grida, che catuno andasse a fare
suo mestiero, e ponesse giù l’arme, e così fu fatto. Che a pensare,
ed è incredibile cosa e maravigliosa, che il tumulto di tanto popolo
con cotante offensioni e tempeste s’acquetasse così lievemente, senza
ricordo delle ingiurie sanguinose mescolate della pace, ciò si può
dire, che in un punto fu la pace, e l’aspra e crudele guerra.

CAP. XXXIX.
_Come l’imperadore de’ Tartari fu morto._
In questo tempo il figliuolo di Giannisbec imperadore de’ Tartari,
ch’abitava intorno alla marina del Mare oceano detto volgarmente il
Mare maggiore, avendo pochi anni tenuto l’imperio, e in quello piccolo
tempo fatto morire per diversi modi quasi tutti quelli ch’erano di suo
lignaggio, o per paura che non li togliessono la signoria, o per altro
animo imperversato e tirannesco, ultimamente caduto in lieve malattia,
affrettato fu di morire d’aprile 1359. E quanto che sua vita fosse
con molta guardia e cautela, difendere non si seppe da morte violente,
tanto era per sua iniquità mal voluto: e pur venne l’imperio dove con
sollecitudine s’era sforzato che non pervenisse, a uno di sua gesta.

CAP. XL.
_Di novità de’ Turchi in Romania._
Nel medesimo tempo di sopra Ottoman Megi, il maggiore signore de’
Turchi, avendo riavuto il figliuolo il quale, come dicemmo, era stato
preso da’ Greci, col detto suo figliuolo insieme con esercito grande
di Turchi avea lungo tempo assediata Dommettica, nobile e bella città
posta in Romania, la quale non essendo soccorsa dall’imperadore di
Costantinopoli nè dagli altri, e non potendosi più tenere, s’arrendè, e
venne in potestà de’ Turchi. E avendola Ottoman di sua gente di guardia
fornita, con grandissima gente di Turchi si dirizzò a Costantinopoli,
con speranza di prendere la terra, o per assedio, o per battaglia; e
giunti, fermarono loro campo presso alla città, correndo spesso per
tutti i paesi dintorno, e facendo a’ Greci grandissimo danno. E ivi
stati lungamente senza fare acquisto di cosa che venisse a dire niente,
veggendo che poco potea adoprare, se ne tornò in Turchia.

CAP. XLI.
_Come il Delfino di Vienna fece pace col re di Navarra._
Quanto che la pace fatta tra’ due re d’Inghilterra e di Francia in
sostanza fosse nonnulla, nondimanco per non potere per onestà offendere
palesemente forte era allentata la guerra, e molti Inghilesi s’erano
tornati nell’isola con quello ch’aveano potuto avanzare del nò e del
sì. Al re di Navarra pochi Inghilesi erano rimasi, onde non potendo
tanto male fare quanto per l’addietro era usato, questa tiepidezza
di tempo diede materia a quei baroni di cercare pace tra ’l re e ’l
Delfino, la quale per le dette cagioni assai tosto seguì. E accozzati
il re e ’l Delfino, per buona e ferma pace si baciarono in bocca, e
il re promise di stare in fede della corona di Francia, e d’atare il
Delfino a suo potere contro all’oppressione degl’Inghilesi. Questa pace
molto fu cara, e di gran contentamento a’ Franceschi, perocchè la loro
divisione era stata materia del guasto di Francia. Ma come che ’l fatto
si fosse, la pace i più pensarono che fosse con inganno e a mal fine
per la viziata fede del re di Navarra, e corrotta per l’usanza delle
scellerate cose in che egli era trascorso, immaginando che non meno
potesse nuocere sotto fidanza di pace, che fatto s’avesse nella guerra
palese. E così ne seguette, come apparve poco appresso per segni aperti
e manifesti.

CAP. XLII.
_Come l’oste de’ Fiorentini tornò a Firenze e la compagnia ne andò
nella Riviera._
Fuggita la compagnia del campo delle Mosche dov’erano stati appetto
dell’oste de’ Fiorentini per speranza venti giorni, com’è addietro
narrato, ed essendo al ponte a San Quirico in sul fiume del Serchio,
molti se ne partirono, e chi prese suo viaggio, e chi in uno e chi in
altro paese; e la maggiore fortezza di loro, ch’era col conte di Lando,
e con Anichino di Bongardo, quasi tutta di lingua tedesca, prese il
soldo dal marchese di Monferrato: e ricevuto per loro condotta in parte
di paga ventottomila fiorini d’oro, tutto loro arnese grosso con gran
parte di loro gente misono in arme. E conducendoli sempre i Pisani, e
avuto licenza dal doge e da’ Genovesi, e dato loro stadichi di non far
danno per la Riviera, donde loro convenia passare, e di torre derrata
per danaio, se n’andarono in sulla Magra; e s’affilarono uomo innanzi
a uomo, e misonsi in cammino per li stretti e malagevoli passi, che
alla via loro non era altra rimasa. Nè per ricordo si trova, che dal
tempo d’Annibale in qua gente d’arme numero grande per que’ luoghi
passasse, perchè sono vie malagevoli alle capre. E bene verifica la
sentenza di Valerio Massimo, il quale dice, che la nicistà dell’umana
fiebolezza è sodo legame, la quale in questa forma è rivolta in verbo
francesco. Necessità fa vecchia trottare. In questo cammino senza niuna
offesa, solo che di male vivere, misono tempo assai. La compagnia,
come detto avemo, preso suo viaggio, l’oste del comune di Firenze
stette ferma in sul campo infino al giovedì a dì primo d’agosto 1359;
a quel dì con grande festa levarono il campo molto ordinatamente, e
passarono da Serravalle, e alloggiaronsi la sera alla Bertesca tra i
confini di Firenze e di Pistoia, stendendosi fino a Prato; il venerdì
mattina a dì 2 d’agosto di quindi si tornarono a Firenze. I Fiorentini
per onorare il capitano li mandarono incontro alla porta due grandi
destrieri coverti di scarlatto, e un ricco palio d’oro levato in asti
con grandi drappelloni pendenti alla reale, sotto il quale vollono
ch’egli entrasse nella terra a guida di cavalieri, e gentili uomini e
popolari, ma il valente capitano prese e accettò cortesemente con savie
parole i cavalli, ch’erano doni cavallereschi, e ricusò di venire sotto
il palio; e fulli a maggiore onore riputato. E per rendere al comune
l’insegne, con la gente ordinata come l’avea a campo tenuta, nella
prima frontiera mise i balestrieri e gente a piè, e appresso la camera
del comune, poi gli Ungheri, appresso i cavalieri, e in fine mise il
palio innanzi per onore del comune alla sua persona, e senza niuna
pompa in mezzo del conte di Nola e del figliuolo di messer Bernabò,
e’ venne per la città al palagio de’ signori priori, e ivi con grande
allegrezza rassegnò il bastone e l’insegne a’ signori priori, le quali
accomandate gli aveano, e da indi a pochi giorni fatto a grande numero
di cittadini un nobile e solenne convito se ne tornò in Romagna.

CAP. XLIII.
_Della morte e sepoltura di messer Biordo degli Ubertini._
Messer Biordo degli Ubertini fu cavaliere gentilesco e di bella
maniera, costumato e d’onesta vita, savio e pro’ della persona, e
ornato d’ogni virtù, e per tanto in singolare grazia dell’imperadore,
e molto amato dal legato di Spagna e da molti altri signori. Costui e’
suoi consorti in questi tempi forte s’inimicavano co’ Tarlati d’Arezzo,
e molto erano da loro soperchiati; onde egli avendo provato che ’l
caldo e il favore de’ detti signori era troppo di lontano di passaggio
e di poco profitto, sopra tutto desiderava d’essere confidente e
servidore del comune di Firenze, la cui amicizia vedea ch’era stabile e
diritta, e che gratificava il servigio; perchè, come addietro dicemmo,
per essere egli e’ suoi in bando e ribelli del comune di Firenze,
offerse il servigio di sè e de’ suoi contro la compagnia, e accettato
venne nell’oste, dove per mostrare quello ch’egli era s’affaticò sopra
modo, che da tutti fu ricevuto da grande sentimento in opera d’arme,
tornato col capitano a Firenze, subito cadde in malattia. Il comune
avendo prima avuto a grado sua liberalità, e appresso l’opere sue, di
presente lo ribandirono co’ consorti suoi, e per mostrare verso lui
tenerezza, con molti medici alle spese del comune lo feciono medicare;
ma come a Dio piacque, potendo più l’infermità che le medicine, la
mattina a dì 16 d’agosto divotamente rendè l’anima a Dio. Il corpo
si serbò sino nel dì seguente, per attendere il vescovo d’Arezzo suo
consorto e gli altri di casa sua; ed essendo venuti, per lo comune
furono fatte l’esequie della sua sepoltura riccamente, e alla chiesa
de’ frati minori ove si ripose, che tutte le cappelle, e ’l coro, e
sopra una gran capanna fu fornita di cera e con molti doppieri, e sopra
la bara un drappo a oro con drappelloni pendenti coll’arme del popolo e
del comune, e di parte guelfa e degli Ubertini, e con vaio di sopra con
sei cavalli a bandiere di sue armi, e uno pennone di quello del popolo
e uno di parte guelfa, con molti fanti e donzelli vestiti a nero. Fu
cosa notabile e bella in segno di gratitudine del nostro comune, il
quale volentieri onora chi onora lui, dimettendo le vecchie ingiurie
per lo nuovo bene, e non avendo a parte rispetto, ma alle operazioni
fedeli e devote. Alle dette esequie fu il detto vescovo, e ’l Farinata
e tutti gli altri consorti vestiti a nero, e’ signori priori, e’
collegi, e’ capitani della parte, e gli altri rettori e uficiali del
comune, e tutti i cherici e buoni cittadini, e ’l chericato tutto e’
religiosi di Firenze. Morì in casa i Portinari; e la bara si pose in
sul crocicchio di Porta san Piero dalla loggia de’ Pazzi, dove posta
la mattina, tanto vi stette, che ’l vescovo venne: e intorno alla
bara erano fanti vestiti di nero, e cavalli e bandiere, l’uno appresso
l’altro, parte per la via, che viene al palagio della podestà, e parte
per quella che va a santa Reparata; fu cosa ricca e piatosa, e tutto
il popolo piccoli e grandi trassono a vedere. Abbianne fatta più lunga
scrittura che non si richiede, perchè ne parea fallire, se onorandolo
tanto il nostro comune noi non l’avessimo con la penna onorato, e
perchè pensiamo, che sia esempio a molti a tramettersi a ben fare,
veggendo essere il bene operare premiato a coloro che ’l meritano.

CAP. XLIV.
_Come i Perugini mandarono ambasciata a Siena, e abominando i
Fiorentini._
L’arbitrata sentenza data sopra la pace tra il comune di Perugia
e quello di Siena, tutto che fosse comune utile e buona, all’uno e
all’altro comune forte dispiacea, come addietro abbiamo narrato, e
ciascheduno con sua ambasciata che piacesse al nostro comune per suo
onore e grazia loro annullare; e ciò fare non volse, perchè quasi
niente derivava da’ ragionamenti fatti con gli ambasciadori de’ detti
comuni, se non ch’alquanto nel tempo e nel modo, onde la pace si
rimase con le strade bandite, ma con gli animi pregni e pieni d’odio
e di stizza, e vollonsi dirompere se l’impossibilità non gli avesse
tenuti, perocchè tanto aveano speso, che premendo loro borse niente
vi si potea trovare se non vento e rezzo. I Perugini pregni d’animo,
alterosi e superbi, senza avere di loro possa riguardo, per mostrare
sdegno d’animo contro a’ Fiorentini, crearono otto ambasciadori di
loro cittadini più nominati e più cari, e vestironli di scarlatto, e
accompagnaronli di giovanaglia vestiti d’assisa dimezzata di scarlatto
e di nero, e con molta pompa li mandarono a Siena, dove furono ricevuti
con festa rilevatamente all’usanza sanese, recandosi in grande gloria
questa mandata; e qui ritta in parlamento, cortesemente infamando il
comune di Firenze, nella proposta dissono; l’uomo nimico nel campo del
grano soprassemina la zizzania, cioè il loglio; e recando il processo
del parlare a questa sentenza, copertamente la ridussono e rivolsono
contro al nostro comune, conchiudendo ch’e’ s’erano ravveduti, e a loro
veniano come a cari fratelli, per fermare e mantenere con gli animi
buoni, e magni e liberali, perpetua e liberale e buona pace, posta
giù ogni onta e dispetto, e ogni cruccio nel quale a stigazione altrui
fidandosi poco avvedutamente erano incorsi; e infine uditi volentieri,
presono co’ Sanesi di nuovo fermezza di pace. I Fiorentini molto si
rallegrarono della pace per sospicione che li tenea sospesi di rottura
per lo poco contentamento che l’uno comune e l’altro dimostrava in
parole di quella ch’era fatta, come fu detto di sopra; vero è che molto
punsono le villane e disoneste parole de’ Perugini, e molto furono
notate e scritte ne’ cuori de’ cittadini. Tutto poi che i Perugini
s’ingegnassono di scusare loro baldanzosa e poco consigliata diceria
e proposta, per la detta cagione poco appresso seguette, che avendo i
Perugini fatta ragunata di gente, per fama si sparse che tentavano in
Arezzo coll’appoggio degli amici di messer Gino da Castiglione. Onde
per questo sospetto, a dì 12 d’agosto, il comune di Firenze vi mandò
quattrocento cavalieri, e assai de’ suoi balestrieri: poi si trovò
che nel vero i Perugini intendeano altrove, ma pure per l’odio che
novellamente aveano in parole dimostrato, crebbe eziandio per questa
non vera novella.

CAP. XLV.
_Come il comune di Firenze mandò aiuto di mille barbute a messer
Bernabò contro alla compagnia._
Avendo la compagnia preso viaggio per la Riviera di Genova sotto titolo
di soldo contro a’ signori di Milano, i Fiorentini il cui animo era a
perseguitarla, e perseguire a loro podere il pericoloso nimico nome di
compagnia in Italia, e avendo rispetto a questo volere, ma molto più al
servigio ricevuto da messer Bernabò contro a essa compagnia; di tutta
sua gente sceltane il fiore, e in numero di mille barbute, prestamente
e senza resta, a dì 18 d’agosto la fece cavalcare verso Milano sotto
la insegna del comune di Firenze, a guida di loro cavalieri popolari,
i quali ricevuti graziosamente in Milano, cavalcarono nell’oste. Elli
furono vincitori, come al suo tempo diviseremo, non tanto per lo numero
loro, nè per la forza loro, quanto per la fama del favore del nostro
comune, che grande era a quell’ora, per la viltà presa per la compagnia
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