Cronica di Matteo Villani, vol. 4 - 08

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Se bene si cercheranno le nostre scritture, e metterassi incontro tra
le ree e buone fortune, troppo avanzeranno le sinistre le felici e
avventurose, che appena si troverà non dirò uno mese dall’anno, ma uno
dì solo, che tra’ cristiani, in qualche parte della terra che per loro
si possiede, qualche pessima cosa e degna di nota surta non sia. Noi
avemo per più riprese poco addietro parlato delle travaglie de’ nostri
paesi e parte di quelle de’ Franceschi, e se intra esse fosse stato
punto di tempo quieto o tranquillo; quello medesimo è stato negli altri
paesi pericoloso e turbato, perocchè ne’ detti tempi sono mescolate
le volture della Cicilia, la quale quasi del tutto divisa, e piena di
scandali e di riotte, in continove guerre sboglientate, l’una parte
e l’altra perseguitata con quello poco di gente che loro era rimasa,
con guerra sanguinente e mortale, quelli di Messina si sono fatti
capo di parte, e così hanno fatto quelli di Catania, senza redenzione
offendendo l’uno l’altro, perchè n’è seguito gran danno di persone con
piccolo vantaggio, e senza notabile acquisto o d’una o d’altra parte.

CAP. CVII.
_Del male stato del reame di Francia._
Il paese di Francia dopo la morte del proposto de’ mercatanti, e de’
suoi compagni e seguaci, non prese alcuna fermezza di buono stato,
ma per contrario si ritrovò in grande confusione, che il Delfino
non era amato nè ubbidito come signore nè dal popolo nè da’ baroni,
e non ostante che lo tenessono per loro capo, poco era grazioso nel
cospetto de’ grandi e de’ piccoli; e oltre a ciò per li trattati già
scoperti stava in sospetto e paura, e per questa cagione poco potea
provvedere, e meno atare il paese da’ suoi nemici. D’altra parte il re
di Navarra si mantenea di fuori correndo e predando intorno a Parigi e
altre ville circustanti senza trovare contasto fuori che delle mura, e
continovamente sua gente cresceva d’Inghilesi, e sì di gente paesana
pronta e disposta a mal fare; e per questo si scorse il paese, che
fuori di Parigi e d’altre città e fortezze di Francia non si potea
andare, che gli uomini non fossono presi. Il Delfino, come detto è di
sopra, non potendo a tanto male porre rimedio, e temendo di tradimento,
il quale poco appresso si scoperse, stava a riguardo, e aspettava si
mutasse fortuna.

CAP. CVIII.
_Di mortalità d’Alamagna e Brabante._
Essendo ancora il braccio di Dio disteso sopra i peccatori non corretti
nè ammendati per li suoi terribili giudicii a tutto il mondo palesi,
e per gastigarli e riducerli a migliore vita, nel detto anno nel
tempo dell’autunno ricominciò coll’usata pestilenza dell’anguinaia
a flagellare il ponente, e molto gravò in Borsella, che del mese
d’ottobre e di novembre vi morirono più di millecinquecento borgesi,
senza le femmine e’ fanciulli, che furono assai. Ad Anversa, e a
Lovano, e nell’altre ville di Brabante il simile fè. Non toccò la
Fiandra, poichè altra volta non era molto stata gravata, e però
Brabante più ne sentì; e per simile modo avvenne nella Magna a Basola,
e in altre città e castella infino a Boemia e Praga, le quali dalla
prima mortalità non erano state gravate. In questi tempi fu ne’ nostri
paesi in Valdelsa, e in Valdarno, di sotto, e nel Chianti, quasi come
l’anno dinanzi passato, generali infermità di terzane, e di quartane,
e altre febbri di lunga malattia, delle quali pochi morivano. Di ciò
si maravigliarono le genti di Valdelsa e di Chianti, perchè sono in
buone arie e purificate, perchè due anni l’uno appresso l’altro fossono
maculati di simili infermitadi, non conoscendo alcuna singulare cagione
di quello accidente.

CAP. CIX.
_Di giustizia fatta in Parigi._
E’ non è da maravigliare della crudeltà de’ tiranni, a cui li savi
e valorosi cittadini sempre furono paurosi e sospetti, s’e’ si
dilettano nello spargimento del sangue innocente, per mantenere colla
spaventevole rigidezza della infinta giustizia in sicurtà la gelosia
del loro stato violento, e per tanto sospetti, e poco accetti a’
sudditi, e sottoposti a molti aguati e ruine. Ma di certo è da prendere
singulare ammirazione, quando questo iniquo animo cade nel sangue
reale per lo titolo della naturale signoria, la quale suole essere
mansueta e benigna, e con umanità, eziandio offesa, trattare i sudditi
suoi. Questo diciamo, perchè del mese di novembre detto anno, essendo
il Delfino di Vienna nella città di Parigi, per sospetto d’alcuno
trattato, del quale chiara verità non si potea sapere, fece pigliare
il conte di Stampo parente del re di Navarra, e ’l conte di Rossì,
e ventisette borgesi di Parigi, dicendo, che trattavano contro a lui
col re di Navarra. Per questi borgesi l’università di Parigi turbata e
commossa, mandarono il proposto de’ mercatanti con altri de’ maggiori
borgesi al Delfino per riaverli, con dire che non erano in colpa. Il
Delfino rispose, che dove non fossono in colpa, non bisognava loro di
temere, e che sopra ciò procederebbe temperatamente infino ch’avesse la
verità del fatto. E per questo savio modo racquetato il primo bollore
del popolo, poco appresso, dicendo che li trovava colpevoli, tutti i
detti borgesi fè decapitare; i conti riserbò in prigione. Di ciò la
comunanza fu mal contenta, e mormorava, ma per paura catuno, non avendo
capo a loro modo, soffersono il nuovo gastigamento del vecchio peccato,
comportandolo senza altra novità, più per servile pazienza che per
onorare o piacere al loro signore.

CAP. CX.
_De’ dificii fatti a sant’Antonio di Firenze._
Io non so s’egli è da lodare o da biasimare il prelato che spende negli
edificii magnifichi il danaio che trae del beneficio a lui conceduto,
perocchè, secondo che dicono gli antichi decreti de’ santi padri,
il prelato dee fare delle rendite sue tre parti; l’una dee spendere
nelle sue bisogne, l’altra dee distribuire a’ poveri, e dell’altra
dee racconciare la Chiesa, quanto si richiede a onestà di religione
fuori di pompa mondana: ma considerato che tutti coloro che prendono
frutti de’ beni della Chiesa delicatamente ne vivono, e quello che
loro avanza ai loro congiunti dispensano, e poco si curano perchè
rovinino le Chiese, o perchè i poveri di Dio si muoiano di fame, assai
è da considerare intorno a quello che qui è nel principio proposto. E
certo, se vento di fama mondano non levasse in alto alquanti che hanno
ne’ beneficii loro rilevatamente edificato, più sono da lodare che da
biasimare, secondo il corso della Chiesa terrena lussuriosa e avara,
al cui esempio assai disonesto e dannoso i secolari, che sono ghiotti
de’ beni terreni, vivendo trascorrono in grandi e disordinati peccati.
Questo tanto sia detto non per correzione, che non la vogliono udire, e
nostro uficio non è predicare, ma per argomento alla materia che segue.
Messer frate Giovanni Guidotti comandatore nella nostra provincia
nell’ordine di sant’Antonio, nato nella città di Pistoia non di
legnaggio gentile ma di meno che comune, uomo secondo suo stato d’animo
grande e liberale, avendo de’ suoi beneficii accolta moneta assai, la
quale secondo l’uso corrotto, del quale avemo parlato di sopra, poteane
ne’ suoi prossimani convertire, la spese negli edificii magnifichi
e nobili, i quali in questo anno fè cominciare al luogo dell’ordine
suo posto presso alla porta a Faenza, ne’ quali convertì gran danaio.
Avemone fatta memoria in rimprovero dell’avarizia di molti prelati, i
quali spogliano le Chiese che ne’ paesi loro e ne’ forestieri a loro
sono concedute, non curando nè l’ira di Dio nè l’infamia del mondo.


LIBRO NONO

CAPITOLO PRIMO.
_Il Prologo._
Volendo seguire il costume dello scrivere per noi cominciato, dovemo
alcuno prologo fare al nono libro di nostra opera; e perchè di cose
occorse in questi tempi niente degno di notabile fama ci si apparecchia
d’onde torre principio atto a proemio, ci trarremo alquanto addietro a
materia che assai maravigliosa ci pare: e per meglio dare a intendere
quello che ci va per la mente, mescoleremo delle strane vecchie con le
nuove. Trovasi nell’antiche ricordanze, e massimamente nelle romane,
che per cupidigia di temporale signoria, sott’ombra d’acquisto d’onore
mondano e di fama, i re, li principi, li tiranni, e, che meno pare
credibile, i popoli liberi, sotto il governo de’ consoli, senatori, e
tribuni, e altri rettori al tempo delli falsi iddei e mendaci, senza
niuna giusta cagione, con grandi apparecchiamenti di legioni armate
assalivano li reami, le provincie, e le cittadi che si voleano posare e
vivere in libertà sotto loro leggi e costumi, prendendo e distruggendo
con ferro e con fuoco chi loro s’opponea, e per forza recavano tutti
in servaggio. Ancora si trova che molte salvatiche e barbare nazioni,
o per essere di soperchio ne’ luoghi di loro origine multiplicati, o
per fuggire i loro luoghi poveri e bretti paesi, o per essere di quelli
violentemente cacciati (come occorse al buono Enea Troiano, e a molti
altri nobili e potenti signori) con loro donne e famiglie passarono in
paesi forestieri, per acquistare sito dove si potessono alloggiare; e
per ciò potere conseguire, cose grandi e pericolose in fatti d’arme,
alte e rilevate feciono, come ne manifestano l’antiche scritture, e
massimamente quelle de’ Gotti e de’ Longobardi. Queste cose inique e
scellerate, tuttochè n’avessono alquante scusa di presa di necessità,
la quale a niuna legge pare sottoposta, hanno alquanto di colorata
giustizia; nondimeno da’ savi gentili assai è biasimata e ripresa: e
certo a noi cristiani pare, che la giustizia di Dio debitamente per
l’abominevole peccato della idolatria..... Ma chi difenderà il tempo
della grazia? cioè il tempo cristiano; sozzamente maculato dalle
orribili persecuzioni da’ micidii di.... predatori, e distruggitori,
che già anni quarantasei, o in quel torno, sotto piacevoli nomi di
compagnie in diverse parti della cristianità, sotto loro capitani e
conducitori raunati, hanno tribolato e afflitto, ed usurpato e guasto
i reami, le provincie, città e ville, rubando, ardendo, e uccidendo
senza niuna misericordia ogni maniera di gente. Chi crederà che tanti
signori nobili e gentili uomini, tanta buona gente d’arme si sia
accozzata co’ ribaldi, e ladroni, e vile gente, pronta e disposta
allo spargimento del sangue umano, e a fare ogni male che pensare
si possa per scellerata persona? Certo egli è cosa inenarrabile,
e incredibile a pensare, che questa malvagia gente rinnovandosi di
tempo in tempo sotto nuovo governo, e sotto diversi e varii titoli di
compagnie, senza trovare contrasto o resistenza abbia corsi i paesi
cristiani, e fatto ricomperare i signori e’ comuni, avendo ognuno per
di grato a nemico, sostenendo e per fame e per freddo e per altre
cagioni tormenti, martirii e affanni da loro fede a chi ne facesse
memoria di questa pistolenza. Alquanti savi uomini vogliono dire, che
il movimento del cielo, e la congiunzione di certe pianete ne sieno
state cagione. Altri, a cui noi assentiamo come a più veritieri,
affermano ciò avvenire per giusto giudicio di Dio, il quale dice: Io
farò la vendetta de’ nemici miei co’ nemici miei; e l’empio regnerà
per li peccati de’ popoli. Le cagioni dell’ira di Dio, come pubbliche e
manifeste le tacemo, e se pure ne volessimo dire, basti sotto il fascio
di poche parole di dire cotanto, che secondo il pensiere di molti
discreti mai non fu il mondo peggiore, ne più contaminato d’ogni vizio,
e maggiormente di quelli che più sono odiosi e dispiacevoli a Dio.
Potrebbesi dire il mondo crudele, senza niuna carità o amore; e chi
volesse questo testo chiosare, a suo modo e piacere lo si chiosi, che
dire non potrà tanto male che assai peggio non sia.

CAP. II.
_Come la compagnia si partì da Sogliano e ricevettene danno._
Tornando a’ processi della compagnia e a’ suoi andamenti, avendo vinto
per battaglia il castello di Sogliano, e alquante altre castellette
della montagna, come addietro dicemmo, essendosi in quello alloggiati,
per vernare o per sentore di nuova civanza, o perchè loro paresse
stare oziosi non facendo qualche male, o per rigoglio, com’erano
usati, tutta la roba che per lo paese poterono raccogliere raunarono,
e arsono l’altre castella delle quali dubitavano che non offendessono
Sogliano; e volendo mostrare una singulare confidanza de’ terrazzani
di Sogliano, loro raccomandarono tutta la detta roba, e più di cento
di loro compagni ch’erano malati, e de’ buoni e valenti che fossono
nella brigata, facendo buone e larghe promesse a quelli di Sogliano,
come se fare volessono quello luogo loro camera o ridotto, e fare
certo chi dentro vi fosse; e ciò fatto presono viaggio, e si passarono
sopra Rimini assai presso alla terra, e’ paesani d’intorno, ch’erano
dalla compagnia stati rubati, e arsi e distrutti, e i loro congiunti
e amici o morti o guasti delle persone, e però, come sentirono che la
compagnia s’era allungata, prestamente e per forza si ritornarono in
Sogliano tutti, e quanti vi trovarono di quelli della compagnia, sì
de’ malati come di quelli che li servivano, senza niuna misericordia
gli tagliarono e uccisono, e ciò che trovarono nel castello rubarono
e portarono via, lasciando in abbandono le mura; e questo occorse del
mese di gennaio del detto anno. La compagnia essendo stata alquanti
giorni sopra Forlì in molti disagi, sì per le nevi ch’erano grandi, e
sì perchè trovarono nel paese poca roba a tanta brigata, si partirono
di quindi, e appressaronsi a Forlì, e in Forlì dal popolo per
comandamento del capitano ebbono ricetto, e rinfrescamento di pane e di
quello, che dentro v’era riposto. Questo facea il capitano, perchè ogni
altra speranza di difesa dal legato, fuori che di questa compagnia,
del tutto gli era mancata; di che più curando di suo stato, che sè
o ch’e’ suoi sottoposti e servidori, con loro mescolò molte fiate la
scellerata compagnia, con danno e con vergogna e disagio grande de’
suoi cittadini.

CAP. III.
_Come il comune di Firenze diede balía a’ cittadini contro alla
compagnia._
Vedendo il comune di Firenze che la mala brigata della compagnia
sempre crescea, e che il verno passava, e appressavasi il principio
della primavera, sicchè il tempo s’adattava alla guerra; e sentendo
che il conte di Lando, come persona offesa, forte si dolea del nostro
comune, e che esso e la compagnia per assentimento comune forte ne
minacciavano, e che mai campo non si mutava che tutti non gridassono a
Firenze, a Firenze; e volendosi provvedere sicchè al tempo si trovasse
sufficiente e in punto di potere rispondere alla potenza e al mal
volere della detta compagnia, ed essendo perciò necessario di trovar
modo come abbondanza di pecunia venisse in comune senza gravezza e
offesa de’ cittadini, a dì 12 di gennaio gli anni 1358, provvidono
per gli opportuni consigli che si facesse il quarto monte, ciò fu una
prestanza generale di fiorini settantamila d’oro alle borse possenti,
e chi prestasse per sè o per altrui, fosse scritto nel detto monte a
creditore del comune nell’uno tre, e avesse di provvisione il danaio
per lira il mese, che venia a ragione di cinque per cento degli
scritti, e de’ prestati a ragione di quindici per centinaio, con le
immunitadi e privilegi degli altri monti; e perchè la cosa avesse
esecuzione prestamente, feciono sedici uficiali, quattro per quartiere,
con larga e piena balía a potere accattare quanta moneta paresse loro;
i quali uficiali senza perdere tempo di subito composono settantamila
fiorini d’oro, e poco appresso ne posono cinquantamila fiorini d’oro,
i quali tutti si ricolsono in piccolo tempo e interamente, e i risidui
per tutto il mese di dicembre 1359, con tanta pace e buono volere, che
a niuna persona non fu nè guastagli casa, nè eziandio mandatoli messo,
l’uno per l’altro pagava prendendo vantaggio, e il comune rispondea del
dono e interesso fedelmente a’ tempi ordinati.

CAP. IV.
_Come procedette la compagnia in Romagna._
Poichè preso ebbe la compagnia per alquanti giorni rinfrescamento in
Forlì, per non consumare il gentile uomo, che era a stretti bisogni, e
loro dava ricetto, non ostante il tempo fosse per le nevi e freddure a
gente d’arme malagevole, si partì, e misesi sulla marina sopra Pesero
e Fano, stendendosi fino alle coste di Montefeltro; e loro convenia
così fare, perchè la gente era molta, e per lo disagio delle nevi
non poteano stare insieme, e sufficiente vittuaglia per loro e per
la brigata loro non poteano avere, e per lo piccolo luogo non poteano
trovare bene loro agio ancora da quelli di Montefeltro pagando derrata
per danaio, e il freddo pugnente e nevi sopra nevi loro facea portare
grande penitenza de’ loro misfatti. Molti uomini d’arme, mai più
de’ saccardi, per lo brusco tempo, e per lo disagio e mala vita, non
provveduti si morirono; e grande parte de’ loro cavalli si guastarono
per difetto di strame, e per lo mangiare del grano, ch’altra biada non
aveano che dare loro; e perchè a loro li convenia tenere al sereno, e
al ghiaccio e alla neve senza coverta; ben s’atavano quanto poteano con
gran fuochi d’ogni legname, sicchè si poteano dire mezzi sconfitti dal
tempo. Questo loro pessimo stato li fece fallire, che non ostante che
da Montefeltro fossono di vittuaglia per li loro danari sovvenuti, per
inganno entrarono in Montedifabri, ove alquanto di roba trovarono che
un poco rendè li spiriti loro, ma non potendo più nel luogo durare, si
traslatarono intra Iesi e Sinigaglia, e in quel luogo ebbono trattato
d’acconciarsi al soldo col duca d’Osteric, che, come addietro dicemmo,
era stato titolato dall’imperadore re de’ Lombardi, ma non ebbe luogo,
perchè domandavano soldo impossibile alla borsa del duca. Ma per dare
a intendere se fu la verità se ’l verno fu freddissimo e aspro, in
Bologna tanto alzò la neve, che comunemente giunse all’altezza di
braccia dieci, onde per ricordanza in piazza si fece una grande volta
sotto la neve, nella quale si fece convito e festa per certi giovani
ricchi, per ricordanza della grande neve. Passando di luogo in luogo la
detta compagnia con angoscia e con fatica, in su l’uscita di febbraio,
tirando verso Fabriano, s’arrestò alla Roccacontratta, facendo
secondo il loro uso, ma non trovando quivi vittuaglia che a loro fosse
bastevole, eziandio per piccolo tempo, presono il passo della terra a
Santagnolo, il quale avvisatamente fu loro conceduto, perchè avessono
cagione di più tosto uscire del paese. E stando la compagnia in queste
travaglie, il cardinale di Spagna legato del papa senza assento del
nostro comune, continovo con la detta compagnia cercava convegna, e
’l nostro comune si provvedea e ordinava alla difesa, poco curando
minacce, e con balestrieri e fanti intendeano alla guardia de’ passi,
guardando i valichi e i luoghi che di Romagna poteano dar loro via a
venire sul nostro terreno.

CAP. V.
_Di novità state tra’ signori di Cortona._
La signoria di Cortona, la quale lungo tempo è durata nella famiglia
di quelli da Casale, per successione era venuta in due fratelli
carnali, de’ quali l’uno avea nome Bartolommeo, e per senno e per età
era il maggiore, in lui cantava il titolo della signoria, tutto che
le rendite rispondessono egualmente a lui e al fratello che avea nome
Iacopo, il quale avea per moglie la figliuola di messer Francesco
Castracani di Lucca; la quale essendo di questa vita passata, Iacopo,
come uomo di vita dileggiata e disonesta, si tolse per moglie una
femmina mondana, la quale s’avea tenuta due anni innanzi la morte
della donna sua fuori de’ loro casamenti, e ciò fatto procedette più
oltre, e volea la femmina vituperosamente ne’ palagi abitare con la
donna di Bartolommeo, ch’era di gentile legnaggio, e d’animo grande e
di vita onesta e signorile, la quale in niuno modo il volle patire;
onde intra’ fratelli nacque riotta, e della riotta col favore e
consiglio de’ loro amici fu concordia, nella quale di comune assento
dierono in guardia la rocca a uno che tutto era famiglio di Iacopo, e
a Bartolommeo era confidente amico, con patto che per loro la dovesse
tenere comunemente, e guardarla, e non darla all’uno senza l’altro.
Segue, che a dì 8 di febbraio 1358, che vedendosi Iacopo per difetto
di gotte impotente della persona, e per tanto dal fratello trattato
non bene, e poco avutolo a capitale, tolse il figliuolo piccolo di
Bartolommeo, e lui menò alla rocca con due suoi figliuoli e trenta
cittadini di suo intendimento colla signoria. Giunto alla porta, con
ingannevoli e composte industrie condusse il castellano a farlo aprire,
ed entrò dentro colla brigata, e pinse fuori il castellano, e come
fece follemente l’impresa, così con poca provvedenza male la condusse,
non avendo di fuori ordinato donde li venisse il soccorso. Sentendo il
signore quello che ’l fratello avea fatto, come savio e coraggioso,
col favore de’ suoi cittadini subito fece prendere il torrione che
dava entrata alla rocca, e di fuori a campo si mise, fortificando di
fossi e palancati il luogo che non poteano essere forzati; onde Iacopo,
che s’era rinchiuso in prigione, mancandoli per la mala provvedenza
la roba da vivere, all’uscita di febbraio cercò patti col fratello,
il quale glie le fece volentieri, per levarsi da dosso i sospetti di
fuori e dai pericoli che in simili casi possono occorrere; li patti
furono, ch’e’ potesse abitare ne’ palagi che allora erano comuni, e
avere certe provvisioni, e che i suoi seguaci e compagni fossono salvi
delle persone, e in grazia di Bartolommeo; e in effetto gli fu ogni
cosa promesso, ed egli rendè la rocca, e fu messo ne’ palagi, ma bene
guardato, e tutta sua famiglia li fu levata; ma poi appresso a due dì,
quelli che con lui erano entrati nel cassero furono morti dal figliuolo
del signore, onde gli altri per lo migliore si cessarono; sicchè
Bartolommeo si rimase libero del tutto signore. Iacopo vedendosi mal
trattare, furtivamente si partì e andossene a Siena, dove non avendo
dal fratello alcuna provvisione, traeva sua vita assai miseramente.

CAP. VI.
_Dello inganno fatto per lo legato al comune di Firenze della
compagnia._
Noi avemo per molte riprese fatta memoria nelle nostre scritture de’
notabili vizii de’ nostri cittadini, i quali vizii da avarizia per
cupidigia di loro private ricchezze, e l’utile e l’onore del comune
niente hanno in calere, non sotto speranza che per loro riconoscenza
ammenda ne segua, tanto è l’usanza corrotta trascorsa e cresciuta
per la baldanza de’ passati cittadini, che sempre straboccatamente
è cresciuta per non essere de’ suoi falli corretta, ma perchè li
diritti e fedeli cittadini che si ritrovano agli ufici li tengano
a freno, se non colle parole almeno colle fave, non seguendo loro
dissoluti consigli, vogliosi e non liberi, e alla repubblica dannosi.
E certo la materia di che dovemo al presente fare nota è evidente,
e buono esempio sopra quelli che verranno poi, se fia con buono zelo
fedelmente ricolta. Il legato di Spagna, benchè di grande animo fosse,
e uomo baldanzoso e di grandi imprese, era savio e discreto, come nel
precedente libro dicemmo; ed essendo venuto a Firenze, coll’industria
e consiglio de’ nostri cittadini ch’erano a sua provvisione, più
volte tentò con sagaci e be’ modi, che ’l nostro comune prendesse
accordo con la compagnia, non tanto per affezione ch’avesse all’onore
e bene del nostro comune, quanto per levarsi da dosso la forza loro
co’ danari del nostro comune. E cerco e ricerco, trovato il nostro
comune fermo e costante in volere piuttosto spendere in sua difesa
ogni gran quantità di danari, che ricomperarsi qualunque piccola cosa
dalla compagnia, per levare via il preso costume di sì fatta gente,
che le città libere di Toscana e i possenti tiranni aveano recati
sotto palese tributo, vituperio e vergogna de’ signori naturali,
e della antica fama degl’Italiani, e massimamente del nome romano;
seguendo il consiglio di cui avemo ragionato, all’uscita del mese di
febbraio del detto anno, e per sè e per lo nostro comune, come avemmo
mandato, fermò concordia colla compagnia, la quale in effetto fu in
questa forma: che a loro darebbe fiorini quarantacinquemila d’oro
per la Chiesa di Roma, il comune di Firenze fiorini ottantamila, ed
eglino infra quattro anni seguenti non dovessono offendere la Chiesa
nè sue terre, nè ’l detto comune di Firenze, nè suo distretto e
contado; e soggiunse nel patto, che se infra cinque dì il comune di
Firenze, ricevuta la lettera da lui, non accettasse liberamente la
detta concordia, che ’l detto legato fosse tenuto loro dare fiorini
diecimila. E questo mercato procedette da sagace consiglio; perchè
li fu dato a intendere, che per la tema che ’l comune avea della
compagnia, veggendosi dell’impresa abbandonare dal legato, e avendo
poco rispetto e a consigliare e a provvedere per lo favore de’ grandi
cittadini, che per diversi rispetti, come detto avemo, accostavano
il legato, che farebbono sua intenzione, aggiugnendo, che il nostro
comune per reverenza di santa Chiesa, e di lui, di cosa fatta non gli
farebbe vergogna, ma tutto avvenne altrimenti. Il legato per due fatti
propri significò la detta concordia; la quale intesa in molti consigli
de’ cittadini, quanto che fosse per alquanti confortata e lodata, in
generale comunemente dispiacque, e fu in singolare abominazione, e
coralmente, per quelli ch’amavano lo stato e l’onore del comune, perchè
parea che ’l legato volesse guidare il nostro comune e prendere sua
tutela, e più sottilmente pensando, ombra di tacita signoria; onde il
popolo apertamente parlava in vergogna del legato, e di comune volere
si prese, che la detta convegna non si accettasse; e risposto fu al
legato, che questa, nè altra concordia con la compagnia il nostro
comune non volea, mostrando l’animo grande in poco prezzare il nimico:
e per non mostrare cruccio nè sdegno, e per rimuovere il legato dal
proprio nemico (non buono e male consiglio) di presente crearono
solenne ambasciata, e la mandarono al legato, e condussonlo a tanto,
ch’e’ promise di non fare accordo, e di nimicare a suo podere la
compagnia, avendo il braccio del nostro comune. Ciò nonostante operava
o per malizia o per senno; e a dì 21 del mese di marzo si convenne con
la compagnia per fiorini cinquantamila, i quali promise di pagare anzi
che si partissono delle terre della Chiesa. E aspettando la compagnia
prima la concordia, e appresso la detta prebenda, quasi come se avesse
a fare la sua vendemmia, sì s’allargava per lo paese studiosamente
predando e facendo ogni male, e per quattro riprese combatterono un
castello in su quello di Fermo, e non lo poterono avere; il perchè il
legato s’affrettò di pagare. La compagnia vedendosi fuori del verno, e
rincalzata de’ danari ricevuti dal cardinale, e nella speranza d’avere
da’ comuni di Toscana, stava baldanzosa, e a giornate fortemente
cresceva sì di gente a cavallo e di gente tedesca che cassare si
faceva, e sì di gente a piè, che per rubare di volontà si mettea in
brigata; e come per gli effetti di questa compagnia si vide, gente
di sì fatta ragione poco si cura di fare vendetta di sua brigata, e
molto meno di purgare sua vergogna pure ch’abbi danari, e chi è morto
s’abbi il danno, e poi è la sua morte vendetta; il perchè seguendo loro
costume, credendo con le grida spaventare il comune di Firenze e farlo
ricomperare, a ogni piè sospinto con istrida e romore minacciavano il
nostro comune.

CAP. VII.
_Il male seguì per l’accordo fatto dal legato con la compagnia._
Sentendo il comune di Firenze per la relazione de’ suoi ambasciadori
che il legato avea fermo per sè l’accordo con la compagnia, e
abbandonato nell’impresa grande e pericolosa il nostro comune, forte
si dolse, recandosi dinanzi dagli occhi gli onori fatti a’ prelati
ch’erano passati di qua, e massimamente a costui, e i danari ch’avea
speso per difendere la Chiesa di Roma in aggrandire suo stato in
Italia, nel cui servigio avea per più anni quasi del continovo tenuti
da quattrocento in cinquecento cavalieri, e da settecento in ottocento
balestrieri, senza il grande aiuto de’ suoi singulari cittadini, e
distrettuali, e contadini, i quali in meno di sei settimane di perdono,
come s’elli combattessono con gl’infedeli, e in commessa del papa avea
tratti altrui di borsa fiorini centomila. E quanto che questi servigi
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