Cronica di Matteo Villani, vol. 4 - 12

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della gente del comune e de’ Fiorentini per lo ributtamento che fatto
n’aveano.

CAP. XLVI.
_Come il castello di Troco fu incorporato per la corona di Puglia._
Carlo Artù, com’è scritto addietro, fu incolpato della morte del re
Andreasso, e per la detta cagione condannato per traditore della
corona, e i suoi beni pubblicati, e incorporati alla camera della
reina, tra’ quali era il castello di Troco; il quale dappoi era stato
privilegiato al prenze di Taranto, e lui l’avea conceduto a messer
Lionardo di Troco di Capovana: e avendolo lungo tempo tenuto, in
questo il conte di Santagata figliuolo del detto Carlo lo fè furare
a’ masnadieri, i quali nel segreto il teneano per lui; onde aontato di
ciò il prenze accolse circa a mille uomini a cavallo, e misesi a oste
a Santagata, e gran tempo vi stette, e non potendo avere la terra del
detto conte contro alla volontà del re Luigi, infine se ne partì con
poco frutto; e bene ch’avesse animo ad altri processi, e li cominciasse
a seguire, e’ ci giova, di lasciarli, come cose lievi, e tornare alle
cose più notabili de’ nostri paesi.

CAP. XLVII.
_Come il comune di Firenze assediò Bibbiena._
I Tarlati d’Arezzo, per che cagione il facessono, mai non aveano
voluto ratificare, come aderenti de’ signori di Milano, alla pace
fatta a Serezzana intra’ detti signori e comuni di Toscana, e stavansi
maliziosamente intra due, attenendosi alle fortezze loro, che n’aveano
molte in que’ tempi, e guerreggiando agli Ubertini, senza mostrarsi
in atto veruno contro al nostro comune; e intra l’altre terre, Marco
di messer Piero Saccone possedea liberamente la terra di Bibbiena,
la quale di ragione era del vescovo d’Arezzo, colla quale ne’ tempi
passati molta guerra avea fatta a’ Fiorentini. Ora tornando a nostro
trattato, come avanti dicemmo, gli Ubertini, nemici di quelli da
Pietramala, col senno e buono aoperare erano tornati nella grazia e
amore del nostro comune, ed essendo messer Buoso degli Ubertini vescovo
d’Arezzo venuto a Firenze per la cagione che di sopra dicemmo, si
ristrinse co’ governatori del nostro comune segretamente animandoli
all’impresa di Bibbiena, conferendo di dare le sue ragioni al comune
di Firenze. Il suo ragionamento fu accettato; e aggiunta l’intenzione
buona del vescovo all’operazione di messer Biordo, il comune per
gareggiare la famiglia degli Ubertini, e mostrare che veramente
gli avesse in amore, a dì 23 d’agosto per riformagione ribandì gli
Ubertini; e per confermare la memoria delle fedeli operazioni di messer
Biordo, domenica mattina a dì 25 d’agosto fè cavaliere di popolo Azzo
suo fratello, con onorarlo di corredi e di doni cavallereschi; e di
presente lo feciono cavalcare a Bibbiena con gente d’arme a cavallo
e a piè, e a dì 26 del detto mese con la detta gente prese il poggio
al Monistero a lato a Bibbiena, e il borgo che si chiama Lotrina, e
ivi s’afforzarono vicini alla terra al trarre del balestro. Era nella
terra Marco e messer Leale fratello naturale di messer Piero Sacconi,
attempato e savio, i quali per alcuno sentore di trattato aveano
mandati di fuori della terra tutti coloro di cui sospettavano, e nel
subito e non pensato caso si fornirono prestamente di loro confidenti e
di molti masnadieri, il perchè convenia, ch’avendo la rocca e la forza
i terrazzani stessono a posa e ubbidienti loro, e pensando che la cosa
averebbe lungo trattato, s’ordinarono e afforzarono a fare resistenza
e franca difesa, sperando nella lunghezza del tempo avere soccorso.
Il comune di Firenze multiplicava a giornate l’assedio, e in servigio
del comune v’andò il conte Ruberto con molti suoi fedeli in persona,
e di presente pose suo campo, e simile feciono gli altri. E così in
pochi dì la terra fu cerchiata d’assedio, e gli Ubertini in tutte loro
rocche e castella vicine a Bibbiena misono gente del comune di Firenze,
e per più fortezza e sicurtà di quelli ch’erano al campo. La guerra
si cominciò aspra e ontosa secondo il grado suo, e que’ d’entro per
mostrare franchezza aveano poco a pregio il comune di Firenze, uscivano
spesso fuori a badaluccare, e a dì 30 d’agosto in una zuffa stretta fu
morto il conte Deo da Porciano, che v’era in servigio de’ Fiorentini.

CAP. XLVIII.
_Come il comune comperò Soci._
Marco di Galeotto, come vide assediata Bibbiena, e avendovi presso Soci
a due miglia, con sano consiglio abbandonò la speranza de’ Perugini che
l’aveano per loro accomandato, e avuto licenza, perchè era in bando,
se ne venne a Firenze a’ signori; e ragunati i collegi, e richiestili,
liberamente si rimise nelle mani del comune con dire, che de’ fatti
del castello Sanniccolò e di Soci, e di ciò ch’egli avea nel mondo,
ed eziandio della persona ne facessono loro volontà: il comune per
questa sua liberalità e profferta spontaneamente e di buono volere,
e non ostante ch’e’ terrazzani di Soci si volessono dare al comune,
e ciò era fattevole senza contasto per forza che appresso al castello
avea il comune, tanto legò l’animo de’ cittadini, per natura benigni
a perdonare, che ’l comune si dispose a sopra comperare, per mostrare
amore e giustizia; e perchè il valente uomo si mostrasse contento,
e sopra ciò provveduto discretamente, adì 26 d’ottobre 1359 per li
consigli ribandirono Marco, e dierongli contanti fiorini seimila
d’oro; e fè carta di vendita di Soci e di tutte le terre che in que’
luoghi avea, e le ragioni ch’avea in castello Sanniccolò concedette al
nostro comune, e delle carte ne fu rogatore ser Piero di ser Grifo da
Pratovecchio notaio delle riformagioni e altri notai, e così pervenne
Soci a contado del comune di Firenze. Come per tema non giusta Marco di
Galeotto si mise a venire a Firenze, e fece quello ch’avemo detto di
sopra, e così vennono i conti da Montedoglio volendosi accomandare al
comune, i quali non li vollono ricevere se prima non facessono guerra
a’ Tarlati, e non volendo ciò fare, si partirono con poca grazia del
nostro comune.

CAP. XLIX.
_Come il vescovo d’Arezzo diede le sue ragioni che avea in Bibbiena al
comune di Firenze._
Messer Buoso degli Ubertini vescovo d’Arezzo, non potendo sotto
altro titolo che d’allogagione a fitto, a dì 7 di settembre 1359
allogò al comune di Firenze per certo fitto annuale, facendo le carte
dell’allogagione di sette anni in sette anni, e facendone molte, le
quali insieme sono gran novero d’anni, e confessò il fitto per tutto
il detto tempo, e largì al comune ogni ragione e giurisdizione e
signoria che ’l vescovado d’Arezzo avea nella terra e distretto di
Bibbiena, e le carte ne fece il detto ser Piero di ser Grifo; e con
questa cautela fu giustificata l’impresa del nostro comune. Questa
concessione fatta per lo vescovo fu approvata e confermata per lo
comune d’Arezzo, il quale per fortificare le ragioni del nostro comune
ogni ragione ch’appartenea per qualunque ragione avea in Bibbiena gli
diede liberamente. A queste giuste ragioni s’aggiugnea l’animo e buono
volere de’ terrazzani di Bibbiena, che volentieri fuggivano la tirannia
di quelli da Pietramala: ciò cominciarono a mostrare quelli ch’erano
cacciati di fuori, ch’erano nel campo de’ Fiorentini guerreggiando i
Tarlati, e di poi lo mostrarono quelli ch’erano dentro quando si vidono
il tempo di poterlo fare, come seguendo nostro trattato racconteremo.

CAP. L.
_Seguita la sequela della compagnia._
Seguendo i principii fatti per lo comune in mandare gente a messer
Bernabò contro alla compagnia, il signore di Bologna, ch’allora era
in pace con lui, li mandò cinquecento cavalieri, e quello di Padova, e
quello di Mantova, e quello di Ferrara ancora li mandarono della gente
loro; essendo il marchese di Monferrato fatto forte con la compagnia,
uscì fuori a campo con molta baldanza, ma di subito i signori di Milano
con loro oste li furono appetto, sicchè li convenia stare a riguardo, e
per tenerlo a freno i detti signori posono l’oste a Pavia, e strinsonla
forte. Il marchese avendo alla fronte il bello e grande esercito de’
detti signori, non si potea volgere indietro a dare soccorso a Pavia
per non avere i nemici alla coda, e stando le due osti affrontati, non
ebbono tra loro cosa notevole, se non d’uno abboccamento di cinquecento
cavalieri di que’ della compagnia, che per avventura s’abboccarono con
altrettanti di quelli del comune di Firenze, intra’ quali per onta
e per gara e per grande spazio fu dura e aspra battaglia, e infine
i cavalieri de’ Fiorentini sconfissono quelli della compagnia. Nella
quale rotta furono presi tre caporali de’ maggiorenti della compagnia
con più di dugento cavalieri, e assai ve ne furono morti e magagnati;
e ciò avvenne d’ottobre del detto anno. Nell’assedio della città di
Pavia occorse un altro caso più spiacevole per lo fine suo; che essendo
preso da quelli da Pavia uno Milanese d’assai orrevole luogo, fuori
d’ordine di buona guerra fu impiccato; e venuta la novella a messer
Bernabò, e infocato d’ira, comandò a messer Picchino nobile cavaliere,
e di grande stato e autorità in Milano, che quattordici prigioni di
Pavia ch’erano nell’oste li facesse impiccare, infra’ quali ve n’era
uno di buona fama, e di gentile luogo, e d’assai pregio, non degno di
quella morte, per lo quale molti Milanesi ch’erano nell’oste pregarono
messer Picchino che cercasse suo scampo. Il quale mosso da pietà e
dalle giuste preghiere di tali cittadini mandò a messer Bernabò di
tali cittadini, e della sua umilità ferventemente pregò il signore
che per loro grazia e amore dovesse perdonare la vita a quello nobile
uomo; il signore per queste preghiere invelenito e aspramente turbato
comandò a messer Picchino che colle sue mani il dovesse impiccare;
il gentile uomo stepidito, e impaurito di tale comandamento, e
non meno di lui tutti i suoi amici e parenti, e molti buoni e cari
cittadini, cercarono stantemente con sommessione e preghiera, che ’l
nobile e gentile cavaliere, cui il signore avea fatto tanto d’onore,
di sì vile e vituperoso servigio non fosse contaminato; il signore
indurato alle preghiere, perseverando nella pertinacie sua, aggiunse
al vecchio comandamento, che se nol facesse, primieramente farebbe
impiccare lui. Il gentile cavaliere vedendo l’animo feroce del tiranno,
che se non facesse quello che gli era comandato che li convenia
vituperosamente morire, stretto da necessità, confuso e attristito,
si spogliò i vestimenti e di tutti i segni di cavalleria, e rimaso
in camicia, vestito di sacco con vile cappelluccio, e a maraviglia di
dispetto, andò a mettere a esecuzione il comandamento del tiranno, con
proponimento di non usare più onore di cavalleria, poichè era sforzato
d’essere manigoldo; che assai diede per l’atto a intendere quanto fosse
da prezzare il beneficio della libertà, da’ Lombardi non conosciuta.

CAP. LI.
_De’ fatti di Sicilia e del seguire l’ammonire in Firenze._
Per sperienza di natura vedemo, che l’uomo appetisce di vari cibi, e
che di tale varietà lo stomaco piglia conforto, e fa digestione; e così
quando l’orecchie con fatica pure d’un medesimo modo udire desidera
intramesse d’altro parlare. Noi seguendo quello che natura per suo
ricriamento acchiede in quello luogo, accozzeremo molte novelle occorse
in molti luoghi e in uno tempo diversi, nè del tutto degni di nota, nè
da essere posti a oblio, e farenne una nuova vivanda in queste parti.
Per lo poco polso, e per la poca forza e vigore ch’aveano le parti che
governavano l’isola di Cicilia, loro guerre erano inferme e tediose;
il duca e’ Catalani col seguito loro aveano assai poca potenza, e
la parte del re Luigi molto minore; e le lievi guerre e continove
straccavano e consumavano l’isola, e nè l’una parte nè l’altra poteano
sue imprese fornire, e pure si guastavano insieme con fame e confusione
de’ paesani, che a giornate correano in miseria. Il duca avea alquanto
più seguito, e que’ di Chiaramonte speranza nell’aiuto del re Luigi,
che promettea loro assai, e poco facea; onde i gentili uomini non
tanto per amore del re, quanto per sostenere sè medesimi, e loro fama
e grandigia, intendeano alla guardia di Palermo, e d’alcuno castello
che il duca tenea debolmente assediato col braccio de’ Catalani, tra
che gli assediatori erano fieboli e di poca possanza, e gli assediati
poveri d’aiuto, niuna notevole cosa era stata a oste di quelle terre; e
lieve era agli assediati a schernire i nemici, e fargli da oste levare,
perchè oggi si poneano, e ’l dì seguente se ne levavano, e parea la
cosa quasi nel fine suo, per impotenza dell’una parte e dell’altra.
Ma quello che segue, tutto paia da’ principii suoi da poco curare e di
piccola stificanza, più nel segreto del petto che non mostra in fronte,
se Dio per sua pietà non provvede, chi sottilmente mira, può generare
divisione e scandalo nella nostra città. In questi giorni, colle febbri
lente continove dell’isola di Cicilia, le nostre, civili mali, ne’ loro
principii non curate, si perseguia l’ammonire chi prendesse o volesse
prendere uficio, e non fosse vero guelfo, o alla casa della parte
confidente. E certo in sè la legge era buona, come addietro dicemmo,
ma era male praticata, e recata a fare vendetta, e altre poco oneste
mercatanzie, perchè forte la cosa spiacea agli antichi e veri guelfi,
e agli amatori di quella parte, e della pace e tranquillità del nostro
comune. E scorto era per tutto, che ’l mal uso della riformagione
tenea sospesi, e in tremore e in paura più i guelfi ch’e’ ghibellini,
e sospettando di non ricevere senza colpa vergogna. A queste due
travaglie aggiugneremo una novità d’altre maniere. I Romani, che già
furono del mondo signori, e che diedono le leggi e’ costumi a tutti,
erano stati gran tempo senza ordine o forza di stato popolare, onde
loro contado e distretto si potea dire una spelonca di ladroni, e gente
disposta a mal fare. Il perchè volendosi regolare, e recarsi a migliore
disposizione, avendo rispetto al reggimento de’ Fiorentini, feciono
de’ loro cittadini popolari alquanti rettori con certa podestà e balía
assomiglianti a’ nostri priori, tutto che molto minore, e feciono capo
di rioni sotto il titolo di banderesi: ivi rispondeano a ogni loro
volontà duemilacinquecento cittadini giovani eletti e bene armati,
i quali al bisogno uscivano fuori della città bene armati a fare
l’esecuzione della giustizia contro a’ malfattori. Avvenne in questi
giorni, che conturbando con ruberie il paese uno Gaetano fratello
del conte di Fondi, fu preso, e senza niuna redenzione fu impiccato,
con molti suoi compagni che furono presi con lui di nome e di lieva.
Il perchè da queste e da altre esecuzioni fatte contro a’ paesani e’
cittadini che ricettavano i malfattori, oggi il paese di Roma è assai
libero e sicuro a ogni maniera di gente.

CAP. LII.
_Come Bibbiena per nuovo capitano fu molto stretta._
La punga che ’l comune faceva per avere Bibbiena era grande, e la
resistenza de’ Tarlati molto maggiore, e faceano forte maravigliare
i governatori del nostro comune, veggendo la durezza e la pertinacie
loro, non aspettando soccorso di luogo che venisse a dire nulla; e come
che la cosa s’andasse, non fu senza infamia del capitano del popolo
ch’era de’ marchesi da Ferrara, il quale era stato mandato per capitano
di tutta l’oste, il quale vilmente e lentamente in tutte cose si
portava, e d’alcuni cittadini che gli erano stati dati per consiglio.
Onde il comune prese oneste cagioni e’ rivocarono il capitano e ’l suo
consiglio, e in suo luogo mandarono il potestà con altri cittadini,
il quale fu messer Ciappo da Narni, uomo d’arme valoroso, e sentito
assai. Il quale avendo da Firenze molti maestri di legname e di
cave, prestamente fece cignere la terra di fossi e di steccati, e
imbertescando i luoghi dov’era bisogno, e in più parti, e alla rocca
e alla terra fè dirizzare cave, e simile faceano que’ d’entro per
riscontrare. Appresso vi dirizzarono due dificii che gittavano gran
pietre, e di dì e di notte secondo uso di guerra li molestavano,
senza dare loro riposo. Que’ d’entro per rompere e impedire i mangani
dirizzarono manganelle, colle quali assai danno facevano. Nè contento
il capitano alla detta sollicitudine, cominciò a cavare l’altre torri
de’ Tarlati per tenerle strette, e in esse cercava trattati, ne’
quali fu preso Corone, e Giunchereto, e Frassineto per battaglia, e
all’uscita di settembre presono Faeto castelletto ch’era di messer
Leale, nel quale trovarono assai roba, e predato il paese, si tornarono
al campo. E perchè le castella prese erano del contado d’Arezzo, il
comune liberamente le rendè agli Aretini, i quali molto le ebbono a
grado, e tutto che nostro comune perseguitasse quelli da Pietramala a
suo potere, gli Aretini seguendo il grido non stavano oziosi, facendo
dal lato loro, quanto poteano e sapeano di guerra. E nel detto tempo
in sul giogo ripresono un loro castello che ’l conte Riccardo dal Bagno
lungo tempo avea loro occupato; e perseguendo l’assedio, nell’entrante
d’ottobre furono tratti a fine e forniti tre battifolli intra’ campi
erano posti, onde la terra fu per modo circondata d’assedio ch’entrare
nè uscire non potea persona. Lasceremo assediata Bibbiena, e a suo
tempo diremo come fu presa, e diremo alquanto delle cose straniere, che
in questi tempi avvennono da fare menzione.

CAP. LIII.
_Come il re d’Inghilterra passò in Francia con smisurata forza._
Poichè al re d’Inghilterra fu manifesto, che la pace che fatta avea col
re di Francia da’ Franceschi non era accettata, e che il re di Navarra
avea fatta pace col Delfino di Vienna, la quale si stimava per li
discreti essere proceduta d’assento e ordine di esso re d’Inghilterra,
sotto speranza, che essendo il re di Navarra ne’ consigli de’
Franceschi e creduto da loro, più dentro potesse a tempo preso di
male operare in sovversione della casa di Francia, che di fuori
colla guerra, perocchè come il savio dice, che niuna pestilenza è al
nocimento più efficace che il domestico e famigliare nemico, aggravando
alle cagioni della guerra, con dare il carico di non volere la pace a’
suoi avversari, fece suo sforzo di suoi Inghilesi e di gente soldata
maggiore che mai per l’addietro, e mandò in prima il duca di Lancastro
con centoventitrè navi, nelle quali furono millecinquecento cavalieri
e ventimila arcieri, all’entrata d’ottobre 1359, e posto in terra la
gente, si mise infra il reame di Francia verso Parigi, e col navilio
predetto tornato nell’isola, aggiunte molte altre navi, all’uscita del
mese il re Adoardo col prenze di Gaules e con gli altri suoi figliuoli,
con esercito innumerabile di suoi Inghilesi a piè, quasi tutti arcieri,
anche passò a Calese. E secondo ch’avemmo per vero, il numero di sua
gente passò centomila. La detta mossa contro al tempo di guerra fa
manifesto, che molto empito e smisurato volere movea il re Adoardo, e
fermezza nell’animo suo ch’era grande e smisurato d’ottenere quello che
lungo tempo avea desiderato, perchè principiò nell’entrata del verno,
che suole dare triegua e riposo alle guerre. E perchè il tempo allora
era dirotto alle piove, e il paese di Francia è pieno di riviere, molti
stimarono che ciò facesse, per dimostrare a’ nemici quello che della
guerra potesse seguire nella primavera e nella state, cominciando in
sul brusco per spiacevole tempo, e per infiebolire gli animi loro sì
con la possa smisurata, e sì con dare speranza di molta e tediosa
lunghezza di guerra. Come procedette questa trionfale e terribile
impresa, seguendo a suo tempo diremo.

CAP. LIV.
_La poca fede del conte di Lando._
Non è da lasciare in silenzio, oltre all’altre infamie, quello che
della corrotta fede che in que’ giorni mosse il conte di Lando al
marchese di Monferrato, il quale con molto spendio e fatica gli avea
tratti di Toscana lui e sua compagnia, ove si potea dire veramente
perduta, e fatti conducere a salvamento per la Riviera di Genova, e
poi pel Piemonte nel piano di Lombardia, con patti giurati di tenerli
fede infino a guerra finita contro a’ signori di Milano, con certo
soldo limitato da potersi passare con avanzo, il traditore, rotta
ogni leanza e promessa al marchese predetto, del mese d’ottobre con
millecinquecento barbute prese segretamente il soldo di messer Bernabò,
e uscì dell’oste del marchese, e se n’andò in quello de’ nemici con
l’insegne levate, rimanendo Anichino e gli altri caporali col resto
della compagnia al marchese; i quali molto biasimarono il fallo
enorme del conte, pubblicamente appellandolo traditore; ma poco tempo
appresso, tirati dal suono della moneta de’ signori di Milano, feciono
il simigliante, e tutti abbandonarono il marchese, verificando il
verso del poeta: Nulla fides, pietas que viris qui castra sequntur; che
recato in volgare viene a dire: Niuna fede nè niuna pietà è in quelli
uomini che seguitano gli eserciti d’arme, cioè a dire in gualdana a
predare, e a fare male. I signori di Milano dopo la venuta del conte
fortissimamente strinsono la città di Pavia, togliendo a que’ d’entro
ogni speranza di soccorso, perocchè vedendo il marchese i modi tenuti
per lo conte di Lando, ed origliando i cercamenti che i Tedeschi
che gli erano rimasi faceano, non osava e non si confidava mettere a
bersaglio per soccorrere la terra.

CAP. LV.
_Come Pavia s’arrendè a messer Galeazzo._
Gli affannati e tribolati cittadini di Pavia e disperati d’ogni
soccorso, e spezialmente di quello del marchese, cui vedeano da’
Tedeschi gabbato e tradito, e altro capo non aveano che frate Iacopo
del Bossolaro, col suo consiglio cercarono d’arrendersi a patti a
messer Galeazzo il quale liberamente gli accettò con tutti que’ patti
e convenienze che ’l detto frate Iacopo seppe divisare: e fermo tutto
e’ ricevettono dentro messer Galeazzo con la sua gente del mese di
novembre del detto anno; il quale entrato dentro con buona cera,
si contenne senza fare novità, mostrandosi benigno e piacevole a’
cittadini e a frate Iacopo, e fecelo di suo consiglio, mostrandoli
fede e amore, e avendolo quasi come santo e in grande reverenza; e con
questa pratica e infinta sagacità ordinò con lui assai di quello che
volle senza turbare i cittadini; e avendo recato in sua balía tutte le
fortezze della terra e di fuori si tornò a Milano, mostrando a frate
Iacopo affezione singulare, e lo menò seco, e come l’ebbe in Milano il
fece prendere, e mettere in perpetua carcere, e condannato il mandò a
Vercelli al luogo de’ frati dell’ordine suo, e ordinatoli quivi una
forte e bella prigione, con poco lume e assai disagio, ponendo fine
alle tempeste secolari che con la lingua sua ornata di ben parlare
avea commesse. E ciò fatto, tenea all’opera più di seimila persone, e
fece cominciare in Pavia una fortezza sotto nome di Cittadella, nella
quale si ricogliesse tutta sua gente d’arme senza niuno cittadino;
e ciò non fu senza lagrime e singhiozzi de’ cittadini, siccome di
prima cominciarono a vedere il principio dello spiacevole giogo della
tirannia, e sì per lo guasto delle case loro che si conteneano nel
luogo, ove s’edificava lo specchio della miseria loro, dove portavano
gran danno e disagio; e per nominare quello che suole addivenire a
chi cade in mala fortuna, frate Iacopo era infamato degli omicidi,
che non furono pochi, i quali erano proceduti delle prediche sue,
e de’ cacciamenti di molti cari e antichi cittadini di Pavia sotto
maestrevole colore di battere e affrenare i tiranni; ma quello che
più parea suo nome d’orrore nel cospetto di tutti erano le rovine de’
nobili edifici di que’ da Beccheria e d’altri notabili cittadini che
li seguivano, mostrando che l’abbattere il nido agli uomini rei era
meritorio, quasi come se peccassono le case, che è stolta cosa, tutto
che per mala osservanza tutto giorno s’insegna queste cose, parea che
l’accusassono di crudeltà; e quello costringono d’avarizia, perocchè
sotto titolo di cattolica ubbidienza aveano fatto statuti, che chi non
fosse la mattina alla messa e la sera al vespero pagasse certa quantità
di danari; e avendo sopra ciò fatte le spie, cui trovassono in fallo il
minacciavano d’accusare, e sotto questa tema li facevano ricomperare.
E certo chi volesse stare nel servigio di Dio e nelle battaglie di
vita riligiosa, e mescolandosi nelle cose del secolo e ne’ viluppi
è spesso ingannato da colui che si trasfigura in vasello di luce per
ingannare quelli col principio della santa operazione, favoreggiando
col grido del popolo il santo l’indusse a vanagloria e in crudeltà, e,
come dovemo stimare, Iddio con le pene della croce lo ridusse alla vita
d’onde s’era per lusinghe del mondo partito.

CAP. LVI.
_Come i signori di Milano sfidarono il signore di Bologna._
Come la sete dell’avaro per acquisto d’oro non si può saziare, così la
rabbia del tiranno non si può ammorzare per acquisto di signoria; per
divorare tiene la gola aperta, e quanto più ha cui possa distruggere
e consumare, più ne desidera. Questo per tanto dicemo, perchè in
questi dì, avendo i signori di Milano con la forza della moneta e
col tradimento del conte di Lando e d’Anichino vinto e vergognato il
marchese di Monferrato, e aggiunta per forza alla loro signoria la
nobile e antica città di Pavia, ringraziando con lettere il comune
di Firenze del bello e buono servigio della sua gente ricevuto, di
presente la rimandò; e cresciuto loro l’animo per lo felice riuscimento
della città di Pavia, entrarono in pensiero e in sollicitudine di
rivolere o per amore o per forza la città di Bologna, non ostante
che da messer Giovanni da Oleggio loro consorto che allora la tenea
avessono avuto aiuto alla loro guerra seicento barbute, le quali
ritennono ad arte e con ingegno al soldo loro, pensando d’avere
mercato nel subito loro movimento del signore di Bologna, trovandosi
ignudo e sfornito di gente d’arme a difesa; e con trovare rottura
di pace, scrissono al comune di Firenze che non si maravigliasse,
perchè sì subito assalissono con la forza loro il signore di Bologna,
da cui erano stati traditi, e che a loro avea rotta la pace senza
niuna giusta cagione; e nella lettera scritta di questa materia al
comune era intramessa la copia di quella che mandarono al signore di
Bologna, sfidandolo e appellandolo per traditore, la quale lettera fu
appresentata al signore di Bologna come l’oste de’ signori di Milano
giunse nel terreno di Bologna.

CAP. LVII.
_Come messer Bernabò mandò l’oste sua sopra Bologna._
Seguendo la materia del precedente capitolo, all’entrata di dicembre
del detto anno, messer Bernabò fece capitano della gente che mandò
nel Bolognese il marchese Francesco da Esti, il quale essendo cacciato
di Ferrara era ridotto a messer Bernabò, ed era suo provvisionato, e
senza niuno arresto con tremila cavalieri, e millecinquecento Ungheri,
e quattromila pedoni e mille balestrieri lo fece cavalcare in su
quello di Bologna, avendo il passo dal signore di Ferrara, allora in
amicizia e compare di messer Bernabò, e oltre al passo, vittuaglia e
aiuto; e come uscì del Modenese si pose a campo intorno al castello di
Crevalcuore, e ciò fu infra dieci dì infra ’l mese di dicembre, e ivi
stette più giorni; sollecitato con parecchie battaglie il castello,
non avendo soccorso dal signore di Bologna, a dì 20 del detto mese
s’arrendè a promissione di messer Giovanni de’ Peppoli, il quale era
nell’oste al servigio di messer Bernabò; e ricevuto il castello e le
guardie del capitano dell’oste, essendo il castello abbondevole di
vittuaglia, assai n’allargò l’oste. Avuto Crevalcuore, le villate
ch’erano d’intorno da lunga e da presso per non essere predati
ubbidirono il capitano, facendo il mercato sotto il caldo e baldanza
di questo ricetto. Bene che la vernata fosse spiacevole e aspra per
le molte piove, quelli dell’oste ogni dì cavalcavano insino presso a
Bologna, levando prede e prigioni, e tribolando il paese; il signore
di Bologna, ch’era savio e d’animo grande, non faltò di cuore per
la non pensata e subita guerra, e veggendosi per l’astuzia di messer
Bernabò che gli avea levati i soldati, come dicemmo di sopra, povero di
gente d’arme e d’aiuto, senza indugio trasse delle terre di fuori que’
terrazzani che si sentì ch’erano sospetti, e le rifornì di soldati,
perchè i terrazzani non avessono podere d’arrendersi sì prestamente
come fatto aveano quelli di Crevalcuore; e attendea con sollicitudine
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