Cronica di Matteo Villani, vol. 4 - 05

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Tornando a’ fatti di Francia che occorsono in que’ tempi, il Delfino
di Vienna, e ’l duca d’Orleans, come addietro avemo fatta menzione,
per disdegno, o forse per paura piuttosto, che più verisimile parve,
s’era partito di Parigi, e l’amministrazione e governo del tutto avea
lasciato al proposto de’ mercatanti e a’ borgesi di Parigi; perchè
essendo ripreso di codardia, si mosse, e appressossi alla città,
stimando che il proposto li portasse reverenza, e come reale lo
ridottasse, e a lui mandò a dire, che con trenta compagni li venisse
a parlare. Il proposto rispose di farlo; e di presente tutto il popolo
commosse, il quale in numero di trentamila o più il seguirono per ire
seco infino al luogo dove stava il Delfino. Il quale udendo in che
forma venia, non lo attese, ma si partì in fretta, per non attendere la
piena del popolo ignorante e mal consigliato, e tornossene ad Orliens.
E ciò fu all’entrata di giugno.

CAP. LXVII.
_Di novità fatte per lo popolo di Parigi._
I borgesi e ’l popolo minuto di Parigi vedendosi armati, che n’erano
poco usi, e che ’l Delfino non attendendo loro furia s’era partito,
montarono in baldanza; e come suole avvenire, e per sperienza si vede,
che i vili, che prendono ardire contro a chi fugge, vantandosi di loro
cuore e ardire, col fumo della vittoria senza contasto si fermarono,
aspettando se loro fosse mosso niente. Il proposto con quelli che lui
seguivano nel malvagio proponimento e consiglio, veggendo lo stolto
popolo armato, e per levità d’animo nimicato contro la casa reale,
pensarono con esso, avanti che giù ponessono l’arme, a maggiori
fatti procedere. E per tanto confortato il popolo, e inanimatolo a
speranza di migliore fortuna, quasi come gente furiosa e irata la
condussono spartamente come vedeano che richiedesse la faccenda, e ogni
parte d’essa sotto guida a’ palagi e a’ manieri de’ gentili uomini
ch’erano vicini a Parigi, i quali non prendendo guardia di loro, e
non avendo alcuno avviso di loro iniquo e reo proponimento, nè del
movimento di chi li guidava, molti ne furono sorpresi. Il furioso
popolo incrudelito, quanti ne giugnea tanti ne mettea al taglio delle
spade, non perdonando a fanciulli o a donne; e a’ micidi aggiugneano
l’arsioni, diroccando fortezze e manieri a costuma di fiere selvagge.
E intra gli altri nobili e ricchi dificii guastarono il bello castello
di Montmorensì, e altre molte castella notabili. E con questa rabbiosa
vittoria, con spargimento di cittadinesco sangue, si tornarono in
Parigi, avendosi fatti nemici i gentili uomini e i baroni del reame.

CAP. LXVIII.
_Come l’altre ville seguirono di fare come Parigi._
Sentendosi per lo paese quanto inumanamente, e con quanta bestiale
fierezza il popolo di Parigi s’era portato contro a’ baroni e a’
gentili uomini circustanti e vicini a Parigi, l’altre buone ville
di Piccardia e di Francia, prendendo esempio dal popolo di Parigi,
tantosto s’adunarono in arme, e uscirono delle ville come se andassono
contro a’ nemici, e ricercarono i gentili uomini e le famiglie loro
per li manieri, e per le castella, e per le tenute dove si riduceano,
e quanti ne poterono giugnere senza misericordia n’uccisono, e i loro
manieri e castella dove poterono entrare disfeciono. E fu sì subita
e improvvisa questa tempesta, che molti tra le loro mani ne perirono,
dando boce e cagione, ch’e’ gentili uomini e i baroni erano traditori
del re loro signore; ma certo chi fu primo motore di tanto scellerato
male fu il reo e il traditore di suo signore e di tutto il reame, come
appresso leggendo si potrà trovare.

CAP. LXIX.
_Di novità di Forlì._
Bene che paia assai disonesto e fuori di ragione, che li prelati che
dovrebbono essere correggitori de’ difetti e peccati de’ secolari
s’inviluppino e rivolgano in quelli, e massimamente in quelli errori
mondani che più paiono orribili e abominevoli, come sono tradimenti,
o se volemo più onesto parlare, trattati, nondimeno per la corrotta
usanza del malvagio tempo che corre, non pare si disdica a coloro che
sono posti da santa Chiesa alla cura de’ suoi beni temporali, tutto
che cherici sieno, usare arte di tradigione. Per questa larga e non
dannata licenza, l’abate di Clugnì legato di papa in Romagna, avendo
fatto tenere certo trattato con le guardie d’alquante bertesche della
città di Forlì, le quali gli doveano essere date, mandò della sua gente
una notte intorno di seicento tra a piè e a cavallo, e presonle, ed
entrarono nella terra; e se avessono avuto con loro più forte braccio
n’erano signori. I cittadini, per l’improvviso e subito assalto non
sbigottiti, insieme col capitano francamente si fedirono tra loro
ch’erano entrati, e per forza gli ripinsono di fuori, avendone morti
e presi una parte di quelli che più s’erano messi innanzi; intra gli
altri rimase preso il figliuolo del conte Bandino di Montegranelli; e
gli altri si fuggirono senza avere caccia fuori della terra, e tornarsi
al legato beffati.

CAP. LXX.
_Come il legato ebbe Meldola._
Uno de’ terrazzani di Meldola capo di setta, essendo per più tempo
stato con certi suoi congiunti sostenuto dal capitano di Forlì per
sua sicurtà di quella terra, si collò dalle mura con suoi compagni di
furto, e fuggissi nel campo al legato, e ivi segretamente stando più
giorni s’intese con altri suoi terrazzani. E a dì 2 di luglio detto
anno, il legato ordinata sua gente sott’ombra di combattere Meldola,
si strinse alla terra. Lo Meldolese di cui avemo parlato, senza arme
uscì della schiera, e innanzi si mise verso la terra, e fè certo segno
a quelli delle mura, sicchè fu conosciuto; e sperando nell’ordine e nel
favore di coloro che dentro avea temperati con belle e savie parole,
ed efficaci alla materia, disse a’ suoi terrazzani, che non volessono
essere morti e disfatti in contumacia di santa Chiesa, che domandava
con gran ragione la sua terra, e con beneficio, per servire al tiranno
scomunicato, che contro a Dio e contro a ragione si tenea in ribellione
del legato e di santa Chiesa, il quale era stretto per modo, che
tosto dovea e potea essere disfatto; loro assicurando che dalla gente
della Chiesa non riceverebbono offesa nè danno alcuno. I Meldolesi
alla Romagnuola voltanti, e affannati dalla lunga guerra, udendo
così parlare il loro terrazzano, ed essendo sospinti da’ consigli e
conforti di quelli dentro che col detto loro terrazzano s’intendeano,
di presente apersono le porte, e ricevettono liberamente con allegrezza
e festa la gente del legato pacificamente. Li forestieri che v’erano
ciò vedendo, bellamente si ricolsono al cassero, e quelli del legato di
presente s’afforzarono nel castello, e assediarono la rocca dentro e di
fuori, avendo dottanza che la compagnia ch’allora era di presso non li
venisse a impedire; e strignendo forte con assedio, e ricercando spesso
con trabocchi e con altre battaglie quelli della rocca, a dì 25 del
detto mese s’arrenderono salve le persone.

CAP. LXXI.
_Come i Fiorentini ordinarono il monte nuovo per avere danari._
Per l’armata del mare essendo consumata molta moneta dell’usate
rendite del comune, sopravvenendo le compagnie del conte di Lando
e d’Anichino di Bongardo, e apparecchiandosi molte altre novità in
Italia, alle quali per conservare suo stato necessità era al nostro
comune di provvedere; e non potendosi ciò fare senza danari, ed
essendo l’entrate del comune indebitate, e porre di nuovo gravezze
senza manifesta guerra incomportabile e pericoloso parea, massimamente
per la nuova dissensione e sospetto nato tra’ cittadini per le accuse
e persecuzioni, che sotto il titolo della parte guelfa si facea de’
buoni, e a’ buoni antichi cittadini che si voleano vivere in pace,
sotto il segno della detta pace onorando il comune, e non poteano.
Quelli che reggevano il comune cercavano nuovo modo, provvedendo per
legge che chi spontaneamente prestasse al comune fosse scritto a suo
creditore nuovamente nell’uno tre, cioè in fiorini trecento prestandone
cento di quello che veramente prestavano, dando al detto monte nuovo e
a’ suoi creditori tutti i privilegi e immunità del monte vecchio. Per
questa via il comune senza altra gravezza ebbe al suo bisogno soccorso;
e se bene si misura, non per carità o affezione ch’avessono i cittadini
alla sua repubblica, ma per la cupidigia del largo profitto; il quale
fuori del buono e antico costume de’ nostri maggiori molti n’ha tirati
dalla mercatanzia in su l’usura, e sì ha ingrossate le coscienze, che
le vedovelle poco si curano dell’anime, pur che il monte risponda bene
loro.

CAP. LXXII.
_Della gran compagnia._
La gran compagnia essendo nella Romagna a’ confini del Bolognese, sotto
la condotta del conte Broccardo e di messer Amerigo del Cavalletto, in
numero di tremilacinquecento cavalieri e grande quantità di pedoni,
baldanzosamente del mese di luglio mandarono a domandare il passo in
Toscana al nostro comune; il quale sorpreso dalla subita domanda,
non avvedendosi de’ patti ch’aveano con loro, intra’ quali che non
dovessono offendere nè passare per lo nostro terreno fra certo tempo,
il quale ancora durava, e temendo della ricolta, che la maggiore parte
era in su l’aia, di presente vi mandarono ambasciadore, concedendo
che potessono passare a dieci bandiere insieme, togliendo derrata per
danaio. Li conducitori e caporali di quella insuperbiti per la temenza
che parea mostrasse il comune, tacendo i patti, risposono, che non
voleano passare spartiti, nè per lo luogo loro assegnato, ma per quello
più loro piacesse. Non volendosi per lo comune a ciò consentire, nel
consigliare che se ne fè furono ricordate e ritrovate le convenienze
il comune avea con loro, e furono creati ambasciadori ch’andassono a
loro, i quali furono; messer Manno Donati, messer Giovanni de’ Medici,
Amerigo di messer Giannozzo Cavalcanti, e Simone di Rinieri Peruzzi; i
quali ebbono i punti di loro ambasciata, e portarono i patti giurati,
soscritti, e suggellati per li caporali e conducitori d’essa compagnia;
i quali mostrati loro, come è usanza di gente d’arme di sì fatta
maniera quando si sente podere, niente li pregiarono; e perseverando in
loro sconce e disoneste domande, accennavano di passare a loro posta, e
donde loro bene paresse, a mal grado di chi il volesse vietare. Perchè
ciò sentendo il comune, sollicitamente s’apparecchiava alla difesa;
e per chiudere loro i passi dell’alpe a suo podere richiesto avea gli
Ubaldini, i conti Guidi e gli altri amici del comune ch’aveano podere
ne’ luoghi onde si temea che potessono passare, e con poco ordine
per la fretta, e senza capitanare, mandò la gente sua da cavallo e
assai balestrieri nel Mugello e alla guardia de’ passi. Essendo i
detti ambasciadori nel campo della compagnia, e segretamente rivocati
dalla loro ambasciata, vi fu mandato di nuovo ambasciadore Filippo
Machiavelli, a cui fu commesso in segreto, ch’aoperasse co’ caporali
ch’e’ non venissono per lo nostro contado, e che in ciò spendesse da
cinquemila in seimila fiorini: e avendosi da lui in risposta che ciò
non si potea fare, il comune raddoppiando la sollicitudine a sua difesa
intendea.

CAP. LXXIII.
_Come il conte di Lando tornò d’Alamagna alla compagnia._
Il famoso capo di ladroni conte di Lando era nella Magna passato,
e portato n’avea il tesoro ch’avea guadagnato, ovvero rubato delle
prede degl’Italiani, e di là comperatone terre e castella, e riscosse
di quelle ch’avea impegnate. Appresso era stato con l’imperadore,
e mostratogli come e’ non era ubbidito da’ comuni di Toscana, e che
dove egli avesse titolo da lui, per forza di sua compagnia per tutto
il farebbe senza suo costo ubbidire: mostrandoli come la Toscana
era piena di soldati di lingua tedesca, che tutti, dove che fossono
a soldo, s’intenderebbono con lui. E per tanto non temea trovare in
campo contasto; e dove con suo titolo entrasse in alcuna buona città
di Toscana, l’altre domerebbe per modo, che di tutte il farebbe libero
signore. L’imperadore, ch’era cupido di natura, e astuto, conobbe il
partito, e per volere a ciò provvedere per modo indiretto e coperto,
sicchè se avesse luogo il consiglio del conte l’esecuzione fosse
pronta, e se non, almeno colorata; essendo consueto di tenere suo
vicario in Pisa, ne intitolò suo vicario il predetto conte in palese,
ma in occulto si disse li diè maggiore legazione. Costui giunto a
Bologna, sentì la condotta fatta della sua compagnia da’ Sanesi contro
a’ Perugini, la qual cosa molto andava a sua intenzione; e vedendo
la discordia del passo col comune di Firenze, di presente cavalcò
alla compagnia, e trovò che gli ambasciadori del nostro comune erano
rivocati; e volendosi ritornare a Firenze, egli li ritenne, e disse,
ch’a niuno partito volea che la compagnia valicasse contro a volontà
del comune nè per lo suo contado; e con gli ambasciadori insieme
trovarono questa via; che essendo la compagnia in Valdilamone dovesse
passare da Marradi, e dappoi passare tra Castiglione e Biforco, e
ricidere da Belforte e Dicomano, e da indi a Vicorata, e poi a Isola,
e da Isola a san Leolino, e quindi a Bibbiena; e i detti ambasciadori
promisono, che ’l comune di Firenze per cinque di loro apparecchierebbe
panatica, prendendo derrata per danaio, e in quelli luoghi donde
dovea essere loro trapasso. Questa concordia fatta senza mandato a’
Fiorentini non dispiacque, perchè parea in parte conforme a’ patti che
i Fiorentini aveano con loro. E per tanto con sollicitudine procedea il
comune, che la vittuaglia fosse apparecchiata ne’ luoghi ragionati per
li quali doveano passare, e già n’era cominciata a mandare a Dicomano.
Gli ambasciadori erano rimasi nella compagnia come il conte avea voluto
per più sicurtà di sua condotta, ma non per mandato ch’avessono dal
loro comune.

CAP. LXXIV.
_Come la compagnia fu rotta nell’alpe._
Fermata per lo nostro comune la concordia colla compagnia, come è di
sopra narrato, la compagnia di presente si mosse con bello ordine
de’ suoi capitani, e a dì 24 del mese di luglio 1358 prese albergo
nell’alpe tra Castiglione e Biforco: e come è d’uso di gente di
sì fatta maniera che male si può temperare, che come il ferro alla
calamita non corra alla preda, passando i patti e convegne si toglieano
la vittuaglia loro apparecchiata senza pagare, e se trovavano cose
non bene riposte nè in luogo sicuro ne faceano danno, oltraggiando
i paesani e di parole e di fatti. Perchè dolendosi gli offesi di
ciò, ed essendo male uditi e peggio intesi, ne presono cruccio; e
raccogliendosi insieme, nel mormorio alquanti di loro cominciarono
ragionamento e di vendetta e di ristoro di loro dannaggio, e senza
perdere tempo, s’intesono insieme quelli di Biforco fedeli de’ conti da
Battifolle, e quelli di Castiglione fedeli di quello d’Alberghettino,
e con loro s’aggiunsono alquanti di quelli della Valdilamone, e
disposonsi a loro vantaggio a luogo e tempo nel trapasso d’assalire la
compagnia, o parte d’essa, e cercare loro ventura per rifarsi di loro
danni, e vendicarsi degli oltraggi che aveano ricevuti. Quella sera
medesima che questo per li villani si cercava ciò fu detto al conte di
Lando, e avvisato che la seguente mattina gli s’apparecchiava novità:
poco mostrò averlo a calere, sapendo che poco numero essere potea, e di
gente alpigiana, e male in arnese quella che il cercasse d’offendere;
nondimanco avanti al fare del giorno avacciò sua cavalcata, e mise sua
gente in cammino, e ne fece più parti, nella prima fè cavalcare messer
Amerigo del Cavalletto, e con lui gli ambasciadori fiorentini, fuori
d’uno che ne tenne con seco, colla maggior parte di sua gente armata e
disarmata con tutta la salmeria.
I conestabili con gente d’arme avvantaggiata con loro arnese sottile
e di valuta, in numero d’ottocento a cavallo e cinquecento pedoni,
col conte Broccardo lasciò alla retroguardia e riscossa. Il cammino
ch’eglino aveano a fare, tutto che non fosse lungo, era aspro e
malagevole, perocchè venendo da Biforco a Belforte presso alle due
miglia della valle, quinci e quindi fasciata dalle ripe e stretta nel
fondo, do v’era la via, la quale si leva dopo alquanto di piano repente
ed erta a maraviglia, inviluppata di pietre e di torcimenti, e tale
passo è detto alle Scalelle, che bene concorda il nome col fatto. Il
detto luogo passò liberamente messer Amerigo con tutta sua brigata,
perchè ancora non erano giunti i villani, i quali poco appresso vi
vennono in numero d’ottanta, o in quel torno, disponendosi partitamente
ne’ luoghi dove pensarono a vantaggio e loro sicurtà potere meglio
offendere i loro nemici: e volendo uno de’ maliscalchi della compagnia
con sua brigata il detto luogo passare, fu da’ villani assalito, e con
le pietre indietro ripinto. Il conte di Lando s’avea tratto la barbuta
di testa, e mangiava a cavallo, e sentendo ciò ch’era cominciato,
subito si rimise la barbuta, e fece gridare arme; onde i villani,
che come detto è, s’erano riposti per le creste de’ colli, e nelle
ripe e balzi che soprastavano le vie, sentendo il passo impedito, si
cominciarono a mostrare per le ripe dintorno, e a voltare gran sassi,
e a gittare con mano sopra la gente del conte ch’erano nel basso del
fossato, quasi come in prigione chiusi da altissime ripe. Il conte non
spaventato nè invilito per lo subito assalto, come uomo d’alto cuore
e maestro di guerre, di subito fece smontare da cavallo circa a cento
Ungheri, e li fece montare per le ripe per cacciare i villani dalle
ripe ov’erano posti colle frecce e colle grida: ma poco li valse,
perocchè i villani ch’erano ne’ luoghi avvantaggiati e sicuri, e
soprastanti assai a quelli dove gli Ungheri in uosa, e gravi di loro
armi e giubboni non poteano salire, colle pietre n’uccisono alquanti,
e gli altri cacciarono a valle. E stando il conte e’ suoi nel romore
e travaglio, colle difese che le sue genti poteano fare nel luogo
stretto e malagevole, dove poco poteano mostrare loro virtù, una gran
pietra mossa nella sommità del monte da parecchi villani, scendendo
rovinosamente percosse il conte Broccardo, e lui e ’l cavallo ne portò
nel fossato, e uccise; e per simile modo molti e morti e magagnati
ne furono. Veggendo i villani che già erano scesi alle spalle de’
cavalieri in luogo che li poteano fedire colle lance manesche, che
i cavalieri per la morte di molti di loro erano inviliti, e per la
strettezza di loro da non si potere ordinare a difesa, nè per niuno
modo abile atare, scesono con loro alle mani; e uno fedele del conte
Guido con dodici compagni arditamente si dirizzò al conte di Lando,
e valentemente l’assalì. Il conte colla spada fè bella difesa: alla
fine non potendo alle forze resistere, s’arrendè prigione, porgendo la
spada per la punta; ed essendo ricevuto, come s’ebbe tratta la barbuta,
uno villano d’una lancia il fedì nella testa, della quale ferita lungo
tempo dopo stette in pericolo di morte. Arrenduto il conte di Lando,
tutti i cavalieri smontarono da cavallo, e come il più presto poterono,
spogliate l’armi per essere leggieri, si diedono alla fuga, e come
ciascuno meglio potea saliano per le ripe, e per li boschi e burrati
fuggendo. Allora non solo gli uomini, ma le femmine ch’erano corse al
romore, e atare i loro mariti almeno con voltare delle pietre, gli
spogliavano, e loro toglieano le cinture d’argento, e’ danari e gli
altri arnesi: e avvegnachè assai ne fuggissono per questo modo, molti
morti ne furono, e pure de’ migliori, e assai presi, e così de’ fanti
a piè. In questo baratto si trovarono morti più di trecento cavalieri
e assai presi, e più di mille cavalli e bene trecento ronzini, e molto
arnese sottile, e robe e danari vi perderono; e benchè fossono usciti
del passo, errando molti presi ne furono nelle circostanze dagli altri
paesani che non s’erano trovati alla zuffa.

CAP. LXXV.
_Come il conte di Lando scampò di prigione._
Come volle fortuna, che per li peccati de’ popoli sovente favoreggia
coloro che a loro sono flagello di Dio, essendo il conte di Lando
preso da uno fedele e uficiale del conte Guido, il detto valente uomo
per acquistare maggior preda, essendo il conte fedito, come dicemmo,
l’accomandò a due suoi compagni: il conte vedendosi nelle mani di due
villani, temendo forte che non lo menassono a Biforco, per l’offese
di sua coscienza fatte la sera dinanzi a quelli della villa, disse a
coloro che ’l guardavano, di dare loro fiorini duemila d’oro, ed elli
lo menassono altrove ovunque a loro piacesse, e che se in questo il
servissono, li farebbe ricchi uomini. I villani conoscendo che se il
conte venisse alle mani del loro signore, che della preda e riscatto
del conte avrebbono piccola parte, si disposono a servire il conte; e
’l menarono alla donna di messer Giovanni d’Alberghettino. La donna,
non essendo ivi il marito, il fece menare a Giovacchino di Maghinardo
degli Ubaldini suo fratello a Castelpagano. Ciò sentendo il signore di
Bologna, ch’era suo intimo amico e compare, di presente vi mandò medici
e guernimenti, e lo fè medicare, e per sua operazione tanto fece, che
liberamente li fu mandato a Bologna: il quale essendo bene provveduto
e curato alla Tedesca, poco regolando sua vita, e massimamente non
prendendo guardia del vino, come fu da Bologna partito cadde in grave
infermità, nella quale più volte fu a pericolo di morte, e liberato del
male rimase in assai povero stato.

CAP. LXXVI.
_Come l’altra parte della compagnia si ridusse in Dicomano._
Essendo rotta e sbarattata la retroguardia della compagnia, come
detto avemo, messer Amerigo del Cavalletto che guidava la parte
dinanzi avendo ciò inteso, ed essendo ne’ prati verso Belforte, e
sentendosi dintorno alcuno romore sì di coloro che fuggivano come di
coloro che li seguitavano, di subito prese grande sbigottimento: e
certo e’ li bisognava, perocchè ’l conte Guido e gli altri paesani
conosceano che venuto era il tempo di potersi vendicare della
compagnia, e d’arricchire della preda loro. Ma il peccato volle che
gli ambasciadori del comune di Firenze si trovarono con loro, a’
quali, temendo di tradimento, si ristrinsono e messer Amerigo e’ suoi
caporali con minacce di tor loro la vita, se a loro fosse faltata
la promessa. Gli ambasciadori che si sentivano in lealtà, e sapeano
che ciò ch’era fatto non era stato operazione del loro comune, gli
assicurarono colle parole: e per non mostrarsi ne’ fatti dissonanti
alle parole, cominciarono a usare autorità che non era loro commessa,
e ferono comandamento a’ fedeli del conte Guido, e a molti altri
ch’erano tratti a’ passi, per parte del loro comune ch’e’ non dovessono
offendere nè danneggiare coloro cui aveano fidati il comune di Firenze,
a cui salvocondotto elli erano diputati, e ch’e’ si dovessono de’
passi levare: i quali tutti, contro a loro intenzione e volere, per
reverenza del nostro comune si levarono dall’impresa. Perchè quelli
della compagnia ch’erano vogliosamente avanti passati affrettarono di
tornare alla schiera, e tutti insieme stretti avacciarono il cammino,
e per le strette vie delle piagge in quel dì si ridussono in Dicomano,
e ivi con botti e altro legname senza perdere tempo s’abbarrarono il
meglio poterono: e conoscendo il pericolo dove erano ridotti, stavano
tutti muti e smarriti alla speranza degli ambasciadori. E nel vero elli
aveano da temere per l’avviso che loro subitamente fu fatto, che ’l
nostro comune avea in quelli stretti passi più di dodicimila pedoni,
de’ quali i quattromila erano balestrieri scelti tra gli altri, e circa
a quattrocento cavalieri, che tutto che temessono il nostro comune, più
ridottavano i villani dell’alpe che li aveano assaggiati.

CAP. LXXVII.
_Come il comune di Firenze procedette ne’ fatti della compagnia._
I rettori del nostro comune avuta la novella della detta rotta, e
di coloro ch’erano rinchiusi in Dicomano, e inteso come contro a’
patti i loro dinanzi aveano scorso infino a Vicchio, e le some del
pane ch’erano a Dicomano aveano rubate, e tolti i muli, e fediti
de’ vetturali; avendo mescolatamente queste novelle senza altro
avviso de’ loro ambasciadori, conoscendo che la materia richiedea
tostano consiglio e partito, di presente feciono consigli di numero
di richiesti in gran quantità, nel quale furono molti notabili e
savi cittadini, e consigliato sopra la materia, di grande concordia
diliberarono, che i passi si tenessono per modo ch’e’ non entrassono
sul nostro contado, e che non si desse loro niuno fornimento, nè si
vietasse ad alcuno la loro offesa: e di presente si mandò per tutto il
contado, che là si traesse d’ogni parte per non lasciarli passare. Il
comandamento fu per li contadini subito adempiuto, perocchè gran voglia
avea il popolo di levare di terra quella maladetta compagnia; ma benchè
traesse il contado di gran volontà, mancaronli per mala provvisione
capitani e conducitori, e nondimeno presono i passi, e stavano con
grande appetito di cominciare la zuffa. E se fatto si fosse, come fare
si potea e dovea, in Dicomano senza rimedio si spegnea il nome della
compagnia per lungo tempo in Italia.

CAP. LXXVIII.
_Il fine ch’ebbe l’impresa de’ Fiorentini._
Se necessità non fosse imposta, poichè preso abbiamo la cura di
scrivere, volentieri taceremmo per onore del nostro comune quello
ch’al presente n’occorre a narrare; ma considerato che per li
simili accidenti che nel futuro possono occorrere, quelli che per
li tempi saranno a provvedere allo stato e onore del nostro comune
possano prendere avviso, e riparare alle disordinate baldanze de’
suoi cittadini, che passano talora e gli ordini e quello ch’è loro
imposto per lo nostro comune, ci conduciamo a scrivere. Noi dicemmo
poco appresso di sopra l’utile e savia diliberazione che prese il
nostro comune contro al resto della compagnia ch’era in Dicomano, la
quale ebbe vere e giuste cagioni, della quale erano uscite lettere
a’ conti Guidi e agli altri circustanti a que’ luoghi amici del
nostro comune, e per lo contado molte n’erano andate, e più per segno
di nostro comune. Il podestà era in que’ paesi stato mandato uomo
bolognese, e di sì poca virtù, che non pensiamo che meriti d’essere
qui nominato. Gli ambasciadori ch’erano con messer Amerigo, di subito
mandarono in Firenze l’uno di loro per volere liberare la compagnia
di coscienza del nostro comune; il perchè di nuovo e di maggiore
numero si fece consiglio di cittadini, nel quale l’ambasciadore con
belle dimostrazioni s’ingegnò di ottenere che la compagnia fosse
posta in luogo sicuro, non facendo ricordo che per gli ambasciadori
fosse preso partito di così fare; nel detto consiglio si prese e fermò
quello ch’era stato ne’ primi. L’ambasciadore era di tanta autorità
e podere, che a richiesta sua i priori ebbono tre altri consigli,
cercando in essi il consentimento di quello ch’egli e’ compagni suoi
presontuosamente aveano diliberato; in effetto in tutti si prese di
concordia quello che dinanzi negli altri era stato fermato; e ciò
fatto, si cominciò a dare ordine all’offesa di coloro cui il comune
avea diliberato che fossono nimici, e ciò fu pubblicato per tutto.
La compagnia era stretta in Dicomano in forma e per modo che tre dì
vivere non vi poteano, e circondata era intorno in maniera, che se non
volassono, partire non si poteano. I colli sopra la Sieve erano presi
pe’ balestrieri fiorentini, e fatte erano grandi tagliate a’ passi dove
l’uscite erano più larghe, ed erano bene guardate; e oltre al grande
numero de’ pedoni ch’erano nel paese mandati per lo comune, e che per
volontà v’erano tratti, v’avea quattrocento cavalieri, de’ quali era
capitano uno broccardo Tedesco antico conestabile del nostro comune,
il quale conoscendo il pericolo dov’era la compagnia, non servando
suo giuramento, con alcuno caporale andò in Dicomano, e ristrettosi
con messer Amerigo e’ suoi caporali presero insieme consiglio, il
quale fu segreto, ma per effetti s’intese, al quale si credette che
participassono gli ambasciadori, per avere di loro concetto e promessa
la scusa, di presente gravi minacce fur fatte agli ambasciadori, e
intra l’altre di torre loro vita se si trovassono di loro promessa
gabbati; appresso delle quali fu detto, e offerto di largo, che voleano
fare ciò che volesse il comune, e per osservanza voleano dare stadichi;
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