Cronica di Matteo Villani, vol. 4 - 17

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di Francia, da Bologna sul mare andò a Calese a vedere il padre, e
desinò col re d’Inghilterra, l’altra mattina si partì. È vero che
perchè non dubitasse lo re d’Inghilterra mandò a Bologna due figliuoli
come staggi; poi sabato mattina a dì 24 di luglio, l’abate di Clugnì
nella Chiesa di san Niccolò in Calese, nella presenza de’ detti
due re e di due figliuoli di ciascuno, e di più di sessanta baroni
tra dell’uno e dell’altro re, disse messa, e consegrato il corpo di
Cristo, quando venne al terzo Agnus Dei che dice, dona nobis pacem,
li detti due re si inginocchiarono con molta reverenza; l’abate si
rivolse a loro col corpo di Cristo sagrato in mano, sopra il quale i
due re giurarono d’attendere e osservare il trattato della pace, poi
di quella detta ostia si comunicarono insieme. Appresso l’abate loro
porse li santi Evangeli, e ancora sopra essi giurarono; giurato che
ebbono i due re, similemente giurarono i loro figliuoli, e tutti i
loro baroni che erano quivi nel numero detto di sopra. Detta la messa,
messer Filippo di Navarra con tre baroni per parte del re di Navarra,
e il duca d’Orliens fratello del re di Francia con tre altri baroni
feciono e giurarono pace in vece e nome del re loro. Appresso il re
d’Inghilterra fece pace col conte di Fiandra, e il duca di Lancastro
cugino del re d’Inghilterra fece omaggio al re di Francia per le terre
che da lui tenea in Campagna per retaggio della madre; e in questo
stante la contea di Monforte fu renduta a messer Gianni di Brettagna.
Lo re di Francia per mostrare sua magnificenza, sopra i patti della
pace di grato donò al re d’Inghilterra la Roccella. Fu la detta pace
gridata ne’ due reami a dì 24 d’ottobre 1360. Lo re d’Inghilterra
dove in suo titolo dicea, re di Francia e d’Inghilterra, signore
d’Irlanda e d’Aquitania, del detto titolo levò re di Francia, ma non
rinunziò perciò alla signoria di Francia, perchè lo re di Francia
non avea rinunziato alla sovranità e risorto delle città e castella,
terre e cose le quali per l’osservanza della pace avea concedute al re
d’Inghilterra, ma bene l’avea tratte della sorte della città, castella
e luoghi al suo reame debiti e sottoposti; e certo per li patti
rinunziare dovea, ricevute certe terre dal re d’Inghilterra: e ciò
consentendo li due re, parvono per grandezza d’animo in tacito accordo.
Lo re di Francia, lo quale era stato prigione d’Inghilterra anni
quattro e dì venticinque, pagati li secento migliaia di scudi, e con la
buona volontà del re d’Inghilterra se n’andò a Bologna sul mare, e di
là poi a santo Dionigi. Lo re d’Inghilterra di poi a dì 31 di gennaio
partì da Calese, e seco ne menò il duca d’Angiò e quello di Berrì
figliuoli del re di Francia, e il duca d’Orliens, e quello di Borbona,
messer Piero di Lanzone, e ’l fratello del conte di Stapè, tutti de’
reali di Francia, con tutti gli altri baroni e quelli che scrivemo di
sopra che dovea staggi tenere. Lo re di Francia essendo a san Dionigi,
avanti ch’entrasse in Parigi, a dì 2 di dicembre mandò al re di Navarra
che venisse a lui, e perchè sicuramente venisse, gli mandò sofficienti
stadichi. Lo re di Navarra non gli parendo avere misfatto alla corona
liberamente insieme con gli staggi che ’l re gli avea mandati venne
a lui, e giuntò gli fè la debita riverenza, e dipoi appresso giurò in
sul corpo di Cristo sagrato nella presenza del re, che da quel giorno
innanzi gli sarebbe buono e leale figliuolo, e fedele suggetto. Lo
re di Francia appresso giurò che a lui sarebbe buon padre e signore:
seguendo appresso il duca di Normandia e messer Filippo di Navarra
giurarono fedelmente diritta amistà e fratellanza; e più il detto re di
Navarra promise e giurò di fare a suo podere che ’l re d’Inghilterra
la pace conchiusa a Briagnì osserverebbe. Il seguente dì, che fu il
tredecimo dì di dicembre, lo re di Francia entrò in Parigi, dove a
grande onore fu ricevuto, e donato dalla comune vasellamento d’argento
appresso di mille marchi. Lo re riposato, ordine diede a dirizzare e
sè e il reame regolandosi a minori spese, e fè battere moneta a soldi
sedici il franco.

CAP. CVI.
_Come tre castella si rubellarono nella Marca al legato._
Scritto avemo il fine della lunga guerra delli due re di Francia e
d’Inghilterra, tornando alle italiane tempeste ne occorre, che essendo
l’oste di messer Bernabò a Bologna, continovo facea tenere trattati in
Romagna e nella Marca, e li paesani per le disordinate gravezze che
il legato faceva loro si rammaricavano forte, onde a coloro ch’erano
disposti a mal fare ne cresceva baldanza; e però a petizione di
quelli da Boschereto, aspettando forza da messer Bernabò secondo la
promessa, ribellarono in un dì all’uscita di luglio il loro castello di
Boschereto, e Corinalto e Montenuovo, in loro vicinanza, terre forti e
ubertuose d’ogni bene da vivere. Il legato sentendo questa ribellione,
incontanente vi fece cavalcare messer Galeotto de’ Malatesti con
gente assai a piè e a cavallo, e innanzi che quelli di Corinalto si
potessono provvedere alla difesa furono soprappresi in pochi dì per
modo s’arrenderono, e salvate le persone, il castello fu rubato e
arso. L’altre due ch’erano più forti e meglio ordinate alla difesa
ricevettono l’assedio, aspettando soccorso dall’oste di messer Bernabò.

CAP. CVII.
_Come mortalità dell’anguinaia ricominciò in diverse parti del mondo._
Non è da lasciare in obliazione la moría mirabile dell’anguinaia in
quest’anno ricominciata, simile a quella che principio ebbe nel 1348
infino nel 1350, come narrammo nel cominciamento del primo libro di
questo nostro trattato. Questa pestilenza ricominciò del mese di maggio
in Fiandra, che di largo il terzo de’ cittadini e oltra morirono,
offendendo più il minuto popolo e povera gente che a’ mezzani, maggiori
e forestieri, che pochi ne perirono, e durovvi infino all’uscita
d’ottobre del detto anno, e così seguitò per l’altra Fiandra. In
Brabante toccò poco, e così in Piccardia, ma nel vescovado di Lieges
fè spaventevole dammaggio, perocchè la metà de’ viventi periro. Di
poi si venne stendendo nella bassa Alamagna toccando non generalmente
ogni terra, ma quasi quelle dove prima non avea gravate, e valicò nel
Frioli e nella Schiavonia; e fu di quella medesima infertà d’enfiatura
d’anguinaia e sotto il ditello come la prima generale, e sì era passato
dal tempo di quella e suo cominciamento a quello di questa per spazio
di quattordici anni, e anni dieci della fine di quella a questa,
essendo alcuna volta tra questo tempo ritocca ora in uno ora in altro
luogo, ma non grande come questo anno, certificando gli uomini correnti
nel male che la mano di Dio non è stanca nè limitata da costellazioni
nè da fisiche ragioni. Addivenne nel Frioli e in Ungheria, che la moría
cominciata in enfiatura tornò in uscimento di sangue, e poi si convertì
in febbre, e molti febbricosi farnetici, ballando e cantando morivano.
E in questi tempi occorse cosa assai degna di nota, che in Pollonia,
nelle parti confinanti con le terre dell’imperio, essendo in esse
grandissima quantità di Giudei, i paesani cominciarono a mormorare,
dicendo, che questa pestilenza loro venia per i Giudei; onde i Giudei
temendo mandarono al re de’ loro anziani a chiederli misericordia, e
fecionli gran doni di moneta, e d’una corona di smisurata valuta; lo re
conservare gli volea, ma i popoli furiosi non si poterono quietare, ma
correndo straboccatamente tra’ Giudei, e quasi a ultima consumazione,
con ferro e fuoco oltre a diecimila Giudei spensono, e alla camera del
re tutti i loro beni furono incorporati.

CAP. CVIII.
_Come il comune di Firenze prese Montecarelli e Montevivagni, e in essi
preso il conte Tano, venuto a Firenze fu decapitato._
Essendo il conte Tano de’ conti Alberti per i suoi difetti e prave
operazioni nemico al comune di Firenze, massimamente per l’accostarsi
che fè con l’arcivescovo di Milano, in cui favore, (quando la gente
del detto arcivescovo, essendone capitano messer Giovanni da Oleggio,
passò in Mugello, e assediò la Scarperia) ribellò il castello di
Montecarelli, caldeggiando l’oste ch’era alla Scarperia, di questa
impresa ne piace dire alcuna piacevole e notabile ricordanza; che
essendo appresso del detto conte un matto giocolaro, un giorno si mise
in un fossato che dividea il contado del conte da quello del comune
di Firenze, e quivi come assalito ad alta boce cominciò a gridare per
molte riprese, accorri uomo, alle cui grida trassono in breve tempo
oltre a cinquecento fanti del contado del comune di Firenze, i quali
per le malizie del conte stavano sempre ad orecchi levati, e simile vi
trasse il conte, e riprese il matto, ed esso riprese lui, dicendoli:
Conte, guarda che a un mio piccolo grido subito sono corsi cinquecento
uomini di quello del comune di Firenze, e niuno tratto ce n’è di quelli
dell’arcivescovo di Milano: in buona fè, conte, tu sonerai il corno
d’Orlando, e in tuo aiuto e favore non trarranno cinque di quelli di
Milano in un anno. Lo detto conte bestiale, o per paura ch’avesse
del comune di Firenze, o per averlo a vile, gli sbanditi del detto
comune ritenea, e coloro ch’erano più rei e famosi di mal fare; per
questo avvenne, che a loro posta entravano nel Mugello, e gli uomini
uccideano e rubavano, e rifuggeano in Montecarelli, e ciò feciono
sconciamente più volte; il perchè il comune ciò fè noto all’arcivescovo
di Milano, il quale rispuose ch’era contro a sua coscienza, e ch’esso
non era favoreggiatore di ladroni, e che il comune di Firenze facesse
quello volesse giustizia e pace del paese; il perchè il comune con
ordinato processo fè sbandire e condannare il detto conte e più altri
nell’avere e nella persona, nonostante che per la pace dal comune
di Firenze all’arcivescovo costui da’ Fiorentini non dovesse essere
gravato. Quivi procedette, che a dì 12 d’agosto detto anno, il comune
di Firenze mandò dugento uomini di cavallo e molti fanti del Mugello
a Montecarelli, avendo trattato con fedeli del conte che il castello
sarebbe dato. Il conte Tano veggendo gli atti de’ fedeli, e di quelli
prendendo sospetto, s’era rifuggito co’ masnadieri che seco avea, e con
gli sbanditi del comune di Firenze in Montevivagni. Come il castello
di Montecarelli fu attorniato dalla gente del comune di Firenze, i
fedeli del conte che l’aveano in guardia seguendo il trattato di subito
s’arrenderono salvi, ricevuti furono nella protezione del comune.
Il castello per diliberazione del comune infino alle fondamenta fu
abbattuto, e il capitano di Firenze fatto capitano dell’oste si dirizzò
all’assedio di Montevivagni; ed essendosi il conte provveduto alla
difesa, per gli suoi sconci peccati perdè il senno a non prendere
accordo col comune di Firenze, che ’l potè avere a vantaggio, solo
dando le ragioni del detto Montevivagni al comune di Firenze, e
prendendo danari, anzi si mise mattamente alla difesa; il capitano
dell’oste gli tolse per forza un poggetto nomato l’Arcivescovo, e ciò
avuto, d’intorno intorno l’assediò infino a dì 8 di settembre. Questo
dì vi cominciò a dare la battaglia, e combattendosi forte, quelli
ch’aveano la guardia della torre domandarono d’essere salvi come
gli altri fedeli del conte, e fatto loro la promessa, cominciarono a
dare delle pietre a’ masnadieri e sbanditi ch’erano alla difesa delle
mura col conte, e per forza gliene levarono; onde il conte con suoi
malfattori fu costretto arrendersi alla misericordia del comune di
Firenze. Fuvvi preso il conte con uno degli Ubaldini, e con quattordici
caporali sbanditi del comune di Firenze, e lasciati liberi i fedeli. Il
conte con i predetti vennono legati dinanzi al potestà e capitano, che
con gran festa fu ricevuto, assai maggiore non si convenia a sì piccolo
fatto. Poi a dì 14 di settembre, il dì di santa Croce, il detto conte
Tano per lo bando che avea fu dicapitato, e seppellito in santa Croce
dirimpetto alla cappella di santo Lodovico a piè delle scalee, quasi
nel mezzo; quello degli Ubaldini a richiesta de’ suoi consorti fu loro
renduto. Gli sbanditi furono tranati e appesi vilmente. Tale fu il fine
della spelonca di Montecarelli, e del suo conte Tano e sua corrotta
fede, in non lieve esempio degli altri vicini del comune di Firenze.

CAP. CIX.
_Come in Francia si cominciò compagnia denominata bianca._
Nella concordia presa degli due re di Francia e d’Inghilterra, della
quale s’attendea certa fine di buona pace, essendo il re d’Inghilterra
co’ figliuoli e con l’oste sua tornato nell’isola, molti cavalieri e
arcieri inghilesi usati alle prede e ruberie si rimasono nel paese: e
avendo messer Beltramo di Crechì e l’arciprete di Pelagorga ordinato
di fare compagnia, raccolsono ogni maniera di gente la quale trovarono
disposta a mal fare, ed ebbono Franceschi, Tedeschi, Inghilesi,
Guasconi, e Borgognoni, Normandi, e Provenzali, e crebbono in poco di
tempo in grande numero, e nomarsi la compagnia bianca, e cominciarono
a conturbare i paesi, e a trarre danari e roba d’ogni parte, e così
stettono infino che la pace fu ferma, e il re di Francia lasciato di
prigione; allora per comandamento de’ detti due re sotto pena di cuore
e d’avere, e d’essere perseguitati da’ loro signori, s’uscirono del
reame di Francia, e ridussonsi a Lingrè nell’impero, e ivi s’accolsono
in numero di seimila barbute, essendo in paese grasso e ubertuoso da
vivere: cercarono di valicare a Lione, i paesani s’adunarono a’ passi,
e impedivanli per modo, che dove erano si ritennono lungamente con far
danno assai con loro poco frutto.

CAP. CX.
_Della gravezza fatta per messer Bernabò ai cherici e laici, rotto il
trattato della pace._
Vedendo messer Bernabò che la Chiesa si sforzava alla difesa di
Bologna, e che l’intenzione sua non si empieva tosto come pensava,
e che la spesa cresceva, fece stimare tutte le rendite e’ beni de’
prelati e cherici che erano sotto sua tirannia, e fatta la tassazione
ebbe per nome e sopra nome tutti i secolari poderosi vicini alle
prelature, benefiche chiese, e comandamento fece, che qualunque
vicinanza infra certo tempo avessono pagato alla camera sua quelli
danari che il beneficio era tassato, e il beneficio rispondea alla
tassazione, che pagassono, e così convenne che fatto fosse, per modo
che in tre mesi, luglio, agosto e settembre, ebbe nella camera sua
de’ beni de’ cherici per questa via oltre a trecento trenta migliaia
di fiorini d’oro, e di secolari sudditi suoi oltre alle sue rendite
ordinate in sussidio di trecentosettanta migliaia di fiorini d’oro,
e ciò per sostenere e fornire l’impresa fatta, e che fare intendea
dell’oste sua sopra la città di Bologna: e convenne che così fatto
fosse perchè il volle, e nel tempo, stimandosi il superbo tiranno di
vincere per stracca la città di Bologna, e la Chiesa che presa l’avea.
Essendo messer Niccola Acciaiuoli grande siniscalco del regno di Puglia
con messer Bernabò per trattare accordo da lui alla Chiesa de’ fatti di
Bologna, e venuto al legato, e trovatolo con più animo fermo contro al
tiranno che non si stimava, avendo il legato ordinato certe convegne
da trattarsi nella pace, e per uno famigliare del gran siniscalco le
fece mandare a messer Bernabò, il quale volle che a capitolo a capitolo
gli fossero lette, e leggendosi, a catuno capitolo rispondea, e io
voglio Bologna, e così al tutto rimase il trattato rotto, con arrota
di più villane novelle di parole dal tiranno al legato. Ed era in
questi giorni la città di Bologna molto stretta, e pativa disagi e
gravezze assai, ma di fuori si procacciava il soccorso per il legato
con molta sollicitudine, e messer Bernabò continovo tenea un trattato
d’impacciare il legato nella Marca e nella Romagna.

CAP. CXI.
_Come il capitano dell’oste di messer Bernabò mandò a soccorrere le
castella ribellate al legato nella Marca._
Sentendo il capitano dell’oste da Bologna come delle tre castella
rebellate al legato le due si teneano aspettando soccorso, mandò
Anichino di Bongardo Tedesco con millecinquecento barbute e con
mille masnadieri per soccorrerli, e per prendere luogo nella Marca,
e impacciare il legato sì di là che non potesse soccorrere Bologna, e
chiaramente gli venia fatto, se Anichino fosse stato leale, perocchè
senza contasto entrò in Romagna, e fu a Rimini, e messer Pandolfo e
l’oste del legato per paura si partì dall’assedio del castello: ma
come che la cosa s’andasse, e’ non volle andare più oltre, e d’allora
innanzi fece delle cose che tornarono a gran beneficio dell’impresa
del legato, e a onta e vergogna di messer Bernabò, come seguendo nostra
materia nel principio del decimo libro racconteremo. Tornossi addietro
Anichino, e le castella s’arrenderono al legato e furono disfatte,
all’uscita d’agosto detto anno.

CAP. CXII.
_Ancora dello stato del tempo e della moria dell’anguinaia._
Questo anno fu singolare di continovo sereno tutta la state e di
notabile caldo, ed ebbe secondo il lungo tempo secco e caldo comunale
ricolta di grano e di vino, e degli altri frutti della terra, ma la
moría fu grandissima in molte parti occidentali, come narrato di sopra
avemo, e l’Italia ebbe molti infermi di lunghe malattie, ed assai
morti; e generale infermità di vaiuolo fu nella state di fanciulli
e ne’ garzoni, ed eziandio negli uomini e femmine di maggiori etadi,
ch’era cosa di stupore e fastidiosa a vedere.

CAP. CXIII.
_Come i Pisani arsono un castello de’ Pistoiesi._
In questi dì i Pisani con dugento barbute e mille fanti cavalcarono
sopra i Pistoiesi, e presono e arsono un loro castello nella montagna,
nel quale nella veritade si riparava gente di mala condizione, e che
faceano danno ai loro distrettuali. Male ne parve ai Fiorentini, ma fu
sì piccola cosa, che per lo meno male s’infinsono di non lo vedere.
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