Cronica di Matteo Villani, vol. 4 - 01

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CRONICA
DI
MATTEO
VILLANI

A MIGLIOR LEZIONE RIDOTTA
COLL’AIUTO
DE’ TESTI A PENNA
TOMO IV.

FIRENZE
PER IL MAGHERI
1825


LIBRO OTTAVO

CAPITOLO PRIMO.
_Il Prologo._
Avvegnachè antica questione sia stata tra’ savi, nondimeno la mente
nostra s’è affaticata in ricercare gli esempi degli autori d’ogni tempo
per avere più chiarezza, quale sia al mondo di maggiore operazione,
o la potenza dell’armi nelle mani de’ potentissimi duchi e signori
senza la virtù dell’eloquenza, o la nobile eloquenza diffusa per
la bocca de’ principi con assai minore potenza; e parne trovare,
avvegnachè il mio sia lieve e non fermo giudicio, che l’eloquenza abbi
soperchiata la potenza, e fatte al mondo maggiori cose; e l’eloquenza
di Nembrot, ammaestrato da Gioniton suo maestro, raunò d’oriente
tutta la generazione umana in un campo a edificare la torre di Babel;
la confusione della lingua mise la loro forza e la loro opera in
distruzione. Serse volendo occupare la Grecia coprì il mare di navi,
e il piano e le montagne d’innumerabili popoli; la leggiere forza
di Leonida, con cinquecento compagni inanimati dall’ammaestramento
dell’eloquenza di quello uomo, fece sì incredibile resistenza a quello
sformato esercito, che a’ Greci diede speranza di vincerlo, e al
re volontà con pochi de’ suoi di ritornare indietro. Alessandro di
Macedonia con piccolo numero di cavalieri infiammati dall’informazione
della compiacevole lingua di colui, vinse le infinite forze di Dario
e’ suoi tesori. I nobili principi romani più per savio ammaestramento
della disciplina militare, che per arme o per forza di loro cavalieri
domarono l’universo. E cominciando a Tullio Ostilio re de’ Romani,
condotto in campo per combattere co’ Toscani, vedendosi in su gli
estremi abbandonato e tradito da’ compagni, e preda de’ nemici, tanta
virtù ebbe la sua provveduta ed efficace eloquenza nel confortare i
suoi con fitte suasioni, ch’e’ li fece vincitori. E che fece il nobile
Scipione affricano? Non rimoss’egli con la virtù della sua lingua
il malvagio consiglio de’ senatori, che per paura voleano ardere e
abbandonare la città di Roma, e per questo vinse e soggiogò Affrica
al romano imperio? Il magnifico Cesare con poca compagnia, a rispetto
della moltitudine de’ suoi nemici, potendosi arbitrare in Francia,
in Borgogna, in Sassonia e in Inghilterra molte volte preda de’ suoi
avversari, per l’ammaestramento e conforto della sua voce tante volte
vinse i nemici forti e potenti, che li ridusse sotto la sua libera
signoria. Che si può dire di questo, quando con un pugno di piccolo
fiotto di cavalieri, per lo suo conforto domò e sottomise tutte le
nazioni del mondo in un campo a Tessaglia? Ma tornando alle minori
cose, Zenone filosofo vecchio, posto in croce miserabilmente a gran
tormento, usando la forza della sua magnifica eloquenza, fece abbattere
la sfrenata e gran potenza del tiranno siracusano. Dunque chi commuove
i popoli chi apparecchia le grandi schiere, se non la eloquenza
risonante negli orecchi degli uditori? E però senza comparazione pare,
che l’eloquenza ordinata al bene più giovi che l’armi, e indotta al
male più nuoce che altra cosa. E perocchè il nostro trattato per debito
ci apparecchia di fare comincia mento all’ottavo libro, uno lieve e
piccolo esempio per lo fatto, ma assai strano e maraviglioso per lo
modo, prima ci s’offera a raccontare.

CAP. II.
_Chi fu frate Iacopo del Bossolaro, e come procedette il suo nome, e le
sue prediche in Pavia._
Era in questi tempi nato in Pavia un giovane figliuolo d’un picciolo
artefice che facea i bossoli, il quale nella sua giovinezza entrò nella
via della penitenza, e abbandonato il secolo, traeva vita solitaria
in alcuno romitorio nel deserto. È vero, che per essere a ubbidienza
prese l’abito de’ frati romitani, e chiamavasi frate Iacopo Bossolaro.
E avendo costui gran fama di santità e di scienza, fu costretto dal
suo ministro di ritornare in Pavia, e di stare nella religione, e ivi
tenea vita più solitaria e di maggiore astinenza che gli altri del
convento. Avvenne, che venendo il tempo della quaresima, ed essendo
consuetudine di fare il primo mercoledì della quaresima nella sala del
vescovo uno sermone al popolo, fu commesso a questo frate Iacopo, il
quale il fece in tanto piacere del popolo, che fu costretto a predicare
tutta la quaresima. E come fu piacere di Dio, questo religioso facea le
sue prediche tanto piacere a ogni maniera di gente, che la fama e la
devozione cresceva maravigliosamente per modo, che molti circustanti
delle terre e delle castella traevano a udire le prediche di frate
Iacopo. Ed egli vedendo il concorso della gente, e la fede che gli era
data, cominciò a detestare i vizi, e massimamente l’usura, e l’endiche,
e le disoneste portature delle donne, e appresso cominciò a dire molto
contro la disordinata signoria de’ tiranni; e in poco tempo ridusse le
donne in genero a onesto abito e portamento, e gli uomini a rimanersi
dell’usure e dell’endiche. E continovando le sue prediche contro alla
sfrenata tirannia, e avendo, come addietro è detto, per lo suo conforto
fatto pigliare l’arme al popolo a sconfiggere quelli delle bastite,
per la qual cosa le sue parole aveano tanta efficacia, che i signori da
Beccheria, ch’erano allora signori di Pavia, cominciarono a ingrossire
delle parole ch’egli usava in genero contro a tutti i tiranni. E allora
erano signori messer Castellano e messer Milano. Costoro cercarono
segretamente di farlo morire per più riprese, tanto che la cosa gli
venne palese, e’ cittadini ne cominciarono ad avere guardia, e dovunque
andava l’accompagnavano, per modo che i signori nol poteano offendere,
ed egli per questo più apertamente contro alle crudeltà già fatte per
costoro predicava, e incitava il popolo alla loro franchigia.

CAP. III.
_Come frate Iacopo fece tribuni di popolo nelle sue prediche in Pavia._
Il valente frate, sentendo il popolo disposto a seguire il suo
consiglio, avendo alcuno consentimento dal marchese di Monferrato
vicario dell’imperadore in Pavia, raunato un dì il popolo alla sua
predica, avendo molto detto contro alle scellerate cose, e’ vizi
che regnano nelle tirannie, e aperto l’aguato che alla sua persona
più volte era fatto per li tiranni da Beccheria per torgli la vita,
disse, che la salute di quel popolo era che si reggessono a comune,
e sopra ciò ordinò molto bene le sue parole. E stando in sul pergamo,
nominò venti buoni uomini di diverse contrade della città, e a catuno
disse, che volea ch’avesse cento uomini al suo seguito; e de’ detti
venti fece quattro capitani di tutti. E com’egli gli ebbe pronunziati
nella predica, così il popolo li confermò con viva boce, ed eglino
accettarono l’uficio. Sentendo questo i signori, furono sopra modo
turbati, e cercarono con forza d’arme d’uccidere il frate, ma il popolo
gli ordinò sessanta cittadini armati alla guardia; e per tanto que’ da
Beccheria, temendo più la commozione del popolo che degli armati, non
si vollono mettere a berzaglio. In questi dì messer Castellano era col
marchese, e volendo per questa novità tornare a Pavia, non potè avere
la licenza da lui. E questo manifesta assai, che ’l marchese fosse
consenziente a quello ch’era fatto per lo Bossolaro.

CAP. IV.
_Come frate Iacopo cacciò i signori da Beccheria di Pavia._
Dopo questi centurioni fatti in Pavia, del mese di settembre anno
detto, messer Milano, ch’era in Pavia, con assentimento del fratello,
vedendosi tolta la signoria, cercava segretamente di dare la città
a’ signori di Milano. Frate Iacopo, che stava attento, sentì il
fatto, e di presente raunò il popolo alla sua predica, e in quella
disse molto contro il malvagio peccato del tradimento. Ed essendo
già di ciò sospetti al popolo i signori, e chiariti per la predica
del Bossolaro, il detto frate comandò d’in sul pergamo a uno de’
centurioni, ch’andasse a messer Milano, e comandassegli, che di
presente si partisse della città e del contado di Pavia. Il signore
temendo il furore del popolo ubbidì, e spacciò la città della sua
persona e di tutta sua famiglia in quel giorno, e andossene a loro
castella. Avvenne poco appresso, che essendo morta la moglie del
marchese, ed egli imbrigato nell’esequio, messer Castellano prese suo
tempo, e partissi senza licenza, e vennesene al fratello; e come furono
insieme, diedono le castella a’ signori di Milano, e ricevettono quella
gente d’arme ch’e’ vollono, e rifeciono trattato co’ loro amici della
città, pensando colla forza de’ signori di Milano rientrare in Pavia;
il trattato si scoperse, e tutto il rimanente di que’ da Beccheria
furono cacciati della città, e furono presi cento cittadini degli
amici de’ signori, e di loro quelli che più furono trovati colpevoli ne
furono dodici decapitati, tra’ quali furono cinque giudici e avvocati
servidori de’ signori, gli altri furono liberi a volontà del popolo e
di frate Iacopo, e la terra riformata a popolo, e ribanditi tutti gli
usciti guelfi, e nominatamente il conte Giovanni e ’l conte Filippo,
e’ loro figliuoli e discendenti, che quarantasei anni erano stati di
fuori cacciati da’ tiranni da Beccheria. E come che ’l reggimento
fosse a popolo assai bene ordinato, niente si facea che montasse
senza il consiglio di frate Iacopo; e nondimeno il frate osservava
onestamente la sua religione, e infino allora l’avea trenta anni usata
con laudevole vita. Chi può stimare il fine delle cose, e la varietà
delle vie della volubile fortuna? La signoria da Beccheria non potuta
sottomettere dalla gran potenza de’ signori di Milano, nè da molte
guerre sostenute, prese fine per le parole d’un piccolo fraticello: ma
che più? quella città credendosi essere sciolta dalla servitù de’ suoi
cittadini e tornata in libertà, poco appresso fu sottoposta a più aspro
giogo di tirannia, come leggendo innanzi si potrà trovare.

CAP. V.
_Della materia medesima._
Erano in questo tempo i signori di Milano intenti con tutto loro sforzo
e studio sopra l’assedio della città di Mantova, e però il marchese di
Monferrato andò a Pavia con milledugento barbute e quattromila fanti, i
quali improvviso a’ signori di Milano cavalcarono il Milanese; e posono
loro campo presso alle porte di Milano; e questo feciono avvisatamente,
sapendo che gente d’arme non era nella città, e acciocchè quelli
di Pavia ch’aveano perduto il vino, per l’assedio e per le bastite
ch’aveano avuto addosso, il ricoverassono sopra il contado di Milano,
e così fu fatto; che stando quella gente a campo come detto è, frate
Iacopo Bossolaro in persona uscì di Pavia con tutta la moltitudine del
popolo, uomini, e femmine, e fanciulli con tutto il carreggio della
città e del contado, e con tutti i somieri e vasella da vendemmiare, e
misonsi nelle vigne de’ Milanesi, e in un dì vendemmiarono e misono in
Pavia diecimila vegge di vino senza alcuno contasto, e catuno n’andò
carico d’uve; e questo avvenne, ch’e’ tiranni sentendosi poche genti
temettono di loro persone, e però non vollono uscire della città.
Il marchese con la sua gente veduta fatta la vendemmia, e ’l popolo
raccolto a salvamento, saviamente levò il campo, e messosi innanzi il
popolo e la salmeria, del mese d’ottobre del detto anno, sano e salvo
si tornò in Pavia, con grande vergogna de’ superbi tiranni.

CAP. VI.
_Come per più riprese in diversi tempi fu messo fuoco nelle case della
Badia di Firenze._
Avvegnachè vergogna sia mettere in nota quello che seguita, tuttavia
può essere utile per l’esempio il male che seguita della discordia
de’ religiosi. La Badia di Firenze avea undici monaci in questo tempo
senza abate, perocchè l’insaziabile avarizia de’ prelati avea questo
monistero conferito alla mensa del cardinale che fu vescovo di Firenze,
messer Andrea da Todi; costui traeva il frutto, e’ monaci rimanevano
senza pastore; e presono a fitto dal cardinale la rendita, che ne
fece loro buono mercato, per fiorini mille d’oro l’anno, acciocchè il
monastero si mantenesse a onore. I monaci erano uomini senza scienza
e di lievi nazioni, e intendea catuno alla propria utilità, e del
monistero non si curavano, e ’l nimico co’ suoi beveraggi gl’inebriava
per modo, che tra loro era tanta invidia e tanta discordia, che nè
dì nè notte vi si potea posare. E come che s’andasse, cominciando di
questo mese d’ottobre, in sei mesi appresso quattro volte fu messo
fuoco nelle case della Badia, e non si potè sapere certamente per cui,
ma da’ monaci della casa per la loro dissensione si tenne per tutti
che fatto fosse. Il primo dì d’ottobre arse la sagrestia e le case del
dormentorio infino alla volta della via del Garbo; e un altro ve ne fu
messo poco appresso, che avvedendosene tosto fu spento senza troppo
danno, e così un altro dopo quello. E la notte di nostra Donna di
marzo ne fu messo uno nella casa di costa al palagio, il quale l’arse
tutta, e avrebbe arse quelle di san Martino, che l’erano congiunte, se
non fosse il gran soccorso, ma molto danneggiò le case e’ mercatanti
lanaiuoli ch’ebbono a sgombrare. Questa malizia benchè movesse da
singulare persona, tutta si può dire che procedesse dalla sopraddetta
avarizia de’ maggiori prelati, che per empiere le loro disordinate
mense levano i pastori alle chiese cattedrali, e per questo le gregge
si dispergono, e diventano pasto de’ rapaci lupi.

CAP. VII.
_Come la terra di Romena si comperò per lo comune di Firenze._
Era lungo tempo stata questione tra ’l conte Bandino di monte Granelli
e Pietro conte di Romena della terra e della rocca di Romena, e in
questi dì era per compromesso la questione in mano del conte Ruberto
da Battifolle, il quale si dicea ch’avea aggiudicata, o ch’era per
aggiudicare Romena al conte Bandino contro alla volontà del conte
Piero; per la qual cosa Piero ricorse al comune di Firenze, e con
molta sollecitudine e grandi preghiere indusse i collegi, che ’l comune
comperasse la sua parte di Romena per fiorini tremilacinquecento d’oro;
e diliberato questo per li collegi, si mise al consiglio del popolo, e
per due volte si combattè la detta proposta nel consiglio, e perocchè
ai popolo non piacea l’impresa furono in discordia; in fine i priori
e’ collegi aoperarono tanto che la proposta si vinse, e fu diliberato
pe’ consigli ch’a Piero conte fossono dati tremilacinquecento fiorini
d’oro delle ragioni ch’avea in Romena. Ed essendo la terra e la rocca
nelle mani del conte Bandino, ed egli allora in bando del comune di
Firenze, il qual bando falsamente gli diede un suo nemico da Calvoli
quand’era podestà di Firenze, ed egli per isdegno, o per altro, non
s’era procacciato a farlo rivocare, e per questo il comune diliberò,
o per amore o per forza di volere avere la tenuta delle sue ragioni.
Sentendo Bandino conte l’impresa determinata per lo comune di Firenze
de’ fatti di Romena, mandò per sicurtà di potere venire a’ signori,
e avutala, fece co’ signori raunare i collegi, e in loro presenza
disse, come Romena era sua per chiara sentenza, e quella tenea e
possedea; e sentendo che ’l comune avea l’animo di volerla, niuno
la potea meglio dare di lui, e in grande grazia si tenea di donarla
al comune di Firenze, di cui si riputava figliuolo e servidore; e
non tanto Romena, ma tutte l’altre sue terre volea dare liberamente
al comune di Firenze, e per lo comune l’avea tenute, e intendea di
tenere sempre. Le profferte furono tanto libere e graziose, che di
presente impetrò grazia d’essere ribandito, e messo in protezione del
comune, e d’essere fatto suo cittadino. E non volendo il comune le sue
ragioni in dono, non potè essere recato a porvi alcuno pregio. Infine i
signori con discreto consiglio ordinarono, che al detto Bandino fossono
dati contanti cinquemila fiorini d’oro, de’ quali e’ si tenne molto
contento, e di presente fece liberamente la carta della vendita della
terra di Romena, e de’ fedeli e di tutta la giurisdizione ch’avea in
quella, come pochi dì innanzi avea fatto Piero conte della sua parte, e
a dì 23 d’ottobre anno detto, per li consigli del comune fu ribandito,
e fatto cittadino di Firenze, e a dì 28 del detto mese ebbe contanti
fiorini cinquemila d’oro, avendo il dì dinanzi fatta dare la tenuta
della terra e della rocca al comune di Firenze. E le carte della detta
compera di Romena si feciono per ser Piero di ser Grifo da Pratovecchio
notaio. Da’ detti conti il comune liberò i fedeli e feceli contadini,
e diè loro l’estimo e le gabelle come agli altri e la cittadinanza, e
feceli popolari; onde molto furono allegri e contenti, e ripararono i
difetti del castello.

CAP. VIII.
_Come la compagnia di Provenza si sparse per vernare._
La compagnia dell’arciprete di Pelagorga, stata lungamente in Provenza,
era cresciuta in più di quattromila barbute. Il papa e’ cardinali
aveano cerco con preghiere di farli partire del paese; e non avea
avuto luogo. Ma sapendo come la maggiore parte di quella gente era del
reame di Francia, impetrarono lettere e comandamento da parte del re di
Francia, come si dovessono partire delle terre di Provenza ch’erano del
re Luigi, il qual’era di suo lignaggio, e congiunto parente. Le lettere
e ’l comandamento furono ubbidite come da prigione, e di presente si
ridussono in più parti di Provenza per vernare; e così tribolarono
il verno come la state tutta la provincia. E per questo i Provenzali
mandarono al re loro signore, che li venisse a soccorrere con forte
braccio, altrimenti e’ non potrebbono sostenere.

CAP. IX.
_Come la compagnia del conte di Lando fu condotta per i collegati di
Lombardia._
L’altra compagnia in Italia dimorando in sul terreno di Bologna,
ricettati da messer Giovanni da Oleggio ch’allora era signore, e
per sicurtà di sè s’era fatto amico del conte di Lando e degli altri
caporali di quella; e com’è narrato poco addietro, i signori di Milano
aveano presa la Serraia di Mantova, e fortemente stretta la città
d’assedio, e quivi faceano ogni punga per vincerla. Gli allegati
lombardi contro a loro cercavano la difesa, la quale non si potea fare
senza gran forza, che lungamente si potesse mantenere: e però diedono
ordine alla moneta che catuno dovesse pagare ogni mese, e fu stribuita
per questo modo: che Bologna pagasse come detto è fiorini dodicimila, e
’l marchese di Ferrara fiorini ottomila, e’ signori di Mantova fiorini
tremila, il comune di Pavia fiorini duemila, quelli di Novara duemila,
i Genovesi coll’aiuto segreto ch’avea il doge loro da’ Pisani fiorini
quattromila; il signore di Verona allora si stava di mezzo e quello
di Padova; il marchese di Monferrato non ebbe a conferire moneta,
perocch’era capitano in Piemonte, e là facea guerra colla sua gente;
e trovata la moneta, di presente soldarono la compagnia del conte di
Lando, e del mese d’ottobre sopraddetto la feciono partire d’in sul
Bolognese con più di tremila barbute e con tutta l’altra ciurma, e
parte ne misono sul Mantovano, e parte ne mandarono in Vercellese,
accozzati coll’altra loro masnada. Quello che di ciò seguì appresso al
suo tempo racconteremo.

CAP. X.
_Come il re Luigi richiese i comuni di Toscana d’aiuto._
Il re Luigi, vedendo a mal partito il contado di Provenza, diliberò
col suo consiglio d’andare in persona al primo tempo in Provenza con
tutto suo sforzo e degli amici, per liberarla dalla compagnia, e però
richiese tutti i suoi baroni del debito servigio, e ordinò d’avere
moneta e di fare alcuna armata; e del mese di novembre anno detto mandò
per suoi ambasciadori a richiedere i Fiorentini d’aiuto, e tutti gli
altri comuni di Toscana. Il nostro comune diliberò di darli l’insegna
del comune con trecento buoni cavalieri in fino ch’avesse cacciata la
compagnia di Provenza, gli altri comuni feciono la loro profferta più
lieve, e chi se ne diliberò con altra scusa.

CAP. XI.
_Come i Pisani feciono armata per rompere il porto di Talamone._
Avvedendosi i Pisani ch’e’ Fiorentini per preghiere, nè per promesse
larghe, nè per minacce, nè per armata ch’avessono fatta in lega col
doge di Genova per impedire la mercatanzia che non andasse a Talamone,
non si moveano, e che pertinacemente ne portavano ogni sconcio e ogni
gravezza, pensarono di volere vincere Talamone per forza, e ardere
la terra e guastare il porto, e mandaronvi subitamente e per terra e
per mare a fare quel servigio, avendo armate otto galee e uno legno
alla guardia che mercatanzia non andasse a Talamone; ed essendo
apparecchiati in mare, s’apparecchiarono di cavalieri e di masnadieri
e d’argomenti per combattere la terra, e di vittuaglia. I Fiorentini
sentendo questo, avvisarono i Sanesi, e di presente mandarono per terra
assai gente da cavallo e da piè e di molti balestrieri a Talamone,
per potere difendere la terra per mare e dall’oste per terra; i
Sanesi anche vi mandarono loro sforzo. I Pisani vi mandarono l’otto
galee e un legno per mare, e mosso la cavalleria e ’l popolo pisano
per terra, sentirono come il loro aguato era scoperto, e come gente
d’arme da Firenze e da Siena erano andati a Talamone per azzuffarsi
con loro, sicchè per lo migliore si tornarono addietro; e le galee
vedendo fornito il porto di cavalieri e di balestrieri, non ardirono
d’accostarsi alla terra, e stati alquanti dì sopra il porto, del mese
di novembre anno detto lasciarono a Gilio due galee, che ogni navilio
che venisse a Talamone fosse menato a scaricare a Porto pisano. Per
questa cagione i Fiorentini più accesi contro a’ Pisani per li loro
oltraggi, ordinarono di fare armata in mare, per fare ricredenti i
Pisani della loro arroganza; onde seguitarono assai gran cose, come
appresso nel suo tempo racconteremo.

CAP. XII.
_Come essendo l’oste de’ Visconti a Mantova, parte della compagnia si
mise in Castro._
Essendo l’oste de’ signori di Milano stretta a Mantova, e non movendosi
per la venuta della compagnia, nè per la guerra del Piemonte, i
collegati mandarono mille barbute e cinquecento masnadieri in sul
contado di Milano a un grosso casale che si chiama Castro, sedici
miglia di piano presso a Milano, ed entrativi dentro, lo trovarono bene
fornito da vivere, e di là cavalcarono il paese sino presso a Milano,
facendo a’ contadini gran danno, e a’ signori maggior vergogna. L’altra
parte della compagnia s’accostò in Vercellese colla gente del marchese,
e tolsono a’ signori di Milano parecchi castella: e per questo modo,
non potendo levare l’oste da Mantova, guereggiavano i tiranni dove
potevano. I signori di Milano aontati da’ cavalieri di Castro, ch’erano
pochi, e in su gli occhi loro, di subito gli feciono assediare con
intenzione che niuno ne campasse, ma d’avergli a man salva, e di
fargli tutti impendere per la gola, e però non li lasciavano partire.
Ma la cosa ebbe tutto altro fine, come nel suo tempo innanzi si potrà
trovare.

CAP. XIII.
_Come la Chiesa di Roma fe’ gravezza a’ cortigiani._
Avvegnachè lieve cosa sia per lo fatto, la disusata e strana materia
ci strigne a fare memoria, come il papa e’ cardinali contro all’usata
franchigia della corte di Roma, rompendo quella, per volere riparare
le città d’Avignone, e fare guardare la terra per tema della compagnia
di Provenza, non volendo toccare i danari di camera, feciono imposta
a’ mercatanti e agli artefici ben grave, e di presente l’esazione.
E misono la gabella al vino, e un’altra più grave di fiorini uno per
testa d’uomo, e ordinarono gli esattori, e riscossonne parte, ma era
sì incomportabile alla minuta gente, che poco andò innanzi. L’avarizia
de’ prelati, e la franchigia rotta a’ cortigiani, fece di questo molto
maravigliare ovunque se ne seppe le novelle, e maggiormente, perchè la
città è della Chiesa. La gabella del vino e altre gravezze rimasono in
piè, in poco onore de’ guidatori della città di Roma

CAP. XIV.
_Cominciamento di guerra tra certi comuni in Toscana._
Era stata, dopo la partita dell’imperadore da Pisa, tutta Toscana in
tranquillo stato, e alcuna volta in lega tutti e quattro i maggiori
comuni, e non si dimostrava alcuna apparenza di cagione di guerra.
E’ Fiorentini erano fermi di mantenere il porto a Talamone senza
cominciare guerra, o mostrare che rotta fosse loro da’ Pisani. I
Perugini trovandosi in prosperità, e forti di gente d’armi, non
ostante ch’avessono doppia pace col comune e col signore di Cortona,
la prima fatta per proprio movimento del loro comune, innanzi a
quella generale che si fece coll’arcivescovo di Milano, e co’ suoi
collegati e aderenti, alla quale prima richiesono il comune di Firenze,
che entrasse loro mallevadore al comune e al signore di Cortona di
diecimila marche d’oro, che manterrebbono la pace lealmente, e ’l
comune fece un sindaco a potere fare il sodamento e la promessa, e
così fece; e’ Perugini, istigati da Leggiere d’Andreotto loro grande
cittadino, il quale promettea di dare loro la terra per trattato
ch’egli avea dentro, di subito del mese di dicembre anno detto,
con quattrocento cavalieri e con gran popolo vennero a Cortona, e
guastaronla intorno, e poi si posono all’Orsaia, e non si trovò che
trattato vi fosse dentro. L’impresa fu rea, e mossa da gran malizia
per animo di setta, e non ebbe il fine che s’aspettava per i Perugini,
ma fu cagione di gravi cose in Toscana, come seguendo nostro trattato
diviseremo.

CAP. XV.
_Di certe novità apparenti contro il soldano d’Egitto._
Aspettandoci alquanto le novità de’ cristiani, ci occorrono di quelle
de’ saracini; e per meglio intendere le presenti, ci conviene alquanto
trarre addietro la nostra materia. Quando morì il Saladino, uomo
valoroso di virtù e di prodezza, e molto temuto e ridottato signore,
e accrebbe la sua signoria, quando venne a morte lasciò quattordici
figliuoli maschi, e ’l maggiore fu fatto soldano; ma i suoi ammiragli
avendo provato la signoria del padre dura e ridottabile, volendosi
maliziosamente provvedere, s’intesono insieme; e come il soldano non
faceva a loro senno, l’avvilivano di parole nel cospetto del secondo
fratello, e prometteano di farlo soldano se consentisse la morte sua;
e tanto procedettono nella loro malizia, con inducere la vaghezza
della signoria ora all’uno fratello e ora all’altro, che in spazio
di venti anni già otto soldani di quelli fratelli avean fatti morire
l’uno appresso l’altro; e per questo gli ammiragli aveano accresciuto
loro stato e loro baronie, e abbassato quello del soldano, per modo che
poco era ubbidito; e nel 1357 de’ quattordici figliuoli del Saladino
ve n’erano rimasi due, l’uno soldano male ubbidito. E per questo
abbassamento della signoria in questi dì s’era sommosso un signore de’
Tartari, il quale si disse che s’era convertito alla fede di Cristo per
certi frati minori, il quale s’apparecchiò con grande esercito di sua
gente, e con molti cristiani giorgiani, per volere venire a racquistare
la terra santa; e innanzi mandò lettere al soldano comandandoli, che
dovesse a’ suo saracini fare sgombrare la terra santa. Il soldano
e’ suoi ammiragli di queste lettere si feciono beffe, e ordinarsi
dov’e’ venisse di mettersi alla difesa. L’impresa dilatò la fama, ma
il signore, o ch’e’ non fosse in perfetta fede, o in tanta potenza,
raffreddato dell’impresa non seguì suo viaggio.

CAP. XVI.
_Come il re di Navarra fu tratto di prigione._
Essendo i trattati della pace e le triegue dal re d’Inghilterra a’
Franceschi, non ostante ciò, messer Filippo di Navarra, mostrando
d’avere accolta gente da sè, e avea molti Inghilesi in sua compagnia,
era entrato in Normandia, e facea là e in altre parti del reame più
aspra guerra che mai non aveano fatto gl’Inghilesi, e molto tormentava
i Franceschi, dicendo, ch’a torto teneano il re suo fratello in
prigione. E per questa tribolazione del paese, e perchè il re avea
amici tra i tre stati che governavano il reame, i prelati, i baroni,
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