Cronica di Matteo Villani, vol. 4 - 09

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perduti conturbassono assai il nostro comune, quello che non si potea
smaltire era, che ’l comune avea offerta tutta sua possa al legato
a disfare la compagnia e cacciarla de’ terreni della Chiesa, ed egli
l’avea accettata, e battendo la compagnia sotto questa profferta, avea
fatto mercato, e venduto loro la parte del nostro comune. Aggiugnesi
a questa novella non buona, ch’e’ Pisani, e’ Sanesi e’ Perugini per
loro segreti ambasciadori cercavano accordo con la compagnia, e per
ciò sturbare tenea il comune suoi cittadini a confortare i detti comuni
all’unità e alla difesa, mostrando che la resistenza era la salute de’
comuni di Toscana che voleano vivere in libertà e in pace; perocchè
levata la speranza del riscatto, quella gente perversa, che solo per
ingordigia di ciò si ragunava a mal fare, non sarebbono sì pronti a
farsi cassare per fare compagnia; le risposte erano fratellevoli e
buone, e gli effetti in occulto del tutto contrari, come si manifestò
per lo fine.

CAP. VIII.
_Di molte fosse feciono i signori di Lombardia per difesa de’ loro
terreni._
Veggendo i signori di Milano li scorrimenti delle compagnie, e che ’l
paese d’Italia spesso affannato di guerre era, e non era per quotare,
per più sicurtà e fortezza de’ paesi che teneano sotto loro signoria,
con studio e diligenza feciono fare fossi ampi e profondi, uno in sul
Bresciano, il quale si stendea infino al lago di Garda, e un altro
nel Cremonese, e uno ne ferono fare in altro paese, i quali, tutto
che l’opera fosse grande e maravigliosa, per lo terreno dolce furono
in breve tempo forniti. E quanto che dalle cagioni di sopra fossono
indotti, più gl’indusse il sospetto che aveano preso del duca d’Osteric
novellamente titolato re de’ Lombardi, dubitando che se scendesse con
la forza degli Alamanni, trovando i piani liberi e spediti e senza
riparo, loro offesa non fosse più presta e maggiore; e di ciò loro
aveano fatta l’esperienza la compagnia, che più volte per quelli luoghi
aperti gli aveano assaliti improvviso, e assai danneggiati. E il simile
fece il signore di Bologna in questi giorni, facendo fare una spaziosa
e profonda fossa per simigliante temenza. E i Sanesi feciono fare una
via e un ponte sopra le Chiane per avere libero il cammino d’andare
a loro posta a Cortona. E...... per li signori di Milano, essendo
contrario al signore di Bologna, per avere al bisogno il passo e ’l
foraggio di Lombardia, feciono fare via alzata in sulle valli con fossi
d’ogni parte, del cui cavo era levata la via; e dove furono trovate le
valli profonde vi si fè ponticelli, la quale stese per lungo cammino
tanto che la congiunse col Po, la qual via per lo sito del luogo non
potea essere impedita.

CAP. IX.
_Come il re d’Inghilterra dissimulando la pace cercava la guerra co’
Franceschi._
Poichè detto avemo, secondo che ’l corso del tempo richiede, delle
fortune e travaglie de’ nostri paesi, diremo alquanto delle straniere;
e cominciando a quelle di Francia, all’entrata di febbraio 1358, il re
d’Inghilterra, quasi come tocco di cuore si mosse, e andò dov’era il
re di Francia, e a lui disse onestissimamente s’egli attendea la pace;
il re di Francia onestissimamente rispose di sì, e che la desiderava.
Il re d’Inghilterra procedendo più oltre disse al re di Francia,
ch’egli era in sua potestà, quando facesse quelle cose che dovea fare.
Il re rispose, ch’era pronto e disposto, ma il che non sapea. Allora
il re d’Inghilterra per convegna di buona pace chiese in sua domanda
la contea di Bologna sul mare; e che il re pacificamente li lasciasse
possedere la Guascogna, e certa parte della contea d’Anghiem, e la
Normandia, senza farne omaggio niuno; e che il conte di Monforte delle
terre che tiene in Brettagna ne facesse omaggio al re d’Inghilterra,
e togliesse la figliuola per moglie; e di quello che tiene nel detto
paese messer Carlo di Brois duca di Brettagna ne facesse omaggio al re
Giovanni di Francia, com’era usato, e che per ammenda desse fra certi
termini cinquecento migliaia di marchi di sterlini, che montavano
due milioni e mezzo di fiorini. Il re di Francia, ch’era prigione,
consentiva a ogni cosa per sua diliberanza, ma troppo era di lungi il
potere dal volere, e ciò bene conosceva il re d’Inghilterra, ma con
usata astuzia inghilese, essendo certo nell’animo suo che quello ch’e’
domandava fare non si potea, per potere calunniare il re di Francia di
rottura di pace e di fede, e per potere la sua non diritta intenzione
antipensata adempiere, dovendo secondo i ragionamenti avuti tra loro
passare in Francia, sotto colore di più presta e spedita esecuzione
della pace, fece fare gride per tutte sue terre, che sotto la pena
del cuore niuno Inghilese con arme passasse nel reame di Francia,
promettendo di fare tornare tutta sua gente d’arme che fosse nel reame
di Francia. E per mostrare della detta pace singulare allegrezza, i
figliuoli del re feciono bandire in Londra una giostra, dove molti
signori e gentili uomini dell’isola a loro richiesta s’appresentarono,
con molta allegrezza e festa di tutto il reame, seguendo per questa
cagione il contrario nel reame di Francia, come più innanzi del nostro
trattato faremo menzione.

CAP. X.
_ Come il re di Navarra tribolava Francia._
Gli effetti della infinta e non vera pace tra i sopraddetti due re
si cominciarono a scoprire del mese di marzo seguente, perocchè il
re di Navarra, ch’era creatura del re d’Inghilterra, colla forza
degl’Inghilesi entrò una notte di furto in Alsurro, e non potendo
vincere la rocca, ch’era forte e bene guarnita alla difesa, fè la
terra rubare, e mettere al taglio delle spade grandissimo numero di
cittadini e paesani che quivi erano ridotti, e secondo che troviamo per
vero, oltre a seimila vi furono morti. Fu riputata crudelissima cosa e
disusata, perocchè simile cosa più occorsa non era nella lunga triegua
e pertinacia della detta guerra. Partito il detto re di Navarra con
sua gente d’Alsurro, se n’andarono al Tu, e stesonsi infino in Torì,
e ivi combatterono e presono uno forte castello ove trovarono molta
roba; e predato le cose sottili, fornirono il castello, e lasciaronvi
sofficiente difesa, cercando dove potessono fare danno. E oltre a
queste inique operazioni del re d’Inghilterra, e’ si copria sotto lo
scudo del re di Navarra, la cui forza tutta era d’Inghilesi: e pertanto
si potea dire pessima cosa, che era radice di tradimento, perocchè i
paesani allegrandosi per lo grido della pace novella non attendeano
alla guardia come erano usati, e pertanto ricevettono danno in molti
luoghi grandissimo; onde essendo improvvisi fidati, così malmenati,
e senza capo o consiglio, si diruppono quasi tutti a mal fare;
verificando l’antico proverbio che dice, tra pace e tregua guai a chi
la lieva.

CAP. XI.
_Del male stato di Cicilia in questi tempi._
Le discordie continovate per lungo tempo tra’ Ciciliani aveano l’isola
ridotta in somma impotenza e miseria, e in stato sì fievole, che poco
degno pare di memoria per le sue opere inferme e di poco valore, pur
seguendo quelle, tali quali furono racconteremo. In questo anno 1358
del mese di febbraio, uno bastardo della casa di Chiaramonte, detto
per nome Manfredi, uomo assai valoroso e ardito, se n’andò a Messina,
e sagacemente cercò se avesse potuto riducere i Messinesi al volere
del duca, figliuolo che fu del re di Cicilia, a cui erano avversi e
contrari tutti quelli di Chiaramonte, e per sua parlanza avea tanto
operato, che i principali parziali de’ Messinesi inchinavano e davano
orecchie. Ma messer Niccolò di Cesare, il quale per lo re Luigi avea la
maggioranza e lo stato, sì s’oppose, e non volle assentire, mostrando,
che se quella città perdesse l’aiuto e lo foraggio della vittuaglia
che traeva di Calabria era in pericolo di fame, e di venire per tanto
in desolazione e in miseria. Quelli di Chiaramonte veggendo i crolli
che aveano per sostenere la parte del re Luigi, e che da lui non era
favore bastevole a mantenere loro stato, ripresono e ridussono a loro
lega la Stella di Palermo, e molte altre fortezze e tenute, le quali
aveano lasciate nella guardia del re Luigi, il quale per non potere
resistere alla spesa non le potea guardare; e forte temeano che non
le riprendessono i Catalani. E nondimeno mandarono il detto Manfredi a
Napoli al re Luigi significando lo stato loro e del paese, e pregandolo
che mandasse loro gente d’arme sofficiente a resistere alla potenza
del duca e dei Catalani, la quale tutto che piccola fosse, pure era
maggiore che la loro, e da sormontare in breve tempo se non trovasse
contasto, che continovamente crescea, sì perchè li paesani volentieri
tornavano alla grazia del signore naturale, e sì perchè d’Araona
li venia soccorso. Sentendo ciò il re Luigi, e non potendosi come
desiderava, per l’impossibilità fare prestamente quello che domandavano
i suoi parziali, s’aiutò colle grandi e larghe impromesse, promettendo
d’andarvi in persona senza lungo indugio di tempo. E di presente fè
sua ambasciata, e mandò a richiedere d’aiuto il comune di Firenze, e
gli altri comuni di Toscana per la sua andata in Cicilia. E per dare a’
suoi amici e servidori speranza, mandò innanzi da sè il conte da Riano
con trecento cavalieri e con pedoni nell’isola, e operò sì che messer
Niccolò di Cesaro per la detta cagione venne per suo ambasciadore in
Toscana; e come ne seguì di questa materia a suo tempo racconteremo.

CAP. XII.
_Del male stato di Puglia per ladroni._
Come detto avemo nel capitolo di sopra, il re Luigi promise di passare
alla difesa e acquisto della Cicilia, e non era sufficiente, come
appresso diremo, a purgare e a difendere suo reame delle continove
ingiurie e ruberie de’ ladroni che correvano il Regno con disordinata
baldanza. E ciò addivenne, perchè in questi dì i baroni non erano
in pace e in concordia col re, e massimamente i reali, e il re aveva
piccola entrata, e però tenea poca gente d’arme a gastigare col ferro
e col capestro il gran numero de’ ladroni sparti quasi per tutto
il reame, e caldeggiati da’ detti reali e baroni per odio del re. E
pertanto in più parti del Regno si cominciarono a fare raunanze di
gente malandrina disposta a rubare, e feceano loro capitano, e rompeano
le strade, e correano per lo paese ora in una ora in un’altra parte,
forte conturbando i forestieri e’ paesani con rapine, e violenze, e
omicidii, fra i quali uno friere dello Spedale per trattato rubellò
Alfi, e fecelo spilonca e ricetto di questi ladroni: e altri ladroni
in Nieboli feciono il simigliante: e alcuna altra brigata di questa
pessima gente ferono capo in Valle beneventana, e altri di loro ginea
altrove in diverse contrade, tenendo i paesi affannati, perchè andare
non si potea sicuro in niuna parte del Regno, se non con sicurtà de’
baroni del paese, i quali nel vero a loro davano ricetto per essere
temuti da’ paesani. Di tanti mali giustizia fare non si potea; ma i
ladroni mancando la preda, e crescendo l’ira de’ paesani, e la paura
de’ loro malificii, partendosi molti da compagnia, i caporali rimaneano
con minore seguito, e meno poteano fare nocimento.

CAP. XIII.
_Della morte di messer Bernardino da Polenta signore di Ravenna._
Essendo stato lungo tempo malato messer Bernardino da Polenta tiranno
e signore di Ravenna e di Cervia, a dì 13 di marzo 1358 lasciò
insieme la signoria e la vita. Costui fu dissoluto e mondano, e di
sfrenata lussuria; crudele e aspro signore, e nimico di tutti coloro
che montassono in virtù e in ricchezza, e tutti gli antichi legnaggi
dell’antica città e nobile di Ravenna spense e distrusse, non meno
per cupidigia d’usurpare i loro beni, che per tema che per alcuno
tempo non li fossono avversi; il perchè in Ravenna al suo tempo altro
che artefici minuti e villani non si vedeano. Costui talora come
censuario rispondea alla Chiesa di Roma, mostrandosi divoto e amico,
ma copertamente l’era contrario, favoreggiando i rubelli della Chiesa
in Romagna e nella Marca. E avendo ne’ dì suoi la fortuna benigna,
di masserizia, di grano, e di bestiame, e di sale, e delle colte de’
cittadini e de’ contadini disordinatamente gravati fè grande tesoro; e
quanto ch’all’anima poco fruttasse, pure nell’estremo fè testamento,
nel quale istituì sua reda messer Guido suo figliuolo, e sì della
signoria come dell’avere; il quale, morto il padre, con la forza degli
amici e della gente dell’arme al popolo si fè confermare per quella
poca di giurisdizione che la Chiesa dice d’avere in Ravenna, e con
provvedere al legato anche fortificò la detta confermazione. Costui
mosso da benignità d’animo, e da buono e savio consiglio, tutti gli
antichi e buoni cittadini che dispersi per lo mondo aveano fuggita
la crudeltà e l’ira del padre richiamò e ridusse in Ravenna, e cacciò
via tutti i malvagi e iniqui sergenti del padre; che fu cosa notabile
assai, e atto non di tiranno, ma di giusto signore naturale.

CAP. XIV.
_Operazioni della moría._
In quest’anno l’usata moría dell’anguinaia, la quale nell’autunno
passato avea nel Brabante e nelle circustanti parti del Reno fatti
gran danni, nel verno si dilatò, e comprese e passò nel Friuli facendo
l’uficio suo per infino al marzo, e parte della Schiavonia, ma non
troppo agramente; perocchè enfiando sotto il ditello e l’anguinaia, chi
passava il settimo giorno era sicuro; vero è che in sette dì assai ne
morivano. Ancora non pigliava le città e le ville comunemente, ma al
modo della gragnuola l’una lasciava stare e l’altra prendea; e durando
dove cominciava dalle venti alle ventidue settimane, molta gente d’ogni
generazione trasse a fine.

CAP. XV.
_Di certa novità ch’ebbe in Perugia in questi tempi._
Chi vorrà con animo riposato recare alla mente quello che scritto si
trova degli stati mondani dal tempo di Nembrotte primo tiranno infino
ne’ giorni presenti, vedrà manifesto, che mai niuno tempo fu tanto
pacifico nè tanto durato tranquillo che ne’ reami, e nelle città, e
(che è più da maravigliare) nelle piccole e povere ville, non sieno
stati di quelli che hanno cerco e a tutti i sentimenti del corpo e
dell’animo di soprastare agli altri, e di farsi maggiori e governatori,
usurpando le pubbliche e le private ricchezze; e senza recare esempi
a prova di ciò, che sono infiniti, e notori e manifesti, cercate le
note volgarmente hanno fatto quelli di nostra famiglia intorno alle
cose che sono occorse ne’ tempi da farne memoria, troverà che non
di Roma città in Italia, ma in tutto il mondo mai non fu in tanto
riposo che per tutto non sentisse affanno di questa materia; onde li
savi, che ricordano delle cose antiche, veggendo questi casi tutto
giorno addivenire, non si dogliono nè si maravigliano, ma i semplici
e idioti, che solo tengono gli occhi alle cose che sono loro davanti,
si turbano e rammaricano, e mormorando stoltamente favellano, e non
sapendo vedere nè dare riparo potendo si contristano. Essendo dunque
questa vita comune, molte più e così ne sono state maculate l’altre
città di Toscana, come la nostra. E in questi tempi ne fece sperienza
la città di Perugia, che essendo il popolo suo villanamente barattato
per Leggieri d’Andreotto e per gli altri grandi cittadini appellati
Raspanti, che con lui s’intendeano ne’ fatti dell’impresa della
città di Cortona e della guerra de’ Sanesi ch’era seguita, quelli
che voleano vivere mezzano e popolare senza fare danno o vergogna
al suo comune ebbono tanto di podere, che feciono in Perugia venire
per sindaco di comune messer Geri della casa de’ Pazzi di Firenze,
cavaliere sagace e di grande cuore, voglioso e vago di novità come più
volte mostrò per l’opere sue. L’uficio fu con gran podestà e balía,
in ritrovare chi avesse male preso della pecunia del comune e’ beni,
e punire agramente cui trovasse colpevole; il valente cavaliere,
come giunse informato appieno per solenne investigagione di quelli
che ne’ detti casi aveano errato, non prese gli uccellini, ma formò
francamente suo processo contro al detto Leggieri, e altri maggiorenti
di quelli dello stato, ad animo di farne giustizia, senza tenere in
collo il processo. Gl’inquisiti non s’osavano rappresentare veggendo
l’uficiale coraggioso e disposto a punire, per tema di non essere
posti al tormento, e condannati personalmente e vituperosamente per
barattieri e rubatori del loro comune: e colla forza de’ Raspanti, che
li favoreggiavano, procuravano il dì e la notte come potessono impedire
l’uficiale in forma ch’e’ non potesse procedere. I gentili uomini
con tutto il seguito loro riscaldavano e francheggiavano il sindaco
perchè condannasse, stimando che se ciò fosse avvenuto rimaneano senza
dubbio i maggiori, e volgeano lo stato. Onde avveggendosi di ciò i
popolari, eziandio quelli ch’aveano cominciato la mena, si dierono
a cercare de’ rimedi, e trovarono uno statuto, che essendo eletto
per ambasciadore di comune, qualunque fosse e qualunque uficiale
inquisito, mentre che durasse il tempo dell’ambasciata si sospendea il
processo; onde operarono co’ signori, che gl’inquisiti fossono eletti
per ambasciadori, e così seguette; perchè convenne che i processi
cominciati fossono sospesi. Il perchè il valente cavaliere, veggendo
che gli erano presi i dadi, e ch’e’ non potea fare niente di suo
intendimento, lasciò l’uficio, e tornossi a Firenze. Il suo successore
trovati i processi pendenti assolse i detti grandi cittadini, e per
mostrare di fare uficio condannò i minori e gl’impotenti, onde a
furore di popolo anzi ch’e’ finisse l’uficio fu messo in prigione e
vituperosamente condannato fornì i giorni suoi in prigione.

CAP. XVI.
_Di sconfitta ebbono i Turchi da’ frieri._
Avendo i Turchi presa sopra i Greci disordinata e troppa baldanza,
ne’ detti tempi armarono ventinove legni, e valicarono nella Romania
bassa, e non trovando in pelago chi rispondesse loro si misono per
la fiumara molto fra terra predando il paese, e pigliando a costuma
di pecore, e avendo accolti più di milledugento prigioni e altra roba
assai, e ridotta tutta alla riva del fiume per caricare i navili; il
maestro dello spedale che per sue spie avea della detta armata sentito,
e fatto armare quattro galee e uno legno, e messovi quanti e’ potè de’
migliori e più franchi de’ suoi frieri, e altra buona gente d’arme, e
nobilmente fornita e apparecchiata a battaglia, le fè senza perdere
tempo dirizzare in Romania; li quali trovando come i Turchi avendo
i Greci a vile s’erano messi per la fiumana, presono subitamente la
bocca del fiume, e a lento passo tennono loro dietro; e non avendo
rispetto perchè i Turchi molti più fossono a numero, li soprappresono
quando intendeano a caricarei navili, e fidandosi nel nome di Cristo
e nell’aiuto suo scesono in terra, e arditamente presono la battaglia
con loro, la quale durò lungamente; e non ostante che i Turchi fossono
male ordinati, erano tanti, e vedeansi in luogo che non poteano fuggire
se non si facessono fare la via colle spade, però grande resistenza
feciono e aspra zuffa: alla fine furono rotti e sbarattati, e la
maggiore parte di loro morti e magagnati. Quelli che rimasono nella
sconfitta furono tutti presi, e i loro legni e navili, che niuno non
ne campò. I frieri liberata la preda e’ prigioni che i Turchi aveano
presi, e con piena vittoria, si ritornarono salvi a Rodi.

CAP. XVII.
_Di novità state in Provenza contro a quelli del Balzo._
I gentili uomini della Provenza che si chiamavano villanamente
oltraggiati da’ signori e dalla casa del Balzo, i quali aveano
tenuto e condotto gran tempo sopra loro la compagnia, desiderosi
di vendicare gli oltraggi e’ danni loro fatti, del mese di marzo
s’adunarono insieme con quella gente d’arme che più presto poterono
accogliere senza fare segno di cui volessono offendere, e di furto
presono l’Aguglia, nobilissima e bella fortezza di quelli del Balzo,
e presa, senza arresto la gittarono in terra infino ne’ fondamenti. E
ciò fatto, intendeano a tutto loro potere di seguire alla distruzione
della casa del Balzo, se non che il papa e’ cardinali, veggendo che
quella guerra tuttochè fosse tra private persone e non generale,
nè con offesa altrui che di loro, per lo sturbo che di ciò seguiva
alla corte di Roma vi s’interpose perchè non procedesse più oltre, e
feciono racquetare i Provenzali, e por giù l’arme. In questi giorni
i Borgognoni e’ Provenzali che erano nel reame di Francia stavano in
pessima disposizione, perocchè chi volea mal fare non era punito, e di
tali si trovavano assai, e aveano grande seguito; onde per la detta
cagione i cammini d’ogni parte erano rotti, e’ mercatanti e l’altra
gente rubati, ed erano sì stretti i cammini da questa mala gente,
che appena i corrieri, che andavano e venivano a Avignone, dalle loro
mani poteano scampare; il perchè la corte stava in molto disagio, e ad
altro non s’intendea che a trarre a fine le nuove mura d’Avignone: e
per ciò fornire, il papa e’ cardinali aveano fatta l’imposta a tutti
i cittadini e cortigiani, la quale era certa tassa in nome di capo
censo, e per casa, e per famiglie e botteghe, le quali si ricoglievano
ogni mese una volta, o più o meno, tre dì come il bisogno occorreva.
E per seguire i fatti de’ corrieri, giugnendo insieme il caso che
viene, il cardinale di Pelagorga e quello di Bologna, i quali erano
stati in Francia e in Inghilterra a trattare la pace intra’ due re,
come addietro facemmo menzione, tornando a corte, sentendosi, furono
assaliti da gente d’arme, e nell’assalto furono morti dodici de’
famigli loro, intra’ quali v’ebbe sei cavalieri, e però fuggirono senza
arrestarsi per spazio di quattro miglia, e’ buoni cavalli e gli sproni
li camparono che non furono presi, e ridussonsi in Celano, non sapendo
chi li cacciava. Bene si sparse la voce che i Franceschi si teneano
mal contenti di loro per li trattati menati per loro in poco favore
del loro re e signore; ma ciò non fu vero, ma piuttosto operazione di
rubatori, che stimarono essere ricchi se gli avessono potuti pigliare,
che atto di vendetta per sdegno ch’avessono preso i Franceschi.

CAP. XVIII.
_Il consiglio si tenne in Francia sopra le domande degl’Inghilesi._
Essendo divulgata la non vera pace tra li due re d’Inghilterra e di
Francia per vera, il duca d’Orliens, e il Delfino di Vienna figliuolo
del re di Francia andò a Mompelieri dove si fè grande ragunanza de’
baroni di Francia, e con loro furono i due cardinali ch’erano stati
altra volta al trattare della pace; quivi si fece parlamento per tutti,
nel quale chiaramente per tutti si tenne e conobbe, che quello che
domandava il re d’Inghilterra non era possibile, perchè non vedeano
che si potesse per modo alcuno inducere i Franceschi al consentimento,
tant’era la domanda ontosa e altiera, e a grande animo de’ Franceschi,
per la vituperosa e sdegnosa cosa, onde senza prendere accordo si partì
il parlamento. Il Delfino cavalcò ad Orliens con intenzione, che se
’l padre passasse in Francia col re d’Inghilterra, com’era ordinato,
li prestasse il consentimento della corona per difesa del reame, e
per tenere ciò che si potea; giunto in Orliens, mandò due baroni al
re d’Inghilterra a cercare accordo con lui, e fatto per sue lettere ed
ambasciate, a tutte le città e buone ville di Francia manifestò quello
che chiedea il re d’Inghilterra in vergogna e abbassamento della corona
e nome de’ Franceschi, e confortò li comuni che stessono attenti e
provveduti, e che si studiassono a fare buona guardia.

CAP. XIX.
_Come il re di Spagna e quello d’Araona s’affrontarono e non
combatterono._
Seguendo le discordie e tribolazioni de’ cristiani, che a giornate
per li loro peccati rovesciano i due re, quello d’Araona e quello
di Spagna intra gli altri di nome cristiano, e grandi e famosi,
s’erano ingaggiati di battaglia, e all’entrata del mese d’aprile 1359
ciascheduno di loro provveduto e avveduto, fatto tutto suo sforzo per
essere alla battaglia, comparirono alla fine de’ loro reami assai di
presso ciascheduno; quello di Spagna, che si noma quello di Castella,
venne con settemila cavalieri tra di sua raunata e di gente barbara,
i quali si chiamavano Mori, e con popolo assai; quello d’Araona venne
con cinquemila cavalieri catalani e con grande quantità di popolo
a piè, armati di lance e di dardi maneschi, i quali sono da loro
chiamati mugaveri, e l’una e l’altra gente con le persone de’ loro re
s’avvicinarono insieme per ordinarsi a battaglia: e non pertanto che
il re d’Araona fosse con meno cavalieri che quello di Castella, molta
sicurtà e baldanza prendea nella fede de’ suoi baroni, ma più in Dio,
perchè avea seco giusta cagione, e ciò li dava speranza di vincere;
ma quello di Spagna, tutto che si sentisse la forza maggiore, non si
fidava della fortuna della battaglia, per la coscienza di sua vita
scellerata e crudele, perocchè tornandoli a memoria che l’anno dinanzi
avea di sua mano morti venticinque de’ suoi baroni, come addietro
contammo, invilì, temendo ch’e’ baroni che gli erano rimasi non li
tenessero fede, e stornava con modi sagaci la zuffa; il perchè seguì,
che stati più giorni affrontati senza muovere assalto, o aizzare l’uno
l’altro, quasi come se avessono fatta convegna, si partirono del campo,
e tornaronsi indietro ciascuno alla sua frontiera. Di ciò fu lodato
il re d’Araona, che tutto che conoscesse che per la discordia de’
suoi nemici la vittoria fosse nelle sue mani, non volle mettere tanti
cristiani a farli uccidere insieme.

CAP. XX.
_Come il comune di Firenze si provvide contro alla compagnia._
Bene che ’l nostro comune di Firenze sollicitamente e con molta
provvedenza infra ’l tempo che la compagnia badava in Romagna
aspettando il tributo dal cardinale si fosse messo in assetto e alla
difesa, a all’offesa de’ suoi nemici, sentendo che ’l sabato santo a dì
20 d’aprile la pecunia promessa alla compagnia era pagata, raddoppiò la
sollecitudine, facendo gente quanta ne trovava assoldare, e affrettando
l’aiuto dell’amistadi, e rifermò per capitano di guerra messer Pandolfo
de’ Malatesti, e a dì 29 d’aprile 1359 fece la mostra della gente
sua, la quale fu da duemila barbute, e da cinquecento Ungheri, e da
duemilacinquecento balestrieri eletti tra gli altri e armati tutti a
corazzine; e avendo in punto questa brigata, messer Bernabò signore di
Milano, il quale da questa Compagnia più volte era stato oltraggiato e
l’avea in odio, offerse aiuto di mille barbute e di mille masnadieri
al nostro comune, e il comune l’accettò perocchè in quel tempo vivea
in fede e in buona pace col detto signore; fatto l’accetto, il detto
signore senza niuno intervallo di tempo ne cominciò a fare soldare in
Toscana. E mentre si facea queste cose, messer Francesco da Carrara
signore di Padova mandò in aiuto a’ Fiorentini dugento cavalieri, e
i marchesi da Este signori di Ferrara mandarono trecento cavalieri; e
fu cosa mirabile, che i tiranni che per natura sogliono essere nemici
e oppressatori de’ popoli che vogliono vivere in libertà, il perchè
le ragioni sono manifeste, si mettessono ad atare il nostro comune
fedelmente, che sopra tutti gli altri d’Italia sempre s’è opposto
a’ tiranni e disfattine molti, e i popoli di Toscana che sono vivuti
lungamente a libertà cercassono il contrario quasi di assenso comune,
bene che non apertamente, come appresso diremo. E cominciandoci a’
più antichi e intimi amici del nostro comune, e che mai da lui non
furono offesi, ma sempre atati e difesi e esaltati ne’ loro onori,
cioè da’ Perugini, contro al volere del comune di Firenze, e per suo
abbassamento e desolazione, secondo loro credenza e speranza, presono
accordo colla compagnia per cinque anni, dando loro di censo ogni anno
fiorini quattromila d’oro, e a tutta l’oste in dono tre dì vittuaglia,
e da indi innanzi derrata per danaio, e il passo libero per lo loro
contado e distretto a ogni tempo ch’e’ volessono passare, promettendo
che non darebbono contro a loro aiuto a’ Fiorentini; la quale
coralmente punse il nostro comune, e molto l’ebbe a grave. Vedendo
i Sanesi e’ Pisani ch’e’ Perugini, che sempre erano stati un animo e
un corpo co’ Fiorentini, aveano preso l’accordo nella forma ch’avemo
detto di sopra, feciono il simigliante, e più i Pisani, come antichi e
perfidi nemici del nostro comune, foraggio, e passo, e segreta promessa
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