Cronica di Matteo Villani, vol. 4 - 13

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allo sgombro, e ad apparecchiare la città a difesa, e a fare buona
guardia. Il cardinale di Spagna li mandò di soccorso quattrocento
barbute che li vennono a gran bisogno. Lo detto signore conoscendo
la sua impotenza, e non essere sufficiente a potere rispondere a
quella de’ signori di Milano, nondimeno cercò sottilmente con segreto
trattato, offerendo di fare alto e basso quanto fosse piacere del
comune di Firenze, di torlo in suo aiuto, ma la fede promessa per la
pace vinse ogni vantaggio che potessono avere.

CAP. LVIII.
_Come fu maestrato da prima in Firenze in teologia._
Poco è da pregiare per onestà di fama che uno sia con le usate
solennitadi, ne’ luoghi dove sono li studi generali delle scienze
privilegiate dalla autorità del santo padre e dell’imperio di Roma,
pubblicamente scolaio maestrato; ma essendo questo atto primo e nuovo,
e più non veduto nelle città che hanno di nuovo privilegi di ciò potere
fare, bello pare e scusabile d’alcuni farne memoria, non per nome
dell’uomo, che per avventura non merita d’essere posto in ricordo di
coloro che verranno, ma per accrescimento di tali cittadi, ove tale
atto da prima è celebrato. In questi giorni per virtù de’ privilegi
alla nostra città conceduti per lo nostro papa Clemente sesto, infra
l’altre cose contenne di potere maestrare in teologia, a dì 9 di
dicembre nella chiesa di santa Reparata pubblicamente e solennemente
fu maestrato in divinità, e prese i segni di maestro in teologia frate
Francesco di Biancozzo de’ Nerli dell’ordine de’ frati romitani; e
il comune mostrandosi grato del beneficio ricevuto di potere questo
fare, per lungo spazio di tempo fece sonare a parlamento sotto titolo
di Dio lodiamo tutte le campane del comune, e’ signori priori co’ loro
collegi, e con tutti gli uficiali del comune, con numero grandissimo
di cittadini furono presenti al detto atto di maestramento, che fu cosa
notabile e bella.

CAP. LIX.
_Come fu morto il signore di Verona dal fratello._
Messer Cane della gesta di quelli della Scala signori di Verona,
per morbidezze di nuova fortuna era divenuto dissoluto e crudele,
e per tanto in odio de’ suoi cittadini grande, senza amore de’ suoi
cortigiani, eziandio de’ suoi consorti e parenti; essendo per andare
in questi tempi nella Magna a’ marchesi di Brandimborgo, ch’erano
suoi cognati, e avendo i suoi fratelli carnali, messer Cane Signore
e Polo Albuino, secondo il testamento di messer Mastino erano con lui
consorti nella signoria, e non prendendo di niuno di loro confidanza,
ma piuttosto sospetto, segretamente fè giurare i soldati nelle mani
d’un suo figliuolo bastardo. Come questo sentirono i fratelli forte
l’ebbono a male, e presonne sdegno: messer Cane Signore ne fece parlare
dicendo al gran Cane, che tanta sconfidanza non dovea mostrare ne’
fratelli: le parole, quanto che assai fossono amorevoli, furono gravi
e sospettose al tiranno, e con parole di minacce spaventò e impaurì il
fratello, tutto che per avventura non fosse nell’animo suo quanto le
minacce dicevano. Il giovane pensò che assai era lieve al fratello a
fare quanto dicea in parole, perchè conoscea che molta crudeltà regnava
nell’animo suo, e che per tanto poco al signore arebbe riguardato;
onde un sabato, a dì 14 di dicembre detto anno, essendo cavalcato Gran
Cane per la terra con piccola compagnia, e Cane Signore accompagnato
di due scudieri di cui tutto si confidava se n’andò alla stalla del
signore, e tolse tre corsieri i più eletti e i migliori vi trovò, e
montativi tutti e tre a cavallo, con l’armi celate si mosse per la
terra a piccoli passi cercando del gran Cane, e come lo scontrarono, il
gran Cane disse al fratello, ch’e’ non facea bene a cavalcare i suoi
corsieri, e Cane Signore rispose; Voi fate bene sì che voi non volete
ch’io cavalchi niuno buono cavallo: e tratto fuori uno stocco ch’avea
a lato accortamente gli si ficcò addosso, e con esso il passò dall’un
lato all’altro, e menatoli un altro colpo in sul capo l’abbattè del
cavallo, e per tema di non essere sorpreso prese la fuga, avacciando
in forma il cammino che in Padova giunse la sera; ed essendo come
da parte del signore ricevuto, li manifestò quello ch’avea fatto al
fratello, e le ragioni che mosso l’aveano: il signore mostrò per la
spiacevolezza del caso ne’ sembianti doglienza, senza assolvere il
fatto o condannare, confortato il giovane che a lui era fuggito, con
speranza che la cosa che proceduta era da sdegno arebbe buono fine. In
questa miserabile fortuna di tanto signore non si trovò chi traesse
ferro fuori, nè chi perseguitasse il fratello, e quelli ch’erano con
lui, tremando di sè ciascuno, per immaginazione che sì alta cosa essere
non potesse senza ordine, si fuggirono di presente, e lasciarono in
terra il loro signore a morte fedito.

CAP. LX.
_Come Cane Signore fu fatto signore di Verona._
Sentito che fu per Verona il caso sinistro di loro signore, non si
trovò nella terra persona che si levasse di cuore, tanto era odiato e
mal voluto; e dopo alquanto spazio di tempo fu ricolto di terra senza
avere conoscimento niuno, e spiritò poco, sicchè appena levato del
luogo passò, e lasciò la tirannia e la vita. L’esequie per l’onore
del titolo che tenea, e della casa, li furono fatte magnifiche, e più
liete in vista che dolorose; perocchè riso e pianto, e l’altre forti
passioni dell’animo coll’altro contrario male si possono coprire.
Il popolo vile, e costumato in servaggio, trovandosi in sua libertà,
perocchè non v’era capo di signoria, se non per Polo Albuino ch’era
un piccolo garzone senza consiglio e senza gente d’arme, perocch’erano
tutti in servigio di messer Bernabò nell’oste a Bologna, nè altro caldo
o favore, non seppono usare la libertà e la franchigia che loro avea
non pensatamente renduto fortuna. Radunati insieme i fratelli di Gran
Cane, nel parlamento in segno di signoria diedono la bacchetta a Polo
Albuino ricevendo per sè e per lo fratello, e di presente crearono
ambasciadori, e mandaronli a Padova a Cane Signore, invitandolo
che venisse a prendere la cura della sua città di Verona; il quale
accompagnato da dugento cavalieri del signore di Padova si partì, e
giunto in Verona, con grande letizia e onore fu ricevuto, facendolisi
incontro alla porta il fratello, e ivi li diede la bacchetta, e
lo rinvestì della signoria che avea ricevuta per lui; e così per
dimostranza di fede rimasono amendue nella signoria ch’avea ricevuta
per lui, e la città si posò senza novità niuna in buona pace.

CAP. LXI.
_Come fu presa Bibbiena pe’ Fiorentini._
Essendo stato l’assedio a Bibbiena per spazio di due mesi e dodici
dì, nel quale messer Leale e Marco, essendo senza triegue colle
battaglie continue e con trabocchi che mai non ristavano in aperto e
di fuori combattuti, e in occulto colle cave, e coll’animo grande e
colla sollecitudine sofferivano tutto senza riposo, e con consiglio
poneano a ogni cosa riparo; e indurati negli affanni e ne’ pericoli
non si dichinavano a nulla, ma con fronte dura e pertinacia più si
mostravano fieri che mai. I terrazzani per la disordinata fatica, e
perchè vedeano guastare i beni loro dentro e di fuori, desideravano
l’accordo, e vedendo che la cosa a lungo andare convenia che venisse a
quello che volea il comune di Firenze, e pareva a loro che quanto più
si stentava venire in maggiore indegnazione de’ Fiorentini, e maggiore
distruggimento e consumazione di loro e di loro cose; e pertanto alcuna
volta pregarono i Tarlati che prendessono partito a buon’ora, ed ebbono
da loro spiacevole e mala risposta. Onde seguì, che diciotto di loro
segretamente si giurarono insieme, de’ quali si fece capo uno maestro
Acciaio, uomo secondo suo grado intendente e coraggioso, i quali senza
indugio o perdimento di tempo s’intesono con alcuni de’ terrazzani di
Bibbiena, cui i Tarlati aveano per sospetto cacciati fuori e riduciensi
nell’oste de’ Fiorentini, con offerire loro, che dove potessono
avere sicurtà e fermezza che la terra non fosse rubata, che a loro
dava il cuore di farla venire assai prestamente alle mani del comune
di Firenze. E ciò avendo gli usciti sentito, se ne ristrinsono con
Farinata degli Ubertini, il quale con loro entrò in ragionamento con
due cittadini di quello uficio della guerra i quali erano nel campo, e
li domandarono che fede, che sicurtà, e che patti voleano; e fu loro
detto da’ cittadini. E ciò udito, lo conferirono a bocca a’ signori
e a’ collegi, e da loro ebbono piena balía di potere prendere piena
concordia, di promettere e sicurare come a loro paresse a beneficio e
contentamento de’ terrazzani, salvando l’onore del comune; e tornati
nel campo, feciono a quelli d’entro sentire che aveano mandato di
convenirsi con loro. I congiurati per alquanti giorni attesono il tempo
che a loro toccava la guardia in certa parte delle mura, e venuto,
con una fune collarono un fante, e mandaronlo al Farinata, il quale fu
co’ detti cittadini con cui conduceva il detto trattato, e di presente
furono al capitano, e li manifestarono il fatto com’era. Il capitano,
per coprire col senno suo segreto, diede a intendere che avea sentito
che la notte certa gente dovea entrare in Bibbiena, e che volea porre
aguato a quel luogo, per lo quale avea sentore che doveano entrare,
ed elesse sotto il detto nome quattrocento fanti de’ migliori e de’
più gagliardi ch’erano nell’oste, e ottanta uomini di cavallo a piè
armati di tutte loro armi, e seco volle il Farinata con tutti gli
usciti di Bibbiena, i quali con altri loro confidenti furono ottanta
fanti; e avendo il capitano fatto provvedere delle scale, e ricevuto da
quelli d’entro l’avviso dove le dovesse accostare, il dì della pasqua
dell’Epifania, a dì 6 di gennaio 1359, in sulla mezza notte quetamente
s’accostarono alle mura, e avendo avuto avviso di fuori da maestro
Acciaio e da’ suoi congiurati ch’erano in sulle mura alla guardia di
quel luogo, ve ne rizzarono cinque, e Farinata di prima co’ suoi, e
appresso il capitano montarono in sulle mura, e discesono nella terra
alla condotta de’ congiurati, non trovando chi gli impedisse. Mentre
si faceano queste cose, uno masnadiere nominato, assai confidente di
Marco, che andava cercando le mura, quando giunse in quella parte,
ricevuto il nome da’ terrazzani e datoli la via, come fu in mezzo di
loro fedito il traboccarono delle mura dentro; e ciò fatto, il romore
si levò nella terra, al quale si destò tutta l’oste, che non sapeano
che si fosse, e accostati alla terra quelli ch’erano entrati, levate
l’insegne del comune di Firenze s’avvisarono insieme, attendendo che
gli eletti per lo capitano di quelli che dicemmo di sopra fossono tutti
dentro. Marco, ch’era nella rocca con la sua brigata più fiorita, uscì
fuori francamente, e percosse a quelli ch’erano entrati, ma da loro
ricevuto senza paura con le spade villanamente fu ributtato; nel quale
assalto il Farinata, ch’era di quelli dinanzi, fu fedito d’una lancia
nell’arcale del petto sì gravemente, che gli fu necessità ritirarsi
indietro, della quale fedita assai ne stette in pericolo di morte.
Il capitano scendendo nell’entrata delle scale cadde, e sconciossi
il piede in forma che non potè stare in su’ piedi, sicchè amendue i
capitani in sull’entrata in quella notte furono impediti. I terrazzani
che da’ nostri cittadini aveano ricevuta la fede, che non riceverebbono
nè danno nè ingiuria, sfatavano nelle loro case senza offendere i
Fiorentini, e alquanti di loro intimi amici di Marco e suoi servidori
per tema si fuggirono nella rocca; e stando la terra in questi termini,
da quelli d’entro a quelli di fuori fu l’una delle porti tagliata,
sicchè la gente in fiotto entrò dentro, e furono signori della terra. I
due Fiorentini, che in nome del comune aveano promesso che nè violenza
nè ruberia non si farebbe, in quella notte s’adoperarono sollecitamente
in forma e in modo che niuna ingiuria, o ruberia o danno nella terra
si fece eziandio in parole. I terrazzani uomini e donne assicurati
offeriano pane e vino, e altre cose abbondantemente, così a quelli
ch’erano entrati come a quelli ch’entravano. Come a Dio piacque, e
fu mirabile cosa, la terra si vinse senza spargimento di sangue, e
senza ruberia o ingiuria o violenza niuna o piccola o grande, che a
raccontare è cosa incredibile e vera.

CAP. LXII.
_Come la rocca di Bibbiena s’arrendè al comune di Firenze._
Vedendo Marco che la terra era presa, e ch’egli era con gente assai
nella rocca e con poca vittuaglia, perocchè per tema delle cave l’avea
sfornita, cercò di potersi patteggiare salvando le persone, ma non
ebbe luogo, e dibattutosi sopra ciò per molte riprese, infine impetrò,
che la sua donna ch’era figliuola del prefetto da Vico, la quale era
gravida, con un suo piccolo fanciullo con tutti gli arnesi di lei se
ne potesse andare, e che i terrazzani e alcuni sbanditi del comune di
Firenze fossono salvi; e quanto s’appartenne agli sbanditi, non fu
senza ombra d’infamia a’ nostri cittadini che si trovarono a questo
servigio. Marco e Lodovico suo fratello, e messer Leale loro zio,
Francesco della Faggiuola e altri masnadieri in numero di quaranta
rimasono prigioni, tutto che poi appresso il detto Francesco ch’era
garzone e infermo fosse lasciato, e a dì 7 di gennaio del detto anno
renderono la rocca, e a dì 12 del detto mese vennono presi a Firenze
i detti Tarlati, e furono messi spartitamente l’uno dall’altro nelle
prigioni del comune di Firenze.

CAP. LXIII.
_Di novità state in Spagna._
Carlo fratello naturale dello scellerato re di Spagna, e da lui
cacciato, si riducea col re d’Araona, conoscendo che la forza e
bestiale vita del fratello nel reame per paura lo facea temere e
odiare; e per tanto stimando che li fosse assai leggiere a fare
movimento nel reame eziandio con piccola gente, avuto dal re ottocento
cavalieri si mise in certa parte della Spagna, e correndo il paese
ricolse gran preda. Il re com’ebbe del fatto sentore, sapendo il
luogo dov’erano, e che loro era necessario volendo tornare in loro
paese passare per un certo luogo malagevole e stretto, subito mandò
duemila cavalieri ad occupare quel passo. Sentendo Carlo e’ Catalani
che ’l passo ond’era la loro ritornata era preso, e la gente che
v’era, volgendo la tema in disperazione, si deliberarono di mettersi
alla fortuna della battaglia, che altro rimedio non v’era. Il valente
giovane Carlo col volto fiero, come fosse certo della vittoria
confortando i Catalani, e inanimandoli a ben fare, mostrava che tra
la gente che gli attendea de’ nemici erano pochi buoni uomini, e che
gli altri erano gente vile e dispettosa, e male armata e novizza, e
dell’onore del re per sua crudeltà poco desiderosa, aggiugnendo, che
se voleano a loro donne e famiglie tornare, necessità era loro fare la
via con le spade in mano, e che certo si rendea, conoscendo la virtù
loro, che arebbono la via onoratamente. I Catalani vedendo l’animo
ardito e sicuro dei giovane presono speranza di vittoria, e si misono
alla battaglia, la quale fu fiera, e aspra e dura lungo tempo, ma i
Catalani, come la necessità strignea, raddoppiate le forze e l’ardire,
diportandosi valentemente, ruppono e sbarattarono gli Spagnuoli,
e oltre a’ morti e a’ magagnati ne furono presi più di trecento
cavalieri, e con la preda e con la vittuaglia non pensata si tornarono
in Araona.

CAP. LXIV.
_Come i Pistoiesi ripresono il castello della Sambuca._
Durando la guerra dal signore di Milano a quello di Bologna, e tenendo
quello di Bologna il castello della Sambuca, ch’era del contado di
Pistoia, ed era la chiave di dare l’entrata e l’uscita per li paesi
così all’offesa come alla difesa, veggendo i Pistoiesi che il signore
di Bologna era forte impedito della detta guerra, e che messer Bernabò
sormontava, presono tempo, e consiglio e favore, e il vescovo loro,
il quale era Fiorentino, nella Sambuca trattò, e seppe tanto trattare
e ordinare, che l’una delle guardie che guardava la torre della
rocca uccise il capitano; e fermato l’uscio per modo che di sotto
non poteano essere offesi, salì nella vetta, e colle pietre cominciò
a combattere col castellano dal lato d’entro, e’ terrazzani, com’era
ordinato, cominciarono a combattere di fuori; sicchè non potendo stare
alla difesa, che non lasciava, quei della torre vi cavalcarono. Il
castellano, ch’era Lombardo, stordito per lo tradimento e per lo subito
assalto, s’arrendè, salve le persone e l’avere, e all’uscita di gennaio
del detto anno, e la terra rimase liberamente nelle mani de’ Pistolesi.
Di questa cosa i Fiorentini furono molto contenti, sperando al bisogno
potere avere la guardia di quello luogo a sua difesa.

CAP. LXV.
_Come messer Bernabò strignea Bologna._
L’oste di messer Bernabò in questi tempi continovamente cresceva, la
quale avea fermato suo campo a Casalecchio, e il capitano del luogo
faceva cavalcare le brigate or qua or là, rompendo le strade, e facendo
assai danno a’ paesani. Gli Ubaldini ad arte si mostravano divisi,
e parte ne teneano con messer Bernabò, e parte con messer Giovanni,
il perchè le strade e l’alpi non si poteano usare. Il legato, che
come il nibbio aspettava la preda, per trarre a sè l’animo di messer
Giovanni, cui vedea dovere poco durare, l’aiutava con tutta la sua
forza, mettendo al continovo in Bologna gente e vittuaglia. Messer
Bernabò di ciò forte turbato, gli scrisse, che non faceva bene a
impedirlo che non tornasse in casa sua, minacciandolo, che se non
se ne rimanesse li farebbe novità nella Romagna e nella Marca. Per
queste minacce il legato più si sforzava ad atare messer Giovanni, il
quale vedendosi male parato e poco atto alla difesa, durando la guerra
guari di tempo, per più riprese mandava a Milano suoi ambasciadori per
levare messer Bernabò dall’impresa, e nondimeno ricercava se potesse
muovere i Fiorentini in suo aiuto; e non trovandovi modo, cominciò a
trattare collegato il ragionamento: il quale dava gli orecchi a volere
fare l’impresa, la quale nella fine venne fornita, come a suo tempo
diremo. Ma in questi dì, la cosa tanto dubbiosa e avviluppata, che
non si vedea dove la cosa ragionevolemente potesse passare, la guerra
rinforzava a giornate. Il capitano di messer Bernabò per più strignere
la terra e da lungi e da presso ponea bastie, e all’uscita di febbraio
ebbe Castiglione per trattato, ch’è un forte castello posto tra Modena
e Bologna. Il signore di Bologna, ch’era uomo al suo tempo riputato,
astuto e di buona testa, e per molti anni pratico delle battaglie del
mondo, bene conosceva che impossibile era sua difesa contro la forza
di messer Bernabò, non avendo altro aiuto, e però sagacissimamente
si sostenea, traendo delle castella quelli terrazzani che gli erano
sospetti, e bene li conoscea, e in Bologna sotto solenne guardia tenea
molti cittadini di cui non prendea confidanza; e del continovo pensava,
come con suo vantaggio e onore potesse dare ad altrui i pensieri della
guerra, e uscire di tante persecuzioni in luogo dove potesse il resto
de’ suoi giorni in pace vivere.

CAP. LXVI.
_Come gli Aretini riebbono il castello della Pieve a santo Stefano._
Il castello della Pieve a santo Stefano lungo tempo era stato nelle
mani de’ Tarlati; e’ terrazzani sentendo che Bibbiena era presa pe’
Fiorentini, temendo de’ mali che verisimilemente potevan loro avvenire,
cercarono di volersi acconciare con li Aretini con volontà di quelli
da Pietramala. Nella terra era uno figliuolo di messer Piero Sacconi
male in concio a potere resistere al loro volere, e però venendo
eglino a lui, loro consentì ciò che seppono divisare; e di presente
fece il fatto a’ suoi consorti sentire, e ad altri amici caporali
di loro stato, i quali senza indugio copertamente mandarono fanti al
castello, e uno di loro con pochi compagni disarmati, come se andassono
a sollazzo, entrò dentro con loro, e come si sentirono forti dentro
mutarono sermone, e coloro che si voleano accordare, e tutti quelli che
si faceano a ciò capo mandarono per stadichi ad altre loro tenute, e di
gente forestiera fornirono la guardia della terra, il perchè la cosa,
per allora si rimase. Ma i villani della terra loro intenzione, senza
mostrare segno di fuori, serbarono nel petto, e a dì 8 di febbraio
detto anno, non prendendone guardia i Tarlati che aveano la cosa per
cheta, i terrazzani preso loro tempo tutti si levarono a romore, e
presi i caporali de’ loro signori e de’ soldati, tenendoli tanto che
riebbono li stadichi loro, e liberaronsi della tirannia, racconciandosi
col comune d’Arezzo, e tornando allo stato e costume antico di loro
contadini, con certe immanità che domandarono, e loro furono concedute.
Questo fu alla casa de’ Tarlati, dopo la perdita di Bibbiena, grande
abbassamento di loro stato e signoria.

CAP. LXVII.
_Come il re d’Inghilterra si pose a oste alla città di Rems._
Il gennaio 1359 il re d’Inghilterra pose campo vicino alla città di
Rems, usando cautela di non fare loro guasto di fuori, e per più fiate
con belli modi cercò con impromesse di magnificare e d’esaltare quella
villa sopra tutte quelle di Francia, che gli fosse prestato l’assento
che in quella città potesse prendere la corona di Francia, promettendo
a tutti di trattarli benignamente; ma poichè vide che non era udito,
stimando che facessono ciò per vergogna d’arrendersi senza dominaggio,
li cominciò a minacciare di lungo assedio e disolazione della terra se
non facessono quello che domandava; ma lusinghe nè minacce approdarono
niente, perocchè fu di comune assentimento risposto loro, che aveano
loro diritto re, a cui intendeano mentre che durasse loro spirito in
corpo stare leali, diritti e fedeli, e che facesse suo podere contro
a loro che alla difesa intenderebbono a loro podere. Avendo il re
d’Inghilterra dalla comune di Rems questa finale risposta, diede boce,
che forniti quaranta dì d’assedio, di fuori in campo prenderebbe la
corona; ma non succedendo le cose a suo proponimento, convenne che
prendesse per lo migliore altro consiglio. E ciò avvenne, perchè la
stagione era forte contraria a tenere suo esercito insieme o a sicurtà,
e dividere non lo potea; onde per fare maggiori danni per lo reame,
e per stendersi con meno gravezza nel verno, prese e ordinò la sua
cavalleria come appresso racconteremo.

CAP. LXVIII.
_Discordia del conte di Focì a quello d’Armignacca._
Vedendo il re, come poco davanti dicemmo, che il suo stallo a Rems
era pericoloso e con poco profitto, all’entrare di febbraio divise suo
oste, e una parte ne fece cavalcare per lo paese, la quale non trovando
contrario s’arrestò a san Dionigi ch’è presso a Parigi a due leghe: e
questa mandata secondo l’opinione di molti fu di consiglio del re di
Navarra e con suo favore, sotto la scusa dello sdegno preso per lui per
lo Delfino di sospetto de’ mali ch’e’ facea. Il Delfino, col consiglio
di certi baroni fidati e fedeli alla corona, intendea a fornire le
rocche e le terre, e a fare sollecita e buona guardia in ogni luogo,
e lasciava correre e cavalcare il paese alla volontà degl’Inghilesi. E
stando in queste tenebre il reame di Francia, e non senza pericolo, era
per invidia grave discordia cresciuta intra il conte di Focì e quello
d’Armignacca, il quale solea essere assai di minore possa che quello di
Focì, molto era cresciuto in tanto ch’avanzava assai quello di Focì; e
la cagione di ciò era stato, perocchè per spazio di cinque anni quello
d’Armignacca avea tenuto il vicariato del paese per lo Delfino, onde
avea tratto grande tesoro; e per questo vizio d’invidia, il quale nelle
corti de’ signori signoreggia, il conte di Focì, veggendo il reame
in tanto pericolo, con segreto favore del re d’Inghilterra, secondo
che per fama si disse, raunò gente d’arme a cavallo e cavalcò per lo
paese, ed entrando nelle ville e nelle castella come barone fidato alla
corona, e con questo modo mandò fino a Tolosa, dicea che volea altri
cinque anni la vicheria del paese come avea avuto quello d’Armignacca,
che domandando colta per guardare il paese, non senza tema di
ribellione e per molto arbitrio s’appropriò senza l’assentimento dei
Delfino; i paesani si portavano saviamente per non dare loro in parte
a’ loro avversari, onde s’acquetò la nuova e paurosa fortuna, non che
guerra non rimanesse tra’ due conti.

CAP. LXIX.
_Quello feciono gli osti del re d’Inghilterra in Francia._
Un’altra parte dell’oste del re d’Inghilterra, essendo il verno nel
suo più grave tempo e ridotto alle piove, sotto la condotta del duca
di Guales, ch’era il primogenito del re d’Inghilterra, e del duca di
Lancastro, che al detto re era cugino, si mise a passare in Brettagna
per luoghi stretti e guazzosi, e per li freddi spiacevoli e rei; a
quel tempo alla gloria degl’Inghilesi non era malagevole nulla, i
quali faceano a loro senno e a loro voglia del reame di Francia quale
aveano in piega, e così stimavano fare di Borgogna, dove solea essere
il pregio e l’onore di gente d’arme, e così ferono, perocchè passarono
per luoghi stretti e malagevoli senza contasto; e giunti nel paese,
lo trovarono pieno di molto bene, onde molto s’adagiarono al vernare.
Il duca di Borgogna era un giovinetto, ed egli e’ suoi baroni erano
malcontenti del re di Francia, perchè avea la duchessa madre del
detto duca tolta per moglie, e per la sua dote assai avea preso tutte
giurisdizioni del paese; la quale cosa fu cagione di non prendere
quella franca difesa contro agl’Inghilesi che si potea pigliare.
Gl’Inghilesi per questo rispetto temperatamente si portarono co’
paesani, non prendendo più che a loro fosse mestiero; e perchè il paese
era dovizioso, e i passi nella forza degl’Inghilesi, poco appresso
del mese di marzo seguente, il re lasciate fornite in Normandia e in
Pittieri e in Berrì certe castella afforzate che aveano acquistate,
cavalcando liberamente il paese, col rimanente di sua oste se n’andò
a Celona in Borgogna, e di là mandò al papa suoi messaggi domandando
suo ricetto a Avignone; della qual cosa il papa e’ cardinali, e
tutta la corte ne fu in gelosia e in paura. Il papa gli mandò per la
detta cagione due vescovi, li quali il pregarono e comandarono che
non volesse per sua venuta turbare la Chiesa di Roma, e il re di ciò
l’ubbidì; nondimeno con ogni studio facea il papa afforzare la città
d’Avignone.

CAP. LXX.
_Come più castella si rubellarono a’ Tarlati._
Come per esperienza vedemo, e gli uomini e gli animali senza ragione
per natura sono vaghi di libertà, e l’appetiscono come loro proprio
bene; gli uccelletti in gabbia vezzosamente nudriti si rallegrano
vedendo le selve, e se possono fuggire de’ luoghi dove sono incarcerati
ritornano a’ boschi; gli uomini che sono stati in lungo servaggio
avvezzi al giogo della tirannia, se sono continovi, e veggiono il
tempo di ricoverare loro libertà, con tutti i sentimenti del corpo si
studiano a ciò pervenire. E di ciò in questi dì ne vedemmo la prova
ne’ suggetti de’ Tarlati, perocchè a dì 13 di febbraio 1359 la Serra
si diede al comune di Firenze; la quale fortezza il nome concordia
al fatto, perocchè serra il passo della montagna che è dal comune di
Bibbiena in Romagna: e il detto dì Montecchio s’arrendè agli Aretini.
Quelli della valle di Chiusi avendo mandato per gente al podestà di
Bibbiena, e non potendola avere, se prima non ne facesse coscienza al
comune di Firenze, e a loro troppo tardava, l’ebbono dagli Aretini, e
rubellaronsi da’ Tarlati. Guido fratello di Marco si tenne alla rocca,
ch’era fortissima, e da non potersi mai vincere per forza, onde per gli
Aretini fu cinta d’assedio in forma che poco potea sperare in soccorso
di fuori. E per questa simigliante fortuna aveano considerato che i
tiranni murano a secco, che bene che loro mura per altezza passino
il cielo, come n’è tratta una pietra di sotto di quelle in su che
è carica, l’altre senza niuno ritegno rovinano; il perchè se cotali
che usurpano il dominio avessono buon sentimento, non piglierebbono
fidanza delle maravigliose fortezze, ma de’ cuori de’ suggetti loro,
trattandoli bene.

CAP. LXXI.
_Di un trattato di Bologna scoperto._
Non meno ne’ trattati che nella forza dell’arme si riposa e rivolge
l’intenzione de’ tiranni; non meno acquistano con tradimento, e con
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