Cronica di Matteo Villani, vol. 4 - 03

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agli ambasciadori del re, feciono per loro decreto in consiglio che
di niuna materia di guerra si dovesse ragionare, e che catuno si
dirizzasse al navicare e a fare mercatanzia. Costoro straccati della
guerra conobbono il beneficio della pace; il nostro comune infastidito
di troppo tranquillo stato, cercò materia di grande turbamento della
cittadinanza, come appresso racconteremo.

CAP. XXXI.
_Come da prima in città di Firenze furono accusati certi cittadini per
ghibellini._
Essendo entrati nuovi capitani di parte guelfa, messer Simone
de’ Bardi, e messer Uguccione Buondelmonti, Migliore Guadagni, e
Massaiozzo Raffacani, e de’ quali non v’era ma’ ma’ uno ch’avesse
stato in comune, e tutti erano animosi ad accendere e suscitare lo
scandalo incominciato pe’ loro precessori; e però furono in concordia
di cominciare l’esecuzione dell’iniqua legge, e accolsono al palagio
della parte certi eletti d’industria, uomini affocati nella volontà
d’abbattere i cittadini de’ loro ufici, e de’ loro stati e onori per
invidia, sotto titolo di dichiararli ghibellini o non veri guelfi. E
per adempire la sfrenata volontà, misono e nominarono per ghibellini
catuno cui e’ voleano a’ loro segreti squittini, e ivi furono nominati
grandi e popolari di molte case e famiglie delle maggiori, e migliori
e più stanti della città di Firenze, antichi cittadini e amatori del
loro comune e di parte guelfa: e recati al partito tra così discreto
collegio, chiunque aveva più boci di essere ghibellino, o non vero
guelfo, insaccavano in cedole, per trarli fuori a parte a parte, e
accusarli e farli condannare, eziandio che di nazione e d’operazione
si trovassono nella verità essere veri e diritti guelfi; e nel primo
squittino insaccarono da settanta cittadini di nome e di stato,
come detto è. Dopo questi levato il saggio dell’accuse, dovevano
insaccare degli altri, perocchè lungamente vi si penava a farli; e
bollendo già tutta la città di questa perversa operazione, e parendo
a catuno buono cittadino male stare, si cominciarono a destare, e a
richiedere gli amici, e a pregare i capitani; e i capitani vedendo
la commozione, cominciarono a tentare, e a reprimersi della loro
opinione contro a’ potenti, cui già avevano insaccati per accusare.
Ma per dare cominciamento al fatto, elessono cinque cittadini, de’
quali pensarono avere minore resistenza; nondimeno accolsono prima
alla parte d’auzzetti di loro seguito più di dugento uomini: e formata
loro accusa di quattro, di cui si poteva alcuna cosa sospicciare
ne’ libri della parte, benchè certo non fosse, acciocchè ’l loro
cominciamento con alcuno verisimile atasse la corrotta intenzione, a
dì otto di marzo andarono i capitani in persona colla compagnia de’
sopraddetti richiesti al potestà, e disonestamente, e fuori d’ogni
consuetudine, accusarono per ghibellino Neri di Giuntino Alamanni, e
Mannetto Mazzetti, Giovanni di Lapaccio Girolami di porta santa Maria,
e Giovanni Bianciardi cambiatore: catuno aveva avuti lievi ufici per lo
tempo passato; ex abrutto gli feciono condannare, e certi altri feciono
rinunziare all’uficio, in che erano de’ cinque della mercatanzia.
A niuno potè valere alcuna scusa. E avendo i capitani cominciata in
parte la loro esecuzione, cominciarono a essere temuti e ridottati
da tutti i cittadini, e chi non si sentiva ben forte, dava opera con
preghiere e con servigi, con doni e con danari di riparare alla sua
fortuna, ch’era nelle mani de’ capitani della parte guelfa. E per
seguire i detti capitani il loro prospero cominciamento, e sventurato
e reo alla comunanza, a dì 5 d’aprile anni 1358, avendo animo di fare
più e maggiore fascio, ma ristretti dal mormorio del popolo, e della
infamia che già correa di loro, si ristrinsono, e fedirono nel molle,
lasciando degli squittinati, e facendo ad arbitrio, n’accusarono
altri otto; ciò furono, Domenico di Lapo Bandini, Mazza Ramaglianti,
Cambio Nucci speziale, Giovanni Rizza, Piero di Lippo Bonagrazia,
Iacopo del Vigna, Christofano di Francesco Cosi, e Michele Lapi; e
tutti gli feciono condannare, senz’essere uditi a ragione, in libbre
cinquecento per uno. E a dì 21 del detto mese, avendo fatto nuovo
squittino, e avvolti ne’ loro sacelli grandissima quantità di buoni e
di cari cittadini, e di quelli delle maggiori case popolari di Firenze
di catuno quartiere, ch’a nominarle non sarebbe onesto, ed essendo per
rivelazione del loro segreto squittino già noto a tutti, la città tutta
si doleva, e grave infamia si spandea diversamente, non senza scandalo,
che l’uno biasimava, e l’altro lodava la mala operazione, ma in genero
tutti i buoni uomini guelfi biasimavano la legge sopra ciò fatta, e
la esecuzione che ne seguitava; e per questo abbassarono ancora la
loro furia i capitani. Ma volendo pur fare male, anche rifedirono
nel molle: e lasciandoli squittinati, ciascuno accusò il suo cui e’
volle: ed essendo senza colpa d’aver preso uficio, e da potersi con
giustizia difendere, feciono condannare Niccolò di Bartolo del Buono,
Simone Bertini, Sandro de’ Portinari, e Giovanni Mattei. Lasceremo
ora addietro alcune altre cose che prima occorsono che quello ch’al
presente seguita, per congiugnere a questa materia alcuna temperanza
di rimedio fatto per bene, che poi s’usò in male, com’è usanza, non del
comune, ma degl’iniqui cittadini.

CAP. XXXII.
_Come a’ capitani della parte furono aggiunti due compagnia_
Al presente occorre a scrivere cosa incredibile e vera. Questa
nuova seduzione dell’iniqua legge fatta sotto il titolo della parte,
generalmente spiacea a tutti i buoni e cari cittadini, veri e diritti
guelfi, e più la sconcia esecuzione che se ne facea, e tutti diceano,
che a ciò si mettesse consiglio e rimedio, ch’e’ cittadini non
vivessono in tanta sospiccione di loro stato. Molti consigli se ne
teneano, e niuno modo vi sapeano trovare, per non dirogare al nome
della parte; e coloro che entravano agli ufici de’ collegi, e agli
altri maggiori, ch’erano più sospetti, coloro erano quelli che più
parlavano, e che più si mostravano zelanti a mantenere la legge e la
sua esecuzione insino che la pietra cadeva sopra loro. Ma vedendo il
genero de’ cittadini essere caduti sprovvedutamente sotto il giogo
della malvagia legge, e non potendovi per via diretta riparare, e
vedendo così i guelfi come i ghibellini, ma troppo più i guelfi, che
l’onore e lo stato potea essere tolto a catuno, quando a tre uomini
capitani di parte paresse, e conoscendo che tutti i più malivoli uomini
di Firenze erano poco dinanzi stati insaccati per capitani, priori e
consiglieri di parte senza alcuno divieto, per riparare in parte, ove
non si potea riparare in tutto, a tanto male, i priori ch’erano allora,
di subito e segretamente ordinarono co’ loro collegi una petizione,
e fu di presente vinta in consiglio, che a’ capitani di parte guelfa
s’aggiugnessono due popolani, e che niuna cosa si potesse diliberare
per li capitani, se tre popolari non fossono in concordia; e dove i
grandi doveano essere cavalieri, s’allargò ad ogni grande, acciocchè
l’uficio non continovasse in pochi grandi; e misono a tutti divieto un
anno, e che gli squittini della parte si dovessono rifare di nuovo, e
annullare tutti i fatti; e questa riformagione fu ferma per li consigli
a dì 24 d’aprile 1358. E avvegnachè questo non fosse opportuno rimedio,
fu alcuno freno all’ordinato male, e molti per questo intervallo ebbono
tempo da potere rimediare a’ fatti loro; nondimeno coloro ch’aveano
l’animo e la mente sollicita a rimanere col bastone della parte, per
potere premere gli altri cittadini, argomentarono a nuovi squittinì,
e in questo e in altre cose feciono tanto, ch’ogni uficio accresceva
nuovo scandalo nella cittadinanza, come leggendo per li tempi si potrà
trovare.

CAP. XXXIII.
_Come i Sanesi uscirono fuori per soccorrere Cortona._
Tornando a’ fatti di Cortona, i Sanesi ch’aveano presa la difesa, e
soldata la compagnia d’Anichino in Lombardia, e fattala valicare a
Siena, e con alquanti loro soldati, a dì 18 del mese di marzo 1357,
uscirono fuori con milleottocento barbute, e con gran popolo di soldo
e del loro contado per andare a soccorrere Cortona, ch’era al tutto
circondata e stretta da’ battifolli de’ Perugini; e andaronsene in
su quello di Montepulciano, e ivi stettono quattro dì. E in questo
tempo i Perugini per recarsi più al sicuro, sentendosi presso l’oste
de’ Sanesi, arsono il battifolle da Camuccia; e quelli di Cortona,
sentendosi presso il soccorso, e ch’e’ Perugini per tema aveano
arsa la bastita da Camuccia, presono ardire, e subitamente popolo e
cavalieri uscirono di Cortona, e assalirono il battifolle ch’era ad
Alti sopra la città, e quello combatterono sì aspramente, che per forza
il vinsono, e molti de’ difenditori uccisono e presono, gli altri
si salvarono fuggendo al battifolle di Mezzacosta, e all’Orsaia. In
questi medesimi dì messer Andrea Salimbeni, che guardava la rocca di
Castiglioncello oltre al Noro, avea promesso di darla a’ Perugini per
fiorini tredicimila d’oro, i Perugini vi cavalcarono, e per lo trattato
entrarono nel castello; il traditore per paura de’ consorti, o per
altra provvisione de’ Sanesi, non volle dare la rocca a’ Perugini,
onde poco appresso se ne partirono, e’ Sanesi ne presono la guardia, e
trassonla di mano a messer Andrea.

CAP. XXXIV.
_Come si levò l’oste da Cortona._
I capitani dell’oste de’ Sanesi avendo fatto vista di valicare a
Cortona contro all’oste de’ Perugini per la via dall’Olmo d’Arezzo,
avendo innanzi segretamente provveduto loro cammino, subitamente si
misono per lo contado d’Orvieto, e cavalcando sollecitamente, prima
furono al ponte Cavaliere in sulle Chiane di là dal Castello della
Pieve ed ebbonlo passato, ch’e’ Perugini se n’avvedessono; ed entrati
in su quello di Perugia, entrarono senza contasto in uno castelletto
de’ Perugini chiamato Piegaia; e nel borgo arsono alquante case, e
valicarono innanzi alle taverne di Bertuccio, e di là se ne vennono
a Panicale sopra il lago; e benchè potessono fare assai danno per lo
paese, se ne temperarono, per non accrescere materia di maggiore odio
co’ Perugini. Essendo l’oste de’ Sanesi appressata, senza mezzo delle
Chiane o di fiumari, e bene in concio per combattere, e’ Perugini mal
provveduti da riceverli alla battaglia e alla loro difensione, presono
partito di partirsi dall’assedio di Cortona per lo meno reo; e in
quella notte fortificarono il battifolle da Mezzacosta, e arrosonvi
gente alla guardia, e tutti gli altri battifolli abbandonarono,
e partironsi da campo popolo e cavalieri assai vergognosamente, e
ridussonsi in certe loro castella più vicine. La gente de’ Sanesi
scesono la mattina in sul piano del lago, e colle schiere fatte se ne
vennono all’Orsaia, e non trovandovi i nemici, si posarono quivi il
sabato santo a dì 30 di marzo 1358, e in Cortona misono quella gente
a cavallo e a piè che vollono con ogni altro fornimento compiutamente;
e appresso il dì della Pasqua si tornarono all’Olmo, e appresso se ne
vennero a Torrita in su il loro terreno, sani e salvi senza alcuno
contasto. E per questo modo fu libera Cortona dall’arroganza de’
Perugini per le mani de’ Sanesi.

CAP. XXXV.
_Di novità di Perugia per detta cagione._
Venuta la novella a Perugia come la loro oste con vergogna s’era
levata, e Cortona s’era fornita, il popolo si levò a romore e presono
l’arme, e averebbono morto Leggiere d’Andreotto loro cittadino,
e motore di questa guerra e capitano dell’oste, perch’egli avea
abbandonato a’ Sanesi il campo dall’Orsaia, se non ch’e’ si partì,
e cessò il furore; e racquetato il bollore, egli, come molto pratico
e astuto, fece mostrare a’ rettori del comune, come per lo migliore
s’erano ridotti in più salvo luogo; e andando di notte ad alcuni suoi
confidenti de’ rettori, tanto adornò sue parole, che le sapea ben dire,
e tanta suasione fece di larghe promesse da sè e da’ conestabili de’
cavalieri di far tosto la vendetta, e di recare onore al comune de’
loro nemici, che fu rimandato nell’oste da capo con più cavalieri,
e con maggiore forza di masnadieri e d’altro popolo. E per fornire
questo, atandoli lo sdegno già conceputo de’ Perugini contro a’ Sanesi,
catuno si sforzò a servire il comune di danari, e accolta gente d’arme,
chiamarono per capitano di guerra Smeduccio da Sanseverino, con grande
animo di volersi vendicare de’ Sanesi. Lasceremo alquanto questa
materia de’ due comuni, che catuno si provvede, e diremo dell’altre
cose che prima ci occorrono a raccontare.

CAP. XXXVI.
_Di una gran festa fe’ bandire il re d’Inghilterra._
Il re Adoardo d’Inghilterra avendo fatta concordia, e lasciato di
prigione il re David di Scozia suo cognato, si pensò di volere fare
pace col re di Francia, la quale avesse principale movimento dalla
sua persona. E per fare questo, fece bandire in Francia, in Fiandra,
in Brabante, in Irlanda, nella Magna, in Iscozia e altri reami, una
solenne festa di cavalieri della Tavola rotonda alla Sangiorgio
d’aprile del detto anno; facendo ogni maniera di gente sicura in
suo reame, e offerendo arme, cavalli, e arnesi a ogni cavaliere che
alla festa venisse, e appresso le spese a chi fare non le potesse; e
ancora a tutta gente d’arme per loro, e chi per loro servigi venisse,
ogni cosa che loro bisognasse per loro vita, e per far prove di loro
cavallerie. Perchè molta gente, udito il bando, si mise in assetto per
esservi al tempo, chi per mostrare di sua virtù, chi per vedere.

CAP. XXXVII.
_Come l’armata del comune di Firenze venne a Porto pisano._
Addietro narrato avemo il malvagio movimento de’ Pisani per levare
la franchigia a’ Fiorentini di loro mercatanzie, e come per la
detta cagione i Fiorentini del tutto partirono da Pisa, e gli altri
mercatanti forestieri che con loro trafficavano, aveano fatto porto
e Talamone; e come i Pisani per levare il detto porto, con favore
di messer Simone Boccanegra doge di Genova amico de’ Pisani, perchè
l’aveano ricevuto e favoreggiato quando fu sposto doge, con otto galee
impedivano il mare, il perchè mercatanzie nè uscire nè entrare poteano
in Talamone. I Fiorentini di ciò aontati pativano disagio e dannaggio,
piuttosto che riconciliarsi co’ Pisani, essendo di ciò richiesti
e per li Pisani e per lo detto doge di Genova a loro richiesta,
offerendo ogni franchigia e ogni vantaggio ch’e’ Fiorentini volessono
domandare. Onde seguitò, che i Fiorentini pertinacemente seguitando, e
perseverando nel loro proponimento, non avendo al gran costo rispetto
ma all’onore del comune, segretamente feciono armare in Provenza dieci
galee, e quattro nel Regno, le quali dieci galee, a dì 18 del mese
di marzo detto anno, si mossono di Provenza cariche, e se ne vennono
levate l’insegne del comune di Firenze in Porto pisano, e ivi stettono
per alquanti giorni, facendo fare la grida sotto piccolo nolo, che chi
volesse mandare mercatanzie a Talamone in sulle galee del comune di
Firenze le potesse sicuramente caricare, e ’l simile feciono in Foce;
e d’indi si partirono, e scaricarono a Talamone; onde molte barche
e legni v’apportarono con roba d’ogni parte, vedendo il mare sicuro.
Le quattro galee del Regno in questi medesimi dì vennono da Napoli, e
incontrarono una galea e uno legno di Pisani cariche di mercatanzia
ch’andavano a Corneto, e presonle, e fecionle scaricare a Talamone
senza fare loro altro danno; d’indi se n’andarono a Porto pisano per
lo modo dell’altre, e appresso in Provenza a caricare. Appresso di
questo i Fiorentini lungamente ritennero cinque galee provenzali, che
stettono a guardia del mare il più sopra Porto pisano, sicchè ogni
legno e ogni barca liberamente caricava a Talamone. I Pisani avendo
fatta la loro pruova, e rimasi beffati di loro pensiero, con loro usata
astuzia mandarono il bando, che ogni uomo potesse liberamente navicare
a Talamone colle sue mercatanzie; nè già per questo i Fiorentini non
lasciarono le loro galee della guardia. Avemo questa materia forse
più stesa che non richieda al fatto del nostro trattato, ma la novità
del fatto ci scusi; sì perchè è la prima armata che mai nostro comune
facesse in mare, e sì per mostrare il fermo proponimento del nostro
comune; il quale nè la disordinata spesa, che in poco tempo passò i
sessantamila fiorini, nè danno, nè sconcio di mercatanti, nè le grandi
profferte de’ Pisani e d’altri per loro, muovere di sua perseveranza
poterono. L’animo del nostro comune si vide netto e intero per fare de’
loro errori ricredenti i Pisani, dimostrando, che senza loro e il loro
porto i Fiorentini potevano fare; e appresso conobbono, che niuna altra
guerra tanto danno e abbassamento poteva loro fare, quanto quella che
si cominciava a praticare: ancora perchè sottilmente cercando, quanto
allo stato de’ detti due comuni, la materia ha più dentro che non
mostra di fuori, e però pensiamo d’essere scusati se di ciò avessimo
soperchio parlato.

CAP. XXXVIII.
_Come il popolo di Parigi cominciò scandalo._
Il governamento del reame di Francia, come è detto addietro, era
ridotto a tre stati, cioè prelati, baroni, e borgesi, i quali tenevano
il consiglio, e diliberavano quello voleano che nel reame si facesse,
e il Delfino vi consentiva. Durando il detto ordine, del mese di
marzo detto anno, avendo il proposto di Parigi con suoi confidenti
presa baldanza dell’abbacinato popolo per lo tagliamento fatto de’
consiglieri del Delfino, avendo nel suo segreto il trattato col re di
Navarra, si sforzava con astuzia mostrare a’ borgesi di Parigi, che per
questi fatti s’intendea più a singulare profitto che a comune bene, e
che la pace e l’accordo del re d’Inghilterra se ne dilungava, e che il
re loro signore n’era tradito. E sotto questo dimostramento col favore
del popolo ruppe quell’ordine, e recò il governamento di Parigi alle
mani de’ borgesi, schiudendone prima i baroni, e poscia i prelati.
E per esempio di costoro così feciono l’altre ville di Piccardia, ed
altre provincie del reame. E qui cominciò l’odio da’ gentili uomini al
popolo, che poi fece grande novità nel reame, come appresso si potrà
trovare. Il Delfino di ciò mal contento, e non potendo riparare, si
partì da Parigi, e andossene ad Orliense.

CAP. XXXIX.
_Come i Perugini tornarono a oste a Cortona._
Tornando alla nuova guerra de’ Perugini e’ Sanesi, ed essendo molto
faticato il comune di Firenze per suoi ambasciadori a Perugia per
mettere accordo e pace tra loro, disponendosi i Sanesi liberamente
alla volontà del comune di Firenze, i Perugini per loro alterigia mai
si vollono dichinare ad alcuno accordo, parendo loro ch’e’ Sanesi gli
avessono troppo oltraggiati; non volendosi ricordare dell’ingiuria
loro fatta di Montepulciano, e d’altre cose ond’eglino aveano assai
villaneggiati i Sanesi, e però ne’ loro consigli usarono atti e
parole non belle contro gli ambasciadori del comune di Firenze, non
lasciandogli dire, sufolando, e picchiando le panche quando faceano
loro diceria; e nella città i loro famigli udivano ontose e vituperose
parole sovente dall’indiscreto popolo minuto. Ma per l’affezione
ch’aveva il nostro comune a quello, e al mettere pace tra’ suoi
vicini, ogni cosa faceva dolcemente comportare. E stando ne’ detti
ragionamenti male intesi, i Perugini accolsono gente d’arme e tornarono
a Cortona, e fortificato ch’ebbono e rinfrescato l’assedio, a dì 8
d’aprile valicarono in su quello di Montepulciano con milleottocento
barbute e grande popolo, e posono loro campo a Greggiano. I Sanesi
con loro cavalleria si stavano in Torrita con milleseicento barbute,
e masnadieri e popolo assai, e nella terra e nelle circustanze assai
erano sicuri, se poca provvedenza e matta baldanza non li avesse
sconci, come appresso diviseremo.

CAP. XL.
_Come i Perugini richiesono i Sanesi di battaglia._
Parendo, come detto è, a’ Perugini avere ricevuto vergogna e oltraggio
da’ Sanesi, per vendicare loro onta li mandarono a richiedere di
battaglia: e per avventura Anichino di Bongardo capitano de’ Tedeschi
fu il primo richiesto, il quale allora era nel borgo di Torrita. Esso
vanaglorioso prosuntuosamente fe’ tantosto sonare li stromenti, e con
gran festa prese il guanto della battaglia di suo proprio, facendo doni
al messaggio. Ma dopo il fatto s’avvide che troppo avea fallato di non
avere di sì gran fatto preso consiglio co’ cittadini di Siena, ch’erano
conducitori dell’oste e suoi consiglieri, e però ritenne il messo,
ed entrò nella terra dov’erano i suoi compagni, e loro disse quello
ch’avea fatto. Ai Sanesi molto dispiacque, conoscendo il pericolo;
e per ricoprire il fallo del loro capitano, feciono aggiugnere alla
risposta, che il giorno fosse fra gli otto dì che seguivano. I Perugini
avendo questa risposta, e sapendo il modo che per lo capitano prima
era stato tenuto, e appresso per lo consiglio, compresono chiaramente
ch’elli non erano acconci a torre battaglia, onde diliberarono di
trarsi innanzi, e richiederli colle schiere fatte in vergogna di
loro avversari: e ciò facendo, senza prendere battaglia, pensavano
avere purgata loro vergogna, e tornarsene addietro; stimando, che con
loro onore poi, mediante il comune di Firenze, si potesse venire a
concordia e a pace. Ma forse la superbia dell’uno popolo, e l’arroganza
dell’altro e presunzione, non avea merito d’avere riposo; uscì
l’impresa ad altra fine che per loro non si stimava.

CAP. XLI.
_Come furono sconfitti i Sanesi da’ Perugini._
Come detto è, il seguente dì a di 10 del mese d’aprile detto anno, i
Perugini, come saviamente aveano diliberato e provveduto, si partirono
da Greggiano, dirizzandosi con tre schiere fatte di loro verso Turrita,
e strinsonsi infino a piè della terra nel piano, e cominciarono a
trombare e richiedere i nemici di battaglia. I Sanesi vedendo i loro
nemici venire baldanzosi colle schiere fatte n’ebbono sospetto, e per
non avere quella vergogna, presono consiglio d’armarsi, e d’uscire
fuori del castello a loro vantaggio in luogo ch’e’ non potessono essere
sforzati, e ivi starsi, e rendere suono per suono, e per parole parole
senza combattere, non pensando potere essere tratti a battaglia per la
fortezza del luogo, e per le spalle della terra. Ma non sono nell’uomo
le vie sue, ma nella provvidenza di Dio, la quale sovente dispone
oltre agl’ingegni e consigli degli uomini; e così avvenne a questi
due popoli, e a ciascuno fuori di sua opinione o pensiero. Perocch’e’
Sanesi fidandosi, come è detto, della fortezza del luogo e delle spalle
della terra, uscirono fuori all’inviluppata, e con poco ordine, e senza
il loro capitano Anichino di Bongardo, il quale, o per sdegno preso
della folle accettagione da’ Sanesi non esaudita, o per altra pazzia,
o malizia, co’ suoi Tedeschi non prendea arme. Intanto da quaranta
cavalieri scorridori di quelli de’ Sanesi si misono di costa in su
un collicello, ch’era in mezzo tra l’una e l’altra oste, per vedere
con loro sicurtà il reggimento de’ nemici loro; e ciò veduto per li
Perugini, si mossono di loro schiera circa a cento cavalieri, e per
traverso giunsono sopra i detti scorridori de’ Sanesi, e loro quasi
improvviso assalirono; perchè non potendo sostenere il soperchio, si
ritrassono alla schiera. Gli Ungheri arditi e vogliosi gli seguitarono,
e tanto avanti trascorsono, che a salvamento ritrarre non si poterono;
e’ Perugini non vedendo senza grande pericolo poterli soccorere, gli
avevano posti per abbandonati, ma il loro capitano disse: Facciamci
innanzi colle schiere, sicchè s’e’ si vogliono raccogliere noi li
possiamo più da presso ricevere; e così seguette. I Sanesi vedendo
muovere le schiere verso loro, non avendo pensiere di combattere, e
temendo di non esservi recati per forza, non essendo con loro Anichino
colla sua gente, volsono le insegne, e tornaronsi in Torrita. I
Perugini veggendo che sconciamente e per viltà si partivano, montarono
in ardire, e misonsi innanzi; e non trovando contasto, in fino alle
barre del borgo di Torrita giunsono baldanzosi, e cominciarono con
grande romore ad assalire il borgo. Veggendo ciò Anichino, colla sua
gente disordinatamente si mise di fuori tra’ nemici, e di presente fu
preso col maliscalco dell’oste e con cinquanta altri cavalieri, perchè
di tradimento mala boce li corse. Preso il capitano e la sua gente
fuori del borgo, e rotta, i Perugini assalirono il borgo; e scesi molti
cavalieri de’ loro a piede, e trovando al riparo lieve contasto, per
forza lo presono; e più avanti passando messer Cagnuolo da Coreggio
soldato de’ Perugini con sessanta cavalieri per entrare nel castello,
i Sanesi uscirono per costa, e tutti a man salva li presono. Allora
si ritrassono i Perugini e rubarono e arsono il borgo, e tornaronsi
co’ prigioni, e colla preda e colla non pensata vittoria a Greggiano,
portandone bandiere assai de’ conestabili ch’aveano trovate negli
alberghi. Nella detta battaglia non ebbe oltre a cento uomini morti tra
dall’una parte e dall’altra, ma assai cavalli morti e fediti, e più di
quelli de’ Perugini. I Sanesi rotti vilissimamente, venendo la notte,
distribuirono i cavalieri alla guardia delle loro terre, e scrissono al
comune loro, che se di subito non s’avesse gente nuova al riparo, che
il loro contado sarebbe arso e guasto da’ Perugini.

CAP. XLII.
_Come si dispuosono i Sanesi dopo la sconfitta._
I Sanesi udita la mala novella gran dolore ne presono, sì per la
vergogna, e sì perchè credendosi avere pace co’ novelli nemici loro,
per l’arroto oltraggiati, si vedevano nella guerra rifermi, e sentivano
ch’e’ Perugini per loro crescere vergogna erano per venire infino alle
loro porte, e non vedeano ciò potere vietare; che perchè il comune di
Firenze avesse d’ogni parte suoi ambasciadori, misurato mezzo trovare
non vi poteano, per la disordinata superbia e dell’uno e dell’altro
comune, onde si disposono di fare danari per diversi modi, quanti più
ne potessono ragunare, e feciono ambasciadori a’ signori di Milano, e
mandarono alla compagnia ch’era in Lombardia per conducerla contro a’
Perugini, e aspettando questo, si ritennono alla guardia delle loro
terre murate, e sgombrarono il contado. I Fiorentini non poterono
ritenere i Perugini, ch’e’ non volessono per loro arroganza, sentendosi
il favore della fortuna, ed essendo nel caldo della vittoria, andare
infino alle porte di Siena, come appresso racconteremo.

CAP. XLIII.
_Come i conti da Montedoglio presono e perderono il Borgo._
Sentendo i conti di Montedoglio, che la maggior parte degli uomini
del Borgo a Sansepolcro erano andati in aiuto de’ Perugini, e che
per tanto, la terra era rimasa sfornita di gente da guardia, avvisato
loro tempo, nel quale si credettono agevolmente prendere la terra e
recarla alla loro signoria, a dì 5 del mese d’aprile detto anno, dato
ordine d’avere gente di soccorso alla loro impresa, cominciarono con
numero di seicento fanti, co’ quali si misono nella terra, e la corsono
senza contasto, e in parte rubarono. I terrazzani spauriti per lo
subito assalto si ridussono nel cassero, e prestamente a’ loro amici
e vicini il fatto feciono assapere, domandando soccorso, e nell’oste
de’ Perugini loro stato feciono sentire; onde i castellani v’andarono
di presente per comune con tutta loro possa, ed ebbono l’entrata per
lo cassero. I conti conoscendosi impotenti a potere tenere la terra
contro a tanti e tali nemici già venuti al soccorso, e a quello che
speravano che tosto dovesse potere venire, senza indugio di tempo, non
s’affidarono di fare lunga dimoranza nella terra, ma l’abbandonarono
il secondo dì che presa l’aveano, portandosene quelle cose sottili che
poterono, e ciò non senza danno della codazza di loro gente, che ne fu
morta e presa.

CAP. XLIV.
_Come il re d’Inghilterra andò a vicitare il re di Francia, e
annunziarli la pace._
A dì 14 d’aprile, essendo bandita la gran festa che il re d’Inghilterra
dovea fare alla Sangiorgio, il re mandò innanzi a Guindifora, ov’era
prigione il re di Francia, e ’l figliuolo, e altri baroni di Francia,
messer Lionello suo figliuolo a dirli, che il re suo padre volea
venire a fare con lui colezione. Il re di Francia il ricevette a gran
festa, e tennelo la mattina con seco a desinare; appresso mangiare
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