Cronica di Matteo Villani, vol. 4 - 06

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fu riputato malizioso e sagace consiglio. Gli ambasciadori udito questo
si strinsono insieme con fare vista d’avere gran paura, e diliberarono
quello, che come è detto, altra volta aveano diliberato, ciò fu di
trarli di Dicomano a salvamento, e di metterli a Vicchio in quello di
Firenze, ch’era proibito loro, e farli signori del piano di Mugello con
abbondanza di vittuaglia. In questo comprendere si può quanta baldanza
era in que’ tempi ne’ cittadini dello stato, e quanta poca reverenza si
portava per loro alla maestà del comune; e meritevolmente, perocchè nè
premio delle virtù, nè pena de’ falli per lo comune si rendea in que’
giorni, ma le spezialità e le sette de’ cittadini faceano comportare
ogni grande ingiuria del comune con grande pazienza, la quale talora è
vicina di crudeltà per la remissione delle debite pene. Avendo preso
questo partito, come detto è, non degnarono di manifestarlo per lo
loro compagno al comune, e il comune avea provveduto alla gente sua
di capitani, i quali sapendo l’intenzione del comune, più credettono
agli ambasciadori ch’al comune, e consentirono a’ comandamenti che gli
ambasciadori feciono a’ balestrieri e agli altri soldati del comune;
ebbono gli ambasciadori in sul vespero Broccardo Tedesco con tutti i
soldati a cavallo che volentieri feciono quel servigio, e ordinarli
alla retroguardia, per tema de’ fedeli de’ conti che non si poteano
raffrenare, e il passo ch’era preso per li pedoni e balestrieri
fiorentini feciono allargare, e rappianare le tagliate e le fosse, e
abbattere tutte l’altre insegne con una d’un trombadore da Firenze
posta in su un’asta; e avendo fasciata dall’una parte e dall’altra
quella compagnia de’ balestrieri del comune di Firenze li condussono a
Vicchio, e feciono loro dare del pane che mandato era là per l’oste de’
Fiorentini. E avvenne, che non potendosi raffrenare i fedeli de’ conti
dalla mischia, che i balestrieri del comune di Firenze furono costretti
dagli ambasciadori di saettarli. I cittadini, e i contadini di Firenze,
e i balestrieri, che di grande animo erano tratti per combattere la
compagnia, udendo ch’elli erano condotti in signoria del Mugello,
perderono il vigore, e grande dolore n’ebbono, più che se fossono
stati sconfitti, e ben conobbono che ’l comune era stato beffato, e
pubblicamente, e dentro e di fuori, appellavano gli ambasciadori per
poco fedeli e diritti al loro comune.

CAP. LXXIX.
_Come la compagnia andò in Romagna._
Sentito a Firenze che contro alla diliberazione del comune la compagnia
sotto la condotta de’ suoi cittadini s’era partita da Dicomano e
ridottasi a Vicchio, e che era nella signoria del piano di Mugello,
la città per comune se ne dolse, e li rettori d’essa non sapeano che
fatto s’avessono, nè che fare s’avessono; e la grande moltitudine
di gente a piè ch’era sparta per li poggi del Mugello non essendo
capitanata, e non sapendo cui ubbidire nè offendere, non si partia
dalle poste. Quelli della compagnia, che sentivano quello ch’era
diliberato a Firenze, avendo preso riposo per un giorno e una notte
in Vicchio, veggendo i poggi intorno a loro carichi di fanti, e
massimamente di balestrieri, i quali per li vantaggi de’ luoghi onde
aveano a passare più ridottavano, temendo che crescendo la forza del
comune eziandio il piano loro non fosse impedito, la mattina raccolti
insieme da Vicchio scesono nel piano, avendo per loro conducitore
ritenuto messer Manno Donati, e come uomini usi nell’arme, vedendo che
la gente del comune, che loro era vicina, era volonterosa senza ordine
o capitano, lasciato nel piano addietro uno aguato di cento Ungheri,
s’arrestarono nel piano; e ciò feciono non per guadagno che sperassono
di fare, ma perchè vidono che i balestrieri aveano passata la Sieve, o
per vedere, come folli, o per guadagnare, stimando, che se agramente
ne gastigassono alquanti, gli altri intimidirebbono e darebbono loro
meno affanno; e così venne loro fatto. Perocchè caduti nell’aguato,
gli Ungheri gli assalirono da due parti, e non avendo i balestrieri
soccorso, di presente furono rotti e sbarattati; e come dicemmo non
attendendo a’ prigioni, ne uccisono più di sessanta; e ciò fatto,
gli Ungheri si ritrassono alla massa de’ loro, e senza niuno arresto
tutti si diviarono al cammino per lo passo dello Stale sotto la guida
di Ghisello degli Ubaldini, e quel dì cavalcarono quarantadue miglia,
fino ch’e’ giunsono in su quello d’Imola dove erano sicuri, malcontenti
e palesi nemici del nostro comune. La cagione di così lunga giornata
fu perchè Ghisello non volea s’arrestassono nell’alpe, per tema non
facessono danno a’ suoi fedeli, mostrando, se s’arrestassono, ch’e’
sarebbono in gravi pericoli. E per tanto senza niuno indugio feciono
il detto cammino; nel quale i masnadieri, per non rimanere addietro,
lasciarono loro arme per l’alpe per essere più leggieri al cammino. Gli
ambasciadori, fornito il servigio, tornarono a Firenze, e di loro falli
presono scusa a’ governatori del comune con quelle belle ragioni che
seppono meglio divisare; e conoscendo di quanta autorità erano coloro
ch’erano a quel tempo all’uficio de’ signori, detto fu per alcuno de’
detti ambasciadori: Non cercate più questi fatti, ma dite che noi siamo
i ben tornati.

CAP. LXXX.
_Come i signori di Francia vennono sopra Parigi in arme._
Tornando alle travaglie del reame di Francia, nell’addietro narrammo il
subito e sfrenato movimento del popolo minuto, e de’ borgesi di Parigi
e d’altre ville di Francia contro a’ baroni e gentili uomini del paese,
sotto il mal consiglio e condotta del proposto de’ mercatanti e suoi
seguaci; per la qual cosa il Delfino di Vienna mosso e sospinto da’
gentili uomini ch’erano stati dall’indiscreto popolo agramente offesi
e malmenati, per repremere la sua trascotata e furiosa baldanza d’ogni
parte si raccolsono insieme, e all’entrare del mese di luglio del detto
anno vennono sopra Parigi in numero di cinquemila cavalieri, o in quel
torno, avendo per loro capo il sopraddetto Delfino, e accamparonsi a
sant’Antonio, presso a Parigi a due leghe; e ivi si dimoravano senza
fare asprezza di guerra, perocchè ben sapeano che la comune di Parigi
era sommossa, e ingannata dal proposto e da’ suoi seguaci per malvagio
ingegno. Ed essendo nel paese il re di Navarra, che celatamente
s’intendea col proposto e con certi suoi confidenti che guidavano il
popolo, per mostrare di volere atare il popolo e’ borgesi dalla forza
de’ baroni e gentili uomini ch’erano venuti sopra loro, s’accampò a san
Dionigi con millecinquecento cavalieri ch’avea accolti di suo seguito,
e che segretamente avea dal re d’Inghilterra, e con assai sergenti e
arcieri inghilesi e guasconi; e stando quivi, dava ardire a coloro
che con lui s’intendeano in Parigi, dicendo di volere combattere a
petizione del popolo di Parigi col Delfino, e per tutto corse la boce
che la battaglia era ingaggiata, e datole il giorno.

CAP. LXXXI.
_Come il re di Spagna uccise molti de’ suoi baroni._
Secondo che vogliono i savi, il parlare e lo scrivere debbe essere
conveniente alla materia di che si tratta, e da questo principio
procede l’arte del dire ch’è chiamata rettorica, la quale giunta
al nobile ingegno, meglio mostra e fa più piacere quello di che
si ragiona; di questa scienza niente sapemo, come nostra scrittura
dimostra; e per tanto del nostro scrivere rozzo, ma vero, non diletto,
ma frutto potranno prendere i belli parlatori. Questo per tanto n’è
piaciuto di dire, perchè le bestiali crudeltà remote da ogni umanità
le quali appresso scrivere dovemo, a bene dimostrarle meriterieno
l’eloquenza di Tullio, ma noi le metteremo in nota col nostro usato
volgare, fuggendo i vocaboli i quali per la prossimità della grammatica
dalli volgari a cui scrivemo sono poco intesi. Il crudelissimo e
bestiale re di Spagna, avendo contro al volere e consiglio de’ suoi
baroni palesemente ritolta la sua concubina, o più volgarmente dicendo,
bagascia, e quella sopra modo disonestamente magnificando nel suo
reame, trascorse in tanto disordinata e sconcia vita, che tutto l’animo
reale cambiò in crudele tirannia. Il forsennato re, per torsi dinanzi i
riprensori de’ suoi modi sozzi e sfrenati, e coloro di cui potea temere
che a tempo i suoi errori dovessono potere correggere, maliziatamente
trasse fuori boce ch’e’ si cercava contro a lui ribellione, e di Burgos
in Ispagna e d’altre sue terre, e sotto questo colore, come fiera
crucciato, di sua mano uccise due suoi fratelli bastardi e il zio
del re d’Araona, a cui per certa convegna s’appartenea la successione
del reame di Spagna; appresso intra lo spazio di due mesi, o in quel
torno, ancora di sua propria mano uccise venticinque de’ suoi baroni,
con trovando cagioni, e prendendo ora dell’uno ora dell’altro infinte
e simulate infamazioni. Mirabile certo e abominevole cosa, che un re
cristiano di suoi baroni innocenti e fedeli senza giudicio di corte,
almeno colorato, facesse morire, e che di sua malvagia e rabbiosa
sentenza egli fosse il manigoldo e vile esecutore. Queste iniquitadi
occorsono del mese d’agosto e di settembre detto anno.

CAP. LXXXII.
_Della detta materia di Spagna._
Il movimento del perverso tiranno di Spagna, non degno d’essere
nominato re, ma bestia selvaggia, venne in questi dì in tanta furiosa
pazzia, che costrignea i baroni che gli erano rimasi e campati di
sua crudeltà, e i comuni, a giurare fedeltà e omaggio alla bagascia
sua, essendo in addietro per tutti prestato il saramento alla reina
vecchia madre del detto re; e facendo a ciò richiedere quelli di
Sibilla, i cittadini, fatto sopra ciò loro consiglio, elessono
dodici uomini de’ più savi e discreti, i quali per parte del comune
andassono al re, e con savie parole gli mostrassono, com’elli erano
per saramento d’omaggio obbligati alla reina vecchia, e che non
poteano il nuovo saramento fare se prima non fossono assoluti del
vecchio; e che cercassono dal suo disonesto proponimento levare il re,
cortesemente mostrandoli che quello volea nè suo bene era nè suo onore.
I valenti uomini seguendo il mandato del loro comune furono al re, e
reverentissimamente li sposono quello ch’era loro imposto dal consiglio
del comune di Sibilia. Il re chetamente, e senza mostrare atto niuno
di turbazione, gli udì, e quando ebbono detto modestissimamente quello
che vollono, credendo per loro dolce e savio parlare avere ritratto il
re dalla folle e sconcia dimanda, il re loro non fece altra risposta,
se non che si toccò la barba, e disse: Per questa barba, che male così
avete parlato; e con tale breve e sospettosa risposta gli ambasciadori
impauriti si tornarono a Sibilia. Il re infellonito poco appresso
n’andò a Sibilia, e in una notte andando alle case loro tutti i detti
ambasciadori senza niuna misericordia fece tagliare; nè contento a
tanto male, in pochi giorni circa a quaranta buoni cittadini fece
uccidere nelle loro case. Io non mi posso tenere ch’io non morda
con dente di perpetua infamia la memoria di quello iniquo tiranno, e
ch’io non passi a vituperarlo la semplicità del mio usato stile dello
scrivere. Io ho letto e riletto nelle antiche scritture quello che
in esse si pone degli iniqui e scellerati pagani, massimamente de’
barbari, e di simili cose ho trovate, ma che tanta ingiustizia, tanta
empietà e crudeltà fosse in alcuno re cristiano, non mi ricordo d’avere
letto giammai.

CAP. LXXXIII.
_Come la compagnia cavalcò a Cervia._
Come di sopra dicemmo, il resto della gran compagnia del conte di Lando
sotto la condotta di messer Amerigo del Cavalletto s’era ridotta in
Romagna, e ad essa tutti quelli ch’erano campati della rotta dell’alpe
s’erano ricolti con assai gente sviata e atta a mal fare, che fuggendo
l’oneste fatiche cercavano di vivere di preda, e a richiesta del
capitano di Forlì cavalcarono su quello di Ravenna, e ’l sale che
trovarono alle saline di Cervia insaccato, come fosse per caricarsi,
e non piccola quantità, e simile di grano e bestiame, senza alcuno
contasto levarono e portarono in Forlì: perchè si credette che fosse
baratto del signore di Ravenna per fornire la città di Forlì, e non
tanto per amore del capitano, quanto per tema di sè, stimando, che se
il legato avesse Forlì la guerra si volgerebbe addosso a lui.

CAP. LXXXIV.
_Come il capitano di Forlì mise la compagnia in Forlì._
Il capitano, come uomo disperato, e con poca fede e legge, non avendo
riguardo a’ suoi cittadini ch’erano stati a ogni martiro per sostenere
lo stato suo, segretamente si convenne co’ caporali della compagnia
di dar loro venticinquemila fiorini e il ricetto in Forlì, ed elli
impromisono a lui di levare le bastite che gli erano intorno, e che per
alcuno tempo starebbono in Romagna al servigio suo; di che seguitò,
che all’entrante d’agosto e’ li mise in Forlì senza assentimento de’
suoi cittadini: i quali essendo stati rotti, come dicemmo, avendo
patiti molti disagi, e per tanto essendo in gran bisogno di ricetto,
per prendere riposo cominciarono a torre le case de’ cittadini,
e loro masserizie e arnesi, e accomunare e abitare familiarmente
con loro, e torsi delle cose da vivere oltre a bastanza, pigliando
dimestichezze disoneste e spiacevoli colle famiglie de’ cittadini,
che per non uscire di loro case e masserizie dimoravano con loro. Il
perchè assai cittadini, a cui era più caro l’onore che la roba, si
partirono di loro abituri, e ristrignensi in piccoli luoghi, lasciando
in abbandono, per non contendere con gente bestiale, tutte loro cose.
Nel quale avviluppamento manifesto si vide gli errori degli erranti e
servili popoli, che per matta stoltizia disordinato amore portano a’
loro signori e tiranni. Di ciò il popolo molto si dolse, e nel segreto
ricordava con mormorio la gran fede male meritata che portata aveano
al loro capitano, sofferendo il lungo assedio in contumacia di santa
Chiesa col perdimento di tutti i loro beni, con grandi disagi e affanni
di loro e di loro famiglie. Onde meritevolmente in loro fu verificato
quel proverbio che dice, chi contro a Dio getta pietra, in capo li
ritorna.

CAP. LXXXV.
_D’una nuova compagnia di Tedeschi._
I Tedeschi di soldo che in que’ tempi erano in Italia, vedendo e
conoscendo che altra gente d’arme che venisse a dire nulla, fuori di
loro lingua, ne’ paesi di qua da’ monti non era, follemente pensarono
di farsene signori: e vedendo che la compagnia del conte di Lando
era in parte mancata per la rotta da Biforco, di presente s’intesono
insieme i Tedeschi ch’erano al servigio de’ Sanesi, e quelli ch’erano
al servigio de’ Perugini, con quelli ch’erano nella provincia della
Romagna; perchè compiuta la ferma che Anichino di Bongardo avea
co’ Sanesi, si ritrasse con sua gente in forma di compagnia, alla
quale il conte Luffo con settecento barbute ch’erano al soldo de’
Perugini, e più altri conestabili tedeschi ch’erano in loro vicinanza,
s’aggiunsono, sicchè furono circa a duemila barbute; e assai gente da
piè atta a rubare trassono a loro, e andarsene su quello di Perugia,
e co’ Perugini si patteggiarono in atto di ricompera per fiorini
quattromila, e con avere il passo da Fossato per andare nella Marca: e
d’indi passarono verso Fabriano, dove trovarono che i passi erano presi
e guardati, onde si rivolsono per la Ravignana verso Fano, e in pochi
dì, all’uscita d’agosto detto anno, s’aggiunsono a Forlì coll’altra
compagnia, e posonsi di fuori della terra, entrando e uscendo a loro
posta della città, e avendo vittuaglia dal signore. E per non disfare
il gentile uomo ch’era assediato, mangiando quello di che vivere dovea
insieme colla compagnia ch’era in Forlì, feciono cavalcate e da lunga
e da presso, e ciò che poteano predare metteano in Forlì, facendo
vendemmiare innanzi tempo le vigne vicine a’ loro saccomanni colle
sacca, il perchè assai vino e altra roba da vivere assai misono nella
città.

CAP. LXXXVI.
_Come si levò l’oste da molte terre._
Per la partita della gente d’arme di Toscana i Sanesi ch’erano a oste
al Montesansavino se ne levarono e tornaronsi a Siena, e i Perugini
che manteneano oste a Cortona anche se ne partirono; per la qual cosa
in poco tempo quelli di Cortona con meno di cento cavalieri, e con
alquanta gente da piè, feciono più cavalcate sul contado di Perugia,
dilungandosi da Cortona le dieci e le dodici miglia, e trovando i
contadini per li campi alle loro faccende, e il bestiame non ridotto in
luogo sicuro, feciono prede assai e di uomini e di bestiame grosso e
minuto. Ed era a tanto condotto il comune di Perugia per straccamento
della guerra, che così pochi nemici cavalcavano ne’ loro più cari
luoghi, e si tornavano colle prede a salvamento, quasi senza trovare
alcuno contasto in niuna parte. Il dì che avvenne ultimamente, che
cinquanta cavalieri e pochi pedoni corsono e girarono il lago dintorno,
e colla preda senza niuno impedimento si tornarono a Cortona, che pare
cosa incredibile a dire. Quinci si può notare quanto sono da fuggire,
e quanto sono pericolose le imprese de’ comuni con soperchia voglia
baldanzosamente cominciate, perocchè le più volte hanno altri fini che
gli orgogliosi popoli, e pronti alle imprese maggiori che non possono
portare, non istimano. Però non si può avere troppa temperanza per li
savi governatori de’ comuni, nè troppa cura a raffrenare gli appetiti
de’ popoli, a cui sovente dire si può: Signore, perdona loro, che
non sanno che si fanno. È vero che al nostro comune spesso avviene
il contrario, che o voglia il popolo o no, egli è tirato, e per forza
sospinto nelle grandi e pericolose imprese da coloro che le dovrebbono
vietare. Corsa la piena della gente dell’arme nella Romagna, il
legato fece fortificare e fornire le bastite ch’avea intorno a Forlì
di vittuaglia e di gente, e partissi da campo, e tornossi coll’oste
a Faenza, e a Cesena, e per le castella dintorno, per stare a vedere
quello che la compagnia facesse: e tutte queste cose fur fatte del
mese d’agosto detto anno. E rinnovato fu il processo, e pubblicata
la sentenza di santa Chiesa contro alla detta compagnia, come eretici
e favoreggiatori dello scismatico capitano di Forlì, e che ogni uomo
li potesse offendere, e contro a loro prendere la croce; ma tal fu la
riuscita dell’altro legato quando li ricomunicò, e loro fè tributaria
la Chiesa di Roma e’ comuni di Toscana, come addietro dicemmo, che a
vile s’ebbe la sentenza e il processo, e sua esecuzione, eziandio da
tutti gli amici e fedeli di santa Chiesa.

CAP. LXXXVII.
_Come si fè accordo dal Delfino a quelli di Parigi._
Come addietro facemmo menzione, il duca d’Orliens, e il Delfino di
Vienna, e i gentili uomini aveano posto campo a Parigi, di che poco
appresso seguente, che parendo a quelli d’entro e a quelli di fuori
stare in molti disagi e pericoli assai, avendo ciascuno desiderio
di concio, che per mezzani assai di lieve vi si trovò accordo; ma
per tanto non vollono i borgesi che il Delfino o sua gente d’arme
entrasse in Parigi, ma pacificamente e quelli d’entro e quelli di fuori
praticavano insieme: nel quale accordo per operazione del proposto e
de’ seguaci suoi s’inchiuse il re di Navarra con tutta sua gente; sotto
la quale fidanza, o per vedere la terra, o per loro rinfrescamento,
certi Inghilesi entrarono in Parigi, i quali come veduti furono da
certi borgesi, loro levato fu il grido addosso in vendetta di loro
signore ch’era in Londra in prigione, e tanto procedette avanti la
cosa, che in quel furore in diversi luoghi in Parigi, come furono per
avventura trovati, furono morti circa a cento Inghilesi. Ciò sentito
nel campo del re di Navarra, tutto si mosse verso Parigi con animo di
prendere del misfatto vendetta; il perchè il re a consiglio de’ suoi
caporali mise un aguato, e con corridori fatti sottrarre i Parigini, e
addirizzarli per tirarli nell’aguato, i folli borgesi inbaldanziti per
quelli disarmati che aveano uccisi dentro uscirono fuori, e correndo
alla scapestrata e senza ordine niuno caddono nell’aguato, ove ne fu
morti oltre a trecento. La cosa fu rappaciata dentro e di fuori per
operazione del proposto, che avea l’animo dirizzato a maggiori fatti,
come appresso diremo.

CAP. LXXXVIII.
_Di detta materia, e come fu morto il proposto._
Seguendo suo iniquo e malvagio proponimento il proposto con certi suoi
segretari con cui s’intendea, e che con lui teneano mano a tradire
la corona, volendo trarre a fine il tradimento che lungo tempo avea
menato e fermo col re di Navarra, vedendo che ’l popolo di Parigi si
venia riconoscendo del fallo suo contro al Delfino e’ baroni, e temendo
che l’indugio al suo maligno concetto non fosse dannoso, affrettò
l’esecuzione del trattato e la morte sua; perocchè con certi borgesi
del seguito suo, senza diliberazione o consiglio degli altri borgesi,
bene apparecchiati in arme uscì di Parigi, e andonne a una delle
bastite la quale aveano bene guernita e d’arme e di vittuaglia, e di
gente per sicurtà della terra, e quella in gran parte sfornì d’armadura
atta a difesa, e tolse le chiavi a colui a cui era stata accomandata
di volere e consiglio di tutti i borgesi, e le diede a uno borgese di
Parigi sospetto assai, perchè era stato tesoriere del re di Navarra;
e come fece a questa bastita, così fece a tutte l’altre. Veggendo
gli altri borgesi questa affrettata novità che si faceva senza niuno
loro consiglio, nè cagione vedeano perchè ciò fare si dovesse, nè che
pensiere a ciò fare avesse il proposto, cominciarono ad ammirare e a
insospettire, ed in piccola ora col mormorio del popolo tanto crebbe il
sospetto, che mandarono prestamente al Delfino, con cui novellamente
aveano preso l’accordo, a sapere se ciò fosse di suo assentimento e
volere; e avendo risposta del nò, tutto il popolo si levò a romore,
gridando: Viva il Delfino, e muoiano i traditori; e in quella furia
giunsono il proposto, e tagliarono a pezzi con certi suoi confidenti
ch’erano con lui, e nel detto furore corsono alle porte, e uccisono
tutti coloro che ’l proposto v’avea a guardare diputati, e alle bastite
rinnovellarono e guardie e serrami.

CAP. LXXXIX.
_Come furono impesi que’ borgesi a cui erano state accomandate le
chiavi delle bastite._
Il giorno dopo la morte del proposto, i borgesi di Parigi, riconosciuti
del fallo loro, di comune consiglio mandarono nel campo al Delfino,
che li piacesse, poichè morto era il traditore della corona co’ seguaci
suoi, di volere dimenticare l’offesa che ignorantemente era fatta loro,
come persone ingannate da coloro che falsamente li conducevano, e che
in Parigi dovesse venire, e reggere e governare la città e il popolo
come loro signore naturale, che presti e apparecchiati erano tutti a
ubbidire e fare i suoi comandamenti. Il Delfino avuto suo consiglio
rispose molto benignamenente agli ambasciadori, dicendo, che bene
conoscea onde era mosso l’inganno del popolo, e che molto era contento
che la comune di Parigi avea scoperti i loro traditori e della corona,
e che per loro se n’era presa vendetta, ma ancora non a pieno: e però,
innanzi ch’e’ volesse entrare nella città, volea che del tesoriere del
re di Navarra e del compagno, a cui erano state date le chiavi delle
bastite, fosse fatta giustizia, e poi lietamente e con pieno amore de’
suoi borgesi v’entrerebbe. Tornati gli ambasciadori nella terra, furono
presi il tesoriere e ’l compagno, e tranati per la terra, e impesi al
castelletto; e fatto ciò, il Delfino con tutta sua gente con grande
festa entrarono in Parigi, ricevuti da tutti i cittadini con singolare
allegrezza.

CAP. XC.
_Come si scoperse il trattato tenea il re di Navarra._
Il Delfino ordinato in Parigi generale parlamento, nel quale fece
con savie e ornate parole mostrare al popolo la buona voglia ch’egli
e’ baroni e’ gentili uomini aveano a’ borgesi di Parigi, e in quello
fece nuovo proposto di mercatanti come a lui piacque, uomo di cui bene
si potea fidare: e oltre a ciò, rendendo onore al popolo, fece dire,
che quando volontà de’ borgesi fosse, e’ sarebbe contento che sei
borgesi, i quali e’ fece nominare, fossono nella guardia e giudicio
del popolo, perocch’e’ sentiva ch’erano stati segretari del proposto
cui eglino aveano giudicato per traditore della corona. Come questo
fu detto, senza arresto i detti sei borgesi furono presi, e venuti in
giudicio, senza alcuna molestia o tormento confessarono, che la notte
che il giorno dinanzi era stato morto il proposto, il re di Navarra
dovea prendere le bastite, ed entrare in Parigi con tutta sua forza,
e coll’aiuto del proposto e di suo seguito dovea correre Parigi; e che
venendo prestamente fatto e al re e al proposto loro intenzione, il re
si dovea fare coronare del reame di Francia per mano del vescovo di....
il quale allora era in Parigi, e si partì di presente come vide morto
il proposto; e che il detto re di Navarra dovea riconoscere il reame
di Francia da quello d’Inghilterra e fargliene omaggio, e restituirgli
la contea d’Alighiero e altre terre, ed egli lo dovea atare a
racquistare il reame con tutta sua forza; e che se ciò venisse fatto,
com’era ordinato, il re d’Inghilterra dovea fare tagliare la testa al
re Giovanni di Francia, cui egli avea in prigione, e che i Lombardi
e’ Giudei ch’erano in Parigi doveano essere preda degli Inghilesi.
Fatta la detta confessione, senza arresto i detti sei borgesi furono
giustiziati; per li savi scoprire il processo fu poco senno tenuto,
essendo il re di Francia e ’l figliuolo in prigione, perchè essendone
il re d’Inghilterra infamato, si dovea potere muovere a cruccio, e mal
trattare il re e ’l figliuolo.

CAP. XCI.
_Come il re di Navarra guastò intorno a Parigi._
Avendo avuto il re di Navarra dal proposto come avea cambiate le
guardie, e dato ordine presto alla esecuzione del trattato, non sapendo
ciò ch’era occorso al proposto, venne per prendere la prima bastita,
la quale trovando fornita di gente nuova e bene in punto alla difesa,
comprese che ’l trattato fosse scoperto: perchè mettendosi più innanzi
in sentore, intese come il proposto co’ suoi consiglieri erano stati
morti dal popolo; perchè vedendo in tutto suo pensiero annullato, d’ira
e di mal talento incrudelito nell’animo suo, non ostante concordia
nè pace ch’avesse co’ borgesi, tentò se per forza potesse vincere la
bastita: e lavorando invano, partito da quella, scorse intorno a Parigi
ardendo, e guastando, e predando ciò che potè. E poichè così ebbe
fatto alquanti giorni, non trovando in campo contasto, se ne tornò a
Monleone grosso castello, posto presso a Parigi a... leghe, e ivi si
pose ad assedio. E come che ’l fatto s’andasse, al detto re cresceva
gente d’arme da cavallo e da piè, la quale si movea d’Inghilterra non
per manifesta operazione del re, ch’era nel trattato della pace, ma i
cavalieri si mostravano muovere da loro e per loro volontà, come andare
in compagnia. Ed essendo per li cardinali mezzani della pace detto al
re che questo non era ben fatto, e che li piacesse mettervi rimedio,
scusossi, dicendo, che ciò molto gli dispiaceva, ma che quella era
gente disperata e di mala condizione, cui egli per suoi comandamenti
non potea nè correggere nè arrestare. E con questa gente il re di
Navarra cavalcava per tutto, e ardeva, e predava, e conduceva male
il reame di Francia, non ostante l’ordine della pace preso; nel quale
s’adattò il proverbio che dice, tra la pace e la triegua, guai a chi la
lieva.

CAP. XCII.
_Come il marchese non volle dare Asti a’ Visconti._
Essendo per l’imperadore, per li patti della pace tra’ collegati e
i signori di Milano, dichiarato che Pavia rimanesse a popolo e in
libertà, e che Asti fosse renduto a’ signori di Milano, i signori di
Milano della dichiarazione non contenti pertinacemente domandavano
Pavia, e non che loro fosse ciò conceduto pe’ collegati, ma il marchese
di Monferrato, che tenea Asti, nol volea rendere loro. Così ciascuna
delle parti della pace fatta rimanevano malcontenti; e cominciarsi i
collegati a temersi de’ signori di Milano, e quelli di Milano feciono
loro sforzo, e mandarono a oste nel Piemonte contro ad Asti e all’altre
terre che ’l marchese tenea in Piemonte, e ordinarono di riporre le
bastite a Pavia, e ciò in piccolo tempo fornirono. Il marchese rimasto
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