Cronica di Matteo Villani, vol. 4 - 02

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e’ borgesi ch’erano al governo, feciono sopra ciò loro consiglio, e
mostrarono al popolo come messer Filippo si movea a ragione, perchè
il re di Navarra riceveva torto: e in parlamento di gran concordia,
a dì 28 di novembre anno detto, il trassono di prigione: e in quello
parlamento e’ si scusò, e mostrossi innocente, e mostrò, come ciò
che gli era stato fatto era stata operazione del cancelliere, ch’oggi
era cardinale; e ringraziò il popolo e i tre stati, e seguì d’essere
fedele, e fu fatto capitano di guerra.

CAP. XVII.
_Come i Perugini dall’una parte e i Cortonesi dall’altra mandarono per
aiuto a Firenze._
Incontanente ch’e’ Perugini s’avvidono che ’l trattato d’avere Cortona
era stato bugiardo, e pur l’impresa era fatta, mandarono ambasciadori
a’ Fiorentini significando, ch’aveano trovati i Cortonesi in trattato
di furare certe loro terre contro a’ patti della pace, e però erano
venuti sopra Cortona, e intendeano non partirsene d’assedio, ch’eglino
avrebbono la città ai loro comandamenti. E molto sfacciatamente, e
con grande arroganza, sapendo che ’l nostro comune avea promessa e
sicurata la pace per loro, e’ domandarono aiuto di gente d’arme a
quello assedio. Dall’altra parte in que’ medesimi dì, con più giustizia
e ragione, erano a’ signori gli ambasciadori de’ Cortonesi e del loro
signore, i quali si lamentavano forte de’ Perugini, che senza alcuna
cagione di subito aveano loro rotta la pace, della quale il comune
di Firenze era mallevadore, e domandavano al comune che desse loro
solamente l’insegna con cento cavalieri alla guardia della città,
facendo chiaro il comune ch’e’ Perugini non aveano ragione, e che
trattato per i Cortonesi contro a’ Perugini, o contro alle loro terre,
non era pensato non che fatto; e di questo s’offeriano a fare ogni
chiarezza. Il comune di Firenze, che di natura e d’antica consuetudine
è tardo alle cose, per avere a diliberare con molti consigli, in fine
ordinò e mandò suoi ambasciadori a Perugia, riprendendo il comune di
quella impresa non giusta, e pregandoli per l’onore loro medesimo, e
appresso del comune di Firenze ch’era obbligato, a loro stanza che se
ne dovessono partire; e di ciò furono male ubbiditi.

CAP. XVIII.
_Come la gente de’ signori di Milano furono sconfitti in Bresciana._
Essendo tra’ signori di Milano e’ collegati di Lombardia contro a
loro stretto trattato di concordia, avvenne che duemila barbute della
compagnia valicavano per lo Milanese. Messer Bernabò Visconti sentendo
questo, e temendo d’alcuna sua terra, di presente fece cavalcare messer
Giovanni da Biseggio suo capitano con millecinquecento cavalieri, e
appresso lo seguivano mille barbute per soccorso. Messer Giovanni,
franco e coraggioso capitano, si mise innanzi senza attendere gli
altri mille cavalieri, e colla sua brigata s’aggiunse co’ nemici
in sul Bresciano, e ivi si fedì tra loro aspramente. Quivi avea di
buoni cavalieri, che li riceverono allegramente, ove fu aspra e fiera
battaglia. In fine i cavalieri di messer Bernabò furono sconfitti,
e preso il capitano con venti conestabili, e bene quattrocento altri
cavalieri, e lasciati alla fede, all’usanza tedesca. Trovaronsi morti
in sul campo tra dell’una parte e dell’altra trecento uomini, i più de’
vinti; e questo fu del mese di dicembre anno detto.

CAP. XIX.
_Come l’oste del re d’Ungheria prese la città di Giadra._
Nel settimo libro addietro è narrato l’assedio del re d’Ungheria posto
a Giadra, il quale stato lungamente, del mese di dicembre anno detto,
coll’aiuto d’alcuno trattato d’entro, si menò una cava di fuori in
certa parte ov’era l’aiuto d’entro, e in pochi dì furono fatte cadere
quaranta braccia di muro; e atati da coloro con cui s’intendeano
dentro, ebbono l’entrata della città, ed entrati gli Ungheri dentro,
senza gran contasto vinsono la terra, e tutta la gente de’ Veneziani
ch’erano alla guardia si raccolsono nel castello, ch’era alla marina
alquanto scostato dalla terra, fortissimo e ben fornito a ogni gran
difesa, e da potere avere soccorso di mare. Questa è quella città che
tanta guerra ha fatto fare tra ’l re d’Ungheria e’ Veneziani, e alla
quale il re d’Ungheria in persona alcuna volta con centomila cavalieri
è stato all’assedio, e partito se n’è con vergogna, e ora così vilmente
è stata vinta. Credo che l’ambiziosa superbia de’ Veneziani per gravi
discipline sia umiliata nel cospetto di Dio, per la qual cosa si può
comprendere che Iddio per grazia gli traesse con lieve danno di gran
pericolo e di gravi spese; e bench’elli avessono grande appetito di
pace, tenendo Giadra non la sapeano lasciare, ma ogni omaggio, ogni
gran quantità di pecunia offeriano per quella; ma il magnanimo re volea
innanzi il suo onore, che la pecunia e l’amistà de’ Veneziani. Come i
Veneziani sentirono che la città di Giadra era tolta loro sbigottirono
forte, non ostante che tenessono il castello, ch’era di gran fortezza,
e da poterlo tenere e fornire per mare; ma consideravansi consumati
dalle spese, e la potenza del re essere sopra le forze loro, e però
subitamente gli mandarono ambasciadori per volere trattare della
pace con lui. Il re essendo cresciuto in vittoria sopra loro, per
farli più accendere nell’appetito della pace, a questa non li volle
udire, mostrando animo grave contro al comune di Vinegia per le grandi
ingiurie ricevute da quello, e scrisse in Puglia all’imperadore per
volere fare armare galee, e in Lombardia a’ signori suoi amici perchè
s’apparecchiassono al suo servigio, ch’egli intendea di venire ad
assediare Trevigi, e far guerra per terra e per mare a’ suoi nemici
veneziani. Per questa risposta i Veneziani temettono più forte, e
conobbonsi disfatti dentro alle incomportabili gravezze, e di fuori
dalla gran potenza del re. E per questo diliberarono tra loro ch’ogni
altra posa era accrescimento a’ loro guai, salvo che la pace, e questa
procacciarono, come innanzi a loro tempo racconteremo.

CAP. XX.
_Come messer Bernabò fece combattere Castro._
Come poco innanzi narrammo, messer Bernabò signore di Milano avea
lungamente tenuti assediati nel castello di Castro in sul Milanese
mille cavalieri, e cinquecento masnadieri di quelli della compagnia,
con speranza d’averli per forza e di farli impiccare. E avendo fatto
ordinare sua gente alla battaglia, non essendo il castello forte, da
ogni parte il fece assalire con aspra e stretta battaglia; e avvegnachè
’l luogo fosse debole alla loro difesa, la necessità di difendere
catuno la vita, diede loro smisurata sollecitudine e forza alla difesa,
e combatterono sì aspramente contro alla moltitudine de’ loro nemici,
che per forza gli ributtarono addietro della battaglia, e con danno
di molti morti e d’assai magagnati si ritornarono addietro al campo
loro, ch’era intorno al casale. Avendo l’altra parte della compagnia
ch’era in Vercelli sentito il pericolo de’ loro compagni, mandarono ad
avvisarli della giornata, che verrebbeno col loro sforzo per levarli
di là, acciocch’elli stessono apparecchiati. E incontanente, improvviso
alla gente de’ signori di Milano, del mese di dicembre anno detto, con
duemila barbute bene in concio se ne vennero in sul contado di Milano
dall’una delle parti del casale: e trovando in concio i loro compagni
ch’erano in Castro, con bella schiera fatta s’uscirono del casale, e
aggiunsonsi co’ loro compagni, per modo che la gente del tiranno non
ebbe ardire di muoversi contro a loro. E in questo modo senza niuno
assalto si ridussono, con vergogna de’ signori di Milano, sani e salvi
in Vercellese.

CAP. XXI.
_Come si cominciò a trattare pace da’ collegati a’ Visconti._
Dibattuta lungamente la guerra tra’ signori di Milano e gli altri
Lombardi collegati, e le cose molto imbarrate da ogni parte, non
ostante che in molte cose la fortuna avesse prosperato gli allegati,
e vergognata l’altra parte, tant’era la forza de’ signori di Milano di
danari e di gente d’arme, che solo sostenendo consumava gli allegati,
e della perdita delle genti e delle terre piccole non si curavano,
e continovo ogni mese aveano fornite e ricresciute le loro masnade,
mostrando maggiore forza l’un dì che l’altro, tenendo l’oste sopra
Mantova, e facendo cavalcare sopra i Lombardi, tormentandoli dopo le
sconfitte ricevute più che prima. Il signore di Mantova, toccandogli la
guerra più nel vivo, mandò messer Feltrino da Gonzaga a’ collegati per
riprendere il trattato della pace co’ signori di Milano, e fece dare
speranza a’ signori di Milano di dar loro la città di Reggio, e per
questo diedono udienza al trattato del mese di gennaio del detto anno.
Ma innanzi che ’l trattato avesse effetto, altre cose avvennono tra
loro, le quali prima ci verranno a raccontare.

CAP. XXII.
_Come i Perugini puosono cinque battifolli a Cortona._
Tornando a’ fatti di Cortona, trovando coloro ch’allora reggevano
il comune di Perugia, che l’impresa non era stata ben fatta, e ch’e’
Fiorentini glie ne riprendeano, e molti altri loro buoni cittadini, per
non avere vergogna dell’impresa, poichè fatta l’aveano, e il popolo
minuto, che allora reggea la città, se ne mostrò tanto infocato, che
incontanente crebbono gente d’arme da piè e da cavallo, per fornire
il contradio di quello che erano pregati da’ Fiorentini. E già però i
Fiorentini per troppo amore che portavano a quel comune, e per vergogna
che ricevessono di loro promessa non vollono tramettersi contro a’
Perugini per difesa de’ Cortonesi, com’e’ poteano a loro vantaggio,
altro che con parole, onde da’ savi uomini furono assai biasimati.
E’ Perugini vedendo che ’l comune di Firenze non volea prendere la
guardia di Cortona, come e’ dovea e potea fare, presono più baldanza,
e rinforzarono l’oste di molta gente, e chiusono la città d’assedio
con cinque battifolli, per modo che non vi si poteva entrare nè uscire
senza grande pericolo; e questo fu all’entrata del mese di gennaio del
detto anno. Gli assediati erano male forniti di gente forestiera alla
difesa, e a’ cittadini convenia fare la guardia grande di dì e di notte
che gli affliggea molto, e questo dava grande speranza a’ Perugini
di venire a’ loro intendimenti; e ’l signore ne stava in grande
gelosia, temendo de’ suoi cittadini, ma i cittadini per singolare odio
che portavano a’ Perugini, temendo di venire alla loro suggezione,
rassicurarono il signore, e strinsonsi con lui, e ordinarono la guardia
volontaria e buona alla difesa della città, e cominciarono a trattare
de’ loro rimedi.

CAP. XXIII.
_Come i Trevigiani furono rotti dagli Ungheri._
Lavorandosi il terreno de’ Trevigiani per gli Ungheri, come già è
detto, trovandosi in Trevigi una franca masnada di cavalieri e di
masnadieri, avendo pensato di fare una grande e utile preda, ed essendo
i lavoratori pe’ campi sotto la guardia degli Ungheri operando la
terra senza paura, non temendo de’ Trevigiani, i cavalieri ch’erano
in Trevigi, con certi Veneziani e Trevigiani a cavallo, e con tutti
i masnadieri a piè, una mattina innanzi al dì uscirono della terra
cinquecento cavalieri, e altrettanti masnadieri e gran popolo, e
cavalcarono il paese, e raccolsono grandissima preda di bestiame grosso
e minuto, e d’uomini. Gli Ungheri sentirono il romore, e come gente
apparecchiata di loro cavalli e che non s’hanno a vestire arme, di
tutte le castella d’attorno trassono a pochi e ad assai insieme, e
cominciarono da ogni parte a impedire colle loro saette i nemici, e
non gli lasciavano cavalcare innanzi alla loro ritratta. E tenendoli
per questo modo, l’altra moltitudine degli Ungheri traeva e cresceva
loro addosso sempre saettando, uccidendo e fedendo de’ cavalli e
degli uomini; e perchè contro a loro si movessono i cavalieri, e’ si
voltavano, e fuggivano, e ritornavano prestamente. E non valendo a’
Trevigiani il combattere e ’l lanciare, che a mano a mano n’aveano più
addosso, convenne loro per forza abbandonare la preda, e intendere a
campare le persone; ma non lo poterono fare sì interamente, che de’
loro non rimanessono trecento tra morti e presi, a cavallo e a piè. E
d’allora innanzi di Trevigi non uscì più gente per vantaggio che fosse
loro mostrato di fuori, e’ Veneziani con più appetito procacciavano
l’accordo della pace col re d’Ungheria.

CAP. XXIV.
_Cominciamenti di nuovi scandali nella città di Firenze._
Era la città di Firenze in questi tempi in grande tranquillità e pace
dentro, e di fuori non avea nemici, e con tutti i comuni e signori
d’Italia era in amicizia, non avendo contro ad alcuno voluto pigliare
parte, e con tutti quelli ch’aveano guerra travagliatosi della pace,
e la novità del porto di Talamone non inducea guerra. La città dentro
per l’ordine de’ divieti delle famiglie de’ popolani, quando alcuno era
tratto agli ufici de’ collegi, aveva fatto venire il reggimento del
comune in molte genti d’ogni ragione, e ’l più in artefici minuti, e
in singulari e nuovi cittadini, e a costoro quasi non toccava divieto
perchè non erano di consorteria, sicchè frequentemente ritornavano agli
ufici, e’ grandi e potenti cittadini delle gran famiglie vi tornavano
di rado. Ancora poca distinzione si faceva per uno comune buono stato
degli uomini: e chi era senza vergogna, a’ tempi che s’insaccavano per
squittino generale gli uomini all’uficio del priorato, si provvedea
dinanzi con gli amici, e colle preghiere, e con doni, e con spessi
conviti; e per questo modo più indegni e illiciti uomini si ritrovavano
agli ufici, che virtuosi e degni. Nondimeno la cittadinanza era più
unita al comune bene, e le sette aveano meno luogo, e i nuovi e piccoli
cittadini negli ufici non aveano ardire di far male nella infanzia
de’ loro magistrati. Nondimeno in grande fallo e pericoloso correa
la repubblica di non riparare a’ manifesti falli che si commettevano
negli squittini, come detto è. Ma certi uomini grandi e popolari
avvedendosi dell’errore del comune, con grave e sagace malizia, e a
fine reo di divenire tirannelli, s’avvisarono insieme, e quello che
si dovea, e potea racconciare con ordine di buona legge e onesta al
fare degli squittini, convertirono sotto il titolo della parte guelfa,
dicendo, ch’e’ ghibellini occupavano gli ufici, e che se i guelfi non
riparassono a questo, poteano pensare di perdere tosto loro stato
e la franchigia del comune, la cui franchigia mantenea la libertà
in Italia. E di vero la parte guelfa è fondamento e rocca ferma e
stabile della libertà d’Italia, e contraria a tutte le tirannie, per
modo che se alcuno guelfo divien tiranno, convien per forza ch’e’
diventi ghibellino, e di ciò spesso s’è veduta la sperienza; sicchè
grande beneficio del nostro comune è a mantenere e accrescere la parte
guelfa. Costoro, avendo conceputa la malizia, e conferita con certi
delle grandi famiglie, dicendo, che quello che intendeano fare sarebbe
materia al comune d’abbreviare i divieti, presono conforto e favore
di venire alla loro intenzione. E succedendo all’uficio del capitanato
della parte de’ caporali che la coperta iniquità aveano conceputa, per
potere con loro seguito avere a tutti i cittadini guelfi e ghibellini
il bastone sopra capo, e potere le loro spezialità sotto il detto
bastone in comune e in diviso adempiere; ed essendo allora per consueto
ordine due cavalieri de’ grandi e due popolani capitani, raccozzò
la fortuna certi cittadini grandi e popolari di pessima e iniqua
condizione, messer Guelfo Gherardini, messer Geri de’ Pazzi, Tommaso
di Serontino Brancacci, Simone di ser Giovanni Siminetti, cittadini
grandi e popolari di pessima e iniqua condizione. I grandi astuti e
cupidi d’uficio, e d’avere poveri, dispetti e detratti degli onori
del comune per non sapere usare la virtù col senno; gli altri popolari
erano conferenti a’ grandi nelle predette cose, fuori che negli ufici
usurpati più per procaccio che per virtù. Costoro tutti in concordia
traendo non al bisogno, o al beneficio del comune o della parte, ma a
quel fine che già è detto, ordinarono una petizione, che in sustanza
contenne, che quale cittadino o contadino di Firenze, ghibellino o non
vero guelfo, avesse avuto per addietro, o avesse per innanzi alcuno
uficio del comune di Firenze, potesse essere accusato palesemente e
occultamente, non nominando eziandio l’accusatore; e che approvandosi
l’accusa per sei testimoni di pubblica fama, che l’accusato fesse
ghibellino o non vero guelfo, essendo i testimoni approvati per uomini
degni da potere portare testimonianza, per li capitani della parte,
e per li consoli delle loro arti, dovesse l’accusato e provato, com’è
detto, essere condannato ad arbitrio della signoria ch’avesse l’accusa
innanzi, nella testa o in quantità di moneta, ch’almeno fosse libbre
cinquecento di fiorini piccioli, e rimosso da ogni uficio e onore del
comune; e ch’e’ testimoni non potessono essere riprovati di falso.
E portata l’iniqua petizione per li detti capitani a’ signori e a’
collegi, ed esaminata, parendo loro ch’ella fosse iniqua e ingiusta,
non la vollono ammettere nè diliberare tra loro. Per la qual cosa i
capitani gli abominavano contro alla parte, e di loro seguaci raunarono
più di dugento cittadini scelti a loro modo, e con essi sotto il titolo
della difensione di parte guelfa, a cui niuno s’opponeva, andarono
con grande baldanza a’ priori e al consiglio, e dissono, ch’e’ non
si partirebbono di là, che la petizione sarebbe diliberata, e così
convenne che si facesse; e vinta fu a dì 15 di gennaio anno detto.
E avuta la petizione alla loro malvagia intenzione, di presente si
racchiusono insieme nel palagio della parte, e per loro squittini
feciono capitani, e priori, e consiglieri di parte di loro seguito
per molti anni, con assai pubblica, sfacciata, e disonesta spezialtà,
e sotto falso nome di parte guelfa trovando modo di distruggere e
d’abbassare il giusto e santo nome di quella, ebbono podere di fare
ogni cosa secondo il loro disordinato appetito. Della qual cosa seguitò
subitamente grande inquietazione del tranquillo e buono stato del
comune, e tutti i cittadini disposti a volere fare i fatti loro, e
non concorrenti alla sconcia setta, stavano sospesi di loro stato e di
loro onore: e comune turbazione ne cadde tra’ cittadini, e appresso ne
seguitarono sconce ingiurie e gravi pericoli alla nostra città, come
leggendo innanzi pe’ tempi si potrà comprendere.

CAP. XXV.
_D’un singolare accidente ch’avvenne in questi paesi._
Essendo dal cominciamento del verno continovato fino al gennaio un’aria
sottilissima, chiara e serena, e mantenuta senza ravvolgimento di
nuvoli o di venti, oltre all’usato natural modo, per sperienza del
fatto si conobbe, che da questa aria venne un’influenza, che poco
meno che tutti i corpi umani della città, e del contado e distretto
di Firenze, e delle circustanti vicinanze fece infreddare, e durare
il freddo avvelenato ne’ corpi assai più lungamente che l’usato modo.
E per dieta o per altri argomenti ch’e’ medici facessono o sapessono
trovare, non poteano avacciare la liberagione, nè da quello liberare le
loro persone, e molti dopo la lunga malattia ne morivano; e vegnendo
appresso la primavera, molti morirono di subitana morte. Dissesi per
gli astrolaghi, che fu per influenza di costellazioni, altri per troppa
sottigliezza d’aria nel tempo della vernata.

CAP. XXVI.
_Come in Firenze nacque una fanciulla mostruosa._
A dì 4 di febbraio anno detto nacque in Firenze al Poggio de’ Magnoli
una fanciulla portata sette mesi nel ventre della madre, la quale avea
sei dita in ciascuna mano e in catuno piede, e i piedi rivolti in su
verso le gambe, senza naso, e senza il labbro di sopra, e con quattro
denti canini lunghi da ogni parte della bocca due, uno di sopra e uno
di sotto; il viso avea tutto piano, e gli occhi senza ciglia: e vivette
dalla domenica a vespro al lunedì vegnente alla detta ora, e più
sarebbe vivuta se avesse potuto prendere il latte.

CAP. XXVII.
_Come i Sanesi si scopersono nemici de’ Perugini._
Il comune di Siena aspettando, e vedendo ch’e’ Fiorentini non
rimoveano i Perugini della impresa di Cortona, avendo il signore di
Cortona singulare amistà co’ Sanesi, gli avea richiesti d’aiuto; e
i Sanesi gravandosi de’ Perugini ch’atavano contro a loro quelli di
Montepulciano, furono contenti d’avere cagione di atare i Cortonesi. E
in prima cercarono per più riprese di mettere masnadieri di furto nella
città, e per la sollecita e buona guardia de’ Perugini non venne fatto,
anzi ne furon presi e morti, ch’aggiunse a’ Sanesi maggiore sdegno. E
trovandosi già scoperti da’ Perugini per queste cavalcate, conobbono
che in palese conveniva fare l’impresa incominciata, se non ne volevano
rimanere vituperati. Cercarono in prima avanzare, se fare il potessono,
e tennero in prima due trattati, l’uno in Chiusi, e l’altro in
Sarteano; e accolta gente a cavallo e a piè cavalcarono prima a Chiusi,
credendovisi entrare, ma la guardia v’era buona, sicchè i loro amici
non ebbono ardire di muoversi, e con vergogna si tornarono addietro.
Appresso cavalcarono a Sarteano, e anche con disonore, scoperti al
tutto nemici de’ Perugini, si tornarono in Siena.

CAP. XXVIII.
_Come i Sanesi misono cavalieri in Cortona alla guardia._
Fatto questo cominciamento per li Sanesi senza alcuno acquisto,
intendendosi con gli assediati, sentirono da loro, come tra la bastita
della Pieve a quella dall’Orsaia avea gran campo voto in mezzo, per lo
quale avvisatamente si potea fare passare della gente; incontanente i
Sanesi elessono cento cavalieri ben montati, e cinquanta Ungheri con
alquanti masnadieri scorti e destri, e con buona condotta li feciono
cavalcare una notte per modo, che giunti la mattina per tempo al luogo
tra le due bastite, senz’essere scoperti, stretti insieme si misono a
passare, e senza ricevere impedimento entrarono in Cortona, ricevuti
dal signore e da tutti i cittadini a gran festa, come gente ch’aveano
gran bisogno d’aiuto e di soccorso; e immantinente misono l’insegna del
comune di Siena nel cospetto de’ Perugini in sulla torre della porta
maestra, e appresso cominciarono a uscire fuori a loro posta, e dare
noia e danno a quelli del campo, e a ricevere e a mettere roba nella
città, di che eglino aveano bisogno, e massimamente strame e legne,
che di vittuaglia erano assai bene abbondanti. Per questa novità i
Perugini si vidono al tutto entrati in guerra co’ Sanesi, e’ Sanesi co’
Perugini, e però catuno si mise in provvisione; e’ Sanesi con maggiore
sollecitudine feciono provvisione d’avere danari in comune; ed essendo
uno Anichino di Bongardo Tedesco fatto capo d’una nuova compagnia che
si levava, ed erano già accolti insieme più di milledugento barbute,
mandaronlo a conducere con tutta sua cavalleria. Lasceremo alquanto al
presente le novità di Toscana per dare parte a quelle di Francia, che
prima ci offrono con non minore ammirazione di lieve materia sformato
avvenimento.

CAP. XXIX.
_La cagione che mosse i borgesi di Parigi a nuovo stato._
Essendo in alcuna cospirazione segreta di trattato il proposto de’
mercatanti di Parigi col re di Navarra, favoreggiato occultamente dal
re d’Inghilterra, prese ardire, e ’l caso gli apparecchiò la materia
acconcia al suo proponimento. Uno borgese di Parigi vendè al Delfino
di Vienna, primogenito del re di Francia, due suoi destrieri, e ’l
Delfino comandò a un suo tesoriere che ’l pagasse: il borgese andò
molte volte al tesoriere per farsi pagare; il tesoriere il menava per
parole; e parendo essere al borgese disperato de’ suoi danari, si turbò
col tesoriere, e dissegli, che s’e’ non pagasse, che ’l comperrebbe di
suo corpo: il tesoriere altiero e presuntuoso non si curò del pagamento
nè delle minacce del borgese. Avvenne, che valicando del mese di
febbraio anno detto il tesoriere per una ruga di Parigi, si scontrò nel
borgese, il quale gli attenne la promessa; e ucciselo; e fuggissi in
franchigia. La novella corse al Delfino e al suo consiglio; i quali di
presente a forza il feciono trarre di franchigia; e impenderlo per la
gola. Per questo il proposto di Parigi montato in furore per lo male
reggimento del consiglio del Delfino, prese compagnia di certi borgesi
di suo seguito, e crebbegli ardimento del favore si sentiva in segreto
del re di Navarra, e che comunemente il Delfino e ’l suo consiglio
erano odiati da tutta maniera di gente; e con meno di ottanta borgesi
armati copertamente, in quel furore se n’andò al palagio reale ov’era
il Delfino e’ suoi consiglieri; e innanzi vi giugnessono, trovarono
nella via un avvocato ch’era del consiglio del Delfino, e di presente
l’uccisono; e seguendo loro viaggio, giunsono al palagio; il portiere
non volea lasciare entrare altro che ’l proposto con pochi, ma entrato
dentro il proposto con alcuni compagni, costrinsono i portieri, e
misono dentro gli altri compagni, e di brigata se n’andarono dov’era
il Delfino con due de’ suoi consiglieri, per cui più si reggea e
governava, e l’uno era il conestabile di Chiaramonte, e l’altro il
conestabile di Campagna; il proposto nella presenza del Delfino li
fece uccidere a ghiado. Il Delfino impaurito si gittò ginocchione
innanzi al proposto, pregandolo che nol facesse morire; il proposto non
sostenne che egli stesse a basso, ma levollo su facendoli reverenza,
e dicendo, come l’aveano per loro signore, ma aveano in odio coloro
che per loro malizia gli davano consigli; e acciocchè non fosse offeso
nel furore della gente già commossa, li misono in capo un cappuccio di
loro assisa, e menaronlo con loro in una parte di Parigi che si chiama
Grieve, e ivi lo feciono giurare che di questo fatto non renderebbe
loro per alcuno tempo mal merito, e che si reggerebbe per consiglio de’
borgesi; e fatta la promessa, e fermata col suo saramento, il rimisono
nel suo primo stato. Divolgata questa cosa per tutta la città di
Parigi, i borgesi lieti s’allegrarono insieme in gran parte, sommovendo
l’uno l’altro, e prestavano il saramento come s’ordinò per lo rettore,
a mantenere il loro novello stato e la loro usurpata franchigia.

CAP. XXX.
_Della pace del re d’Ungheria a’ Veneziani._
Avendo i Veneziani consumato il tempo della matta follía, la quale
a torto aveano sostenuta per molti anni contro al re d’Ungheria con
molto loro danno, si disposono di comune consentimento che dal re si
procacciasse buona e fedele pace; e per poterla avere, liberamente il
comune si rimesse in lui, acconci di fare tutti i suoi comandamenti
delle terre d’Istria, e di Schiavonia e di Dalmazia, che per loro
si possedeano, e che oltre a questo gli fosse offerto ogni ammenda
di danari e d’altre cose ch’alla sua signoria piacesse di volere da’
Veneziani; e fatti de’ maggiori della loro città solenni ambasciadori,
con pieno mandato alle predette cose li mandarono al re; il quale
sentendo la liberalità di quel comune, graziosamente li ricevette; e
udita l’ambasciata, come magnanimo signore, disse, ch’era contento
di riavere tutte le terre del suo reame, e che quelle si levassono
al tutto del titolo del loro doge, sicchè mai per innanzi nè ’l doge
nè ’l comune se ne titolasse; e quando questo fosse fatto, intendea
co’ Veneziani avere buona pace. Ammenda di danari, disse, che non
volea, perocch’e’ non era cupido nè bisognoso di pecunia, ma volea per
ammenda e per titolo d’amicizia, che quando e’ richiedesse il comune
di Vinegia, fosse tenuto di darli armate a sua volontà ogni volta
che le domandasse infino in ventiquattro galee alle spese del re. E
come egli divisò, di buona volontà tutto fu accettato, e promesso di
fare fedelmente per autorità degli ambasciadori, e ferma la pace;
e incontanente feciono rendere il castello di Giadra, e tutte le
terre che teneano in Schiavonia, e in Dalmazia e in Istria che al
re s’apparteneano, e dentro vi misono la gente del re d’Ungheria, e
del titolo del doge le levarono tutte; e il re, del mese di febbraio
anno detto, mandò suoi ambasciadori, i quali restituirono al comune
di Vinegia Colligrano, e tutte le castella che gli Ungheri teneano
in Trevigiana, e con grande allegrezza e festa de’ Veneziani feciono
pubblicare e bandire la pace; e fu in patto, che tutti i gentili
uomini di Trevigiana rimanessono in pace col comune di Vinegia, e
liberi possessori delle loro tenute e castella. E fatto solenne onore
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