Cronica di Matteo Villani, vol. 4 - 04

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il re d’Inghilterra fu là, e il re di Francia gli si fece incontro,
e ricevettonsi insieme con molta reverenza, e dopo molta contesa di
mettere innanzi, e onorare l’uno l’altro, il re di Francia lo prese di
pari, e andarono a bere insieme con gran festa e allegrezza; di che
uno ministriere festeggiando disse: Mala morte possa fare chi di voi
sturba la pace: il re d’Inghilterra rispose al motto, che già per lui
non rimarrebbe, e che coll’aiuto di Dio tra loro sarebbe buona pace; e
invitò il re di Francia alla festa ch’avea ordinata alla Sangiorgio,
e il re di Francia accettò, e fece suo sforzo per potervi comparire
magnificamente come a lui s’appartenea; dopo ciò il re d’Inghilterra
preso il congio si tornò al suo ostiere.

CAP. XLV.
_Come i Tarlati si feciono accomandati de’ Perugini._
Montata la pompa de’ Perugini per la nuova vittoria, segretamente
teneano trattato co’ Tarlati d’Arezzo, e ricevutigli in loro protezione
e accomandigia con mala intenzione, pensando coll’aiuto de’ segreti
amici, e per furto e per ingegno rimetterli in Arezzo per averne la
signoria, senza scoprirsi contro a’ Fiorentini, cadendo il bisogno
del borgo come è detto, e richiesti furono i Tarlati da’ Perugini,
ed elli s’apparecchiarono prestamente con tutta loro forza d’andare
a soccorrere la terra: non fu bisogno; perocchè i castellani, come di
sopra dicemmo, aveano fatto il servigio, e liberata la terra. Allora
si scoperse, e fu palese che i Perugini senza richiesta de’ guelfi
di Toscana, o consiglio, s’erano collegati co’ Tarlati, e gli aveano
ricevuti loro accomandati, e promesso di rimetterli in Arezzo, onde
i Fiorentini e gli Aretini forte se ne turbarono, e cominciossi a
fare in Arezzo di dì e di notte buona e sollecita guardia coll’aiuto
e consiglio de’ Fiorentini, sicchè cortesemente fu rotta la speranza
a’ Perugini e a’ Tarlati di rivolgere lo stato d’Arezzo. Nel quale
trattato non si trovò messer Luzzi figliuolo naturale di messer Piero
Saccone, il quale per sdegno ch’avea co’ suoi consorti s’accostò a’
Sanesi, e non volle essere co’ Perugini, e apertamente si mescolò nella
guerra contro a loro.

CAP. XLVI.
_D’una folgore percosse il campanile de’ frati predicatori di Firenze._
Nel detto anno, a dì 20 d’aprile, nell’ora quasi di mezza notte, il
tempo ch’era sereno si turbò con disordinata e subita pioggia, e una
folgore percosse nella punta del campanile de’ frati predicatori,
dov’era un agnolo di marmo di statura in altezza di quattro braccia
con grandi alie di ferro, il quale volgea sopra una grossa stanga
di ferro, mostrando col braccio steso il segno de’ venti, la quale
figura in molte parti spezzò, e la stanga volta in arco volse con
una gran corteccia del campanile, e assai di lontano gittò le pietre,
spargendole: e discesa nella maggiore cappella in più parti la incese,
e abbronzò le figure, e il simile fè nel dormentorio senza far danno a
persona, vituperando le cose pompose. Stimossi per molti che ciò non
fosse senza singolare dimostramento d’occulto giudicio, considerato
che i frati del detto luogo disordinatamente passando l’umiltà della
regola loro data da san Domenico, i loro chiostri e’ dormentori sono
pomposi, vezzosamente intendendo alle delicatezze e piaceri temporali.
E di ciò accorgendosi il venerabile maestro Piero degli Strozzi del
detto ordine, uomo di santa vita, considerando che ne’ suoi giorni tre
volte il detto caso era avvenuto, non volle che figura niuna più si
ponesse nel detto luogo, ma armò la vetta del campanile contro la forza
delle folgori con reliquie sante. Continovando alla predetta materia,
le simili cose ne’ detti giorni occorsero infino al mese di luglio, che
spesso cadde grandine sformata nel nostro contado, e nell’altre parti
della Toscana e della Romagna con grandissimi danni di frutti, e di
bestiame e d’alquante persone: nel nostro contado cadde in grandezza di
due tanti d’un uovo di gallina: altrove udimmo che cadde vie maggiore.

CAP. XLVII.
_Della pomposa festa che si fè in Inghilterra in Londra._
Avendo il valoroso Adoardo re d’Inghilterra promessa pace al re di
Francia, come di sopra dicemmo, e ordinato alla Sangiorgio d’aprile
la solenne e vana festa de’ cavalieri erranti alla città di Londra,
grandissima quantità di baroni, e di cavalieri, e di nobili uomini
d’arme del reame s’accolsono per essere alla festa. I baroni come
meglio poterono, ciascuno bene montato, e con nobili armadure e
sopravveste, e insegne vaghe e maravigliose, e le donne vestite di
ricchi drappi, e ornate di ghirlande, fermagli e cinture di perle
e d’altre pietre preziose di gran valuta, ciascuna come meglio
potè. Nella città di Londra era per tutto apparecchiato a ricevere
i forestieri onoratamente, ciascuno secondo il grado suo. Quivi
rinnovellandosi l’antiche favole della Tavola rotonda, furono fatti
ventiquattro cavalieri erranti, i quali seguendo i fallaci romanzi
che della vecchia parlano, richiedeano, ed erano richiesti di giostra
e battaglia per amore di donna. E intorno alla piazza erano levati
incastellamenti di legname con panche da sedere, coperti di ricchi
drappi a oro, e forniti di dietro di ricche spalliere, dove il re e le
reine e altre nobili dame stavano a vedere; e davanti al re veniano
dame e cavalieri con finti e composti richiami di gravi oltraggi,
e differenti l’uno dall’altro, domandando l’ammenda del misfatto, o
battaglia, e il re discernea la giostra, e quale era vinto perdeva
sua dama: le quali facevano alle loro giostre cavalcare, quasi come
presente premio di colui che vincesse: le conquistate erano di presente
menate a corte, e assegnate alla reina come gaggio del vincitore: e
altre molte cose simili a queste vane e pompose, e piene di tante
inveccerie, che forse a Dio ne dispiacque. Le mense furono poste
ornatissime, vezzose e dilicate, con molte e varie vivande. Alle prime
mense fu posto sopra tutte quella della reina vecchia d’Inghilterra,
appresso quella del re di Francia, alla quale cinque figliuoli del re
d’Inghilterra servirono in su grandi destrieri; e il re d’Inghilterra
medesimo, ch’era all’altra tavola con quello di Scozia, alcuna volta
si levò dalla mensa, e andò a vicitare quella del re di Francia.
Questa solennità di festa si coprì sotto il titolo della pace, e per
tanto alcuna scusa ricevette della disordinata burbanza e vanità.
E nota lettore, che le parole del savio che dicono, gli estremi
dell’allegrezza sono occupati dal pianto, si verificarono nel re
d’Inghilterra, a cui la moria, che poco appresso seguette, tolse i
figliuoli con molto dolore e tristizia.

CAP. XLVIII.
_Come i Perugini cavalcarono i Sanesi fino alle porti di Siena._
Smeduccio da Sanseverino della Marca, nuovo capitano di guerra de’
Perugini, come giunse nell’oste, di presente con duemila cavalieri
e con gran numero di gente da piè si dirizzò verso Chianciano, e lo
combatterono, e arsone i borghi. Appresso entrarono in Valdorcia, e
arsono Bonconvento, e corsono infino al Bagno a Vignoni, facendo danni
assai maggiori in vista che in fatto, ardendo di rado allora capanne
e altre vili e disutili cose, e a dì 29 di aprile cavalcarono verso
Siena, e passate le forche assai di presso a Siena fermarono il campo;
e coll’usate burbanze toscane alquanti cittadini di Perugia ivi si
feciono cavalieri, e’ loro scorridori passarono infino a porta nuova:
nella quale per matta baldanza entrarono due di loro, de’ quali l’uno
vi fu morto, e l’altro rimase prigione. Sopraggiugnendo la sera, co’
prigioni che presi aveano in numero di centocinquanta si ritrassono a
Isola, e il seguente dì ripigliarono la via d’Asciano, e si ritornarono
a Perugia: per la qual cavalcata lo sdegno oltre a modo a’ Sanesi
crebbe, di che ne seguì quanto appresso diviseremo. È vero, che come
uso di guerra sovente dimostra, i Perugini non ebbono netta del tutto
l’avventurosa vittoria, perocchè sentendo il signore di Cortona che
tutto lo sforzo da cavallo e da piè era cavalcato a oltraggiare i
Sanesi, veggendosi libero il tempo da potere danneggiare i nemici, nol
volle perdere, e con dugento cavalieri mandò il popolo di Cortona,
e assai danno feciono intorno a Castiglionaretino e a Montecchio, e
arsono presso al lago la Valdecchio; e correndo infino all’Orsaia,
presono due de’ cavalieri novelli de’ Perugini, che per quella via poco
accortamente si tornavano a casa, e a salvamento si tornarono a Cortona
con molta preda, e circa a dugento prigioni. La preda e il danno
fu grande, perchè avendo a vile i Cortonesi, con baldanzosa sicurtà
sprovveduti furono sopraggiunti.

CAP. XLIX.
_Come il legato del papa ripuose l’assedio a Forlì._
L’ultimo dì del detto mese d’aprile, l’abate di Clugnì legato del
papa, avendo accolta molta gente d’arme, fece bandire, che qualunque
cittadino o forestiere volesse uscire di Forlì, sarebbe ricevuto
benignamente da lui e dalla sua gente, e perdonatogli l’offesa di
santa Chiesa, e ricomunicato. Per la qual cosa molti per più riprese
se ne fuggirono al legato, e assai volte quelli che v’erano messi alle
guardie delle mura se ne collavano a terra, e fuggivansi la notte a’
nemici. Il legato vi si ripuose ad assedio con grandissimo popolo, e
con mille cavalieri al cominciamento. Il capitano e’ suoi cittadini
pazzi di lui disperatamente, senza volere prendere accordo, attaccarsi
alla pertinacia e alla durezza, disponendo di tenersi alle difese con
grandissimo loro affanno e disagio.

CAP. L.
_Come i Provenzali feciono compagnia per vendicarsi di quelli dal
Balzo._
Essendo molto assottigliata la compagnia di Provenza, i gentili
uomini, ch’aveano lungamente ricevuto danno ne’ loro paesi, avendo
preso sdegno sopra la casa del Balzo, e sopra quelli del Delfinato che
l’aveano mantenuta loro addosso, si raunarono insieme più di ottocento
cavalieri, e corsono sopra le terre di quelli del Balzo, e guastarono
di fuori, e nel Delfinato feciono alcuno danno. E se il re Luigi avesse
valicato di là, com’avea promesso loro, avrebbono fatte assai maggiori
cose.

CAP. LI.
_Come si pubblicò la pace de’ due re._
Finita la pomposa e vana festa del re d’Inghilterra fatta a Londra,
della quale di sopra abbiamo fatta menzione, poco appresso, a dì 8 del
mese di maggio, il re di Francia e quello d’Inghilterra in pubblico
parlamento feciono pace insieme, e abbracciaronsi e baciarono in
bocca: e dissesi, che per buona concordia e buona pace il re di Francia
lasciava al re d’Inghilterra la contea di Aghemme, e la Normandia, e la
contea di Guinisi, con Galese e le terre che ’l re d’Inghilterra avea
acquistate, e che il re di Francia, in fra la festa di tutti i Santi
milletrecentosessantotto, dovea avere dati al re d’Inghilterra seicento
migliaia di scudi vecchi, e il re Adoardo dovea con tutto suo sforzo
riporre il re di Francia in signoria di suo reame. Onde ciò seguendo
per fornire l’impresa, il re di Francia mandò messer Giovanni conte
di Pittieri suo minore figliuolo, il quale era stato preso con lui in
Linguadoca, a procacciare la moneta, con patto ch’alla festa di santo
Dionigi dovesse tornare, e rimanere per stadico a Bologna sul mare,
tanto che l’altre promessioni e convegne fossono fornite.

CAP. LII.
_Come il legato del papa pose due bastite a Forlì._
Di questo mese di maggio, vedendo il legato la durezza del capitano
di Forlì e del popolo di quella città, che per niuno modo si disviava
dal volere del capitano di Forlì, acciocch’e’ s’avvedessono, che senza
abbandonare l’assedio la state e ’l verno, il legato era fermo di
vincerli per forza, pose tra Faenza e Forlì una grande e forte bastita,
ove mise quella gente a cavallo e a piè che bisognava, per tenere da
quella parte stretta e assediata la città di Forlì; e appresso ne pose
un’altra tra Forlì e Cesena al ponte a Ronco; e nondimeno il campo
suo con l’altra oste pose presso alla città, e continovamente cercava
d’assalire la terra il dì e la notte. E di tutto questo non parea che
’l capitano e’ Forlivesi si curassono niente, ma spesso il capitano
colla giovanaglia di Forlì usciva della terra, e assaliva il campo, e
ritornavasi contamente a salvamento.

CAP. LIII.
_Pace fatta dal re Luigi al duca di Durazzo._
Lungamente era durato lo sdegno che il duca di Durazzo avea portato
contro al re Luigi, parendoli male essere trattato da lui; e per questo
modo guerra si nutricò nel Regno per la compagnia, e poi per lo conte
Paladino, e per gli altri baroni che teneano la parte del duca, di
che il Regno era per tutto mal disposto, e’ ladroni multiplicavano,
e non v’era paese nè strada che sicura fosse. Avvenne, che morto il
conte Paladino e ’l fratello, i baroni cercarono di fare la pace tra’
reali, e il gran siniscalco sopra tutti v’adoperò tanto, che gli recò
a buona pace. E del mese di maggio 1358 con gran festa, con tutti i
baroni e gentili uomini di Napoli, desinarono insieme al vescovado,
e cavalcarono per tutta la terra insieme. E incontanente s’ordinò e
bandì, che tutti i forestieri uomini d’arme si dovessono partire del
reame, e cominciossi a venire rassicurando il paese.

CAP. LIV.
_Come si partì la compagnia di Provenza._
Abbiamo innanzi narrato, come il re Luigi era costretto d’andare
in Provenza per difenderla dalla compagnia che lungamente l’avea
tribolata, e avea richiesti i baroni d’aiuto e i comuni di Toscana, e
catuno s’apparecchiava di servirlo ove andasse la sua persona. Avvenne,
che per le ribellioni che le comuni di Francia avevano fatte contro al
Delfino duca di Normandia, primogenito del re di Francia, e contro agli
altri baroni e gentili uomini del paese, i baroni col Delfino furono
costretti di fare gente d’arme per la loro difesa, e per offendere le
comunanze. E perocchè la compagnia era nutricata e creata al suo caldo
e degli altri baroni, per averli presti al bisogno, e mantenerli alle
spese de’ Provenzali di qua dal Rodano; a questo bisogno chi mandò per
l’una parte e chi per l’altra: e così si partì di Provenza una parte
della detta compagnia. E il re Luigi per questa cagione, e perchè mal
volentieri si partiva del Regno, sostenne l’andata di Provenza.

CAP. LV.
_Come i signori di Milano posono l’assedio a Pavia._
I signori di Milano, per la grande entrata ch’aveano di loro terre in
que’ tempi erano di gran podere, sicchè perchè alcuna volta perdessono
loro gente d’arme, di presente per la forza del danaro erano riforniti
di nuovo, e possenti a tornare in campo meglio che prima. E però non
ostante ch’avessono l’oste grande sopra Mantova, e fornissono contro al
marchese di Monferrato la guerra di Novara e di Vercelli, essendo la
compagnia del conte di Lando, come detto avemo, in aiuto a’ Lombardi
collegati, feciono di nuovo grande oste, e andarono a porre l’assedio
alla città di Pavia del mese di maggio, ove aveano più di duemila
cavalieri e pedoni, e popolo assai per questi assedi. E per mantenere
le grandi spese consumavano le forze de’ collegati, non ostante che
spesso negli assalti la loro gente ricevessono danno e vergogna;
e ciò addiveniva, perchè i loro soldati tedeschi aveano ricetto,
e parte di loro cavalcatori nella compagnia, sicchè contro a loro
non si combatteano lealmente, per non disfare la detta compagnia; e
avvedutisi i signori di Milano per più volte di questo, e trovatisi con
diecimila cavalieri a loro soldo, e mille di quelli della compagnia gli
cavalcavano presso a Milano, non ostante ch’avessono vantaggio contro
a’ loro avversari, per questa cagione cominciarono a dare gli orecchi
al trattato della pace, la quale poi si fornì, come al suo tempo
racconteremo.

CAP. LVI.
_Come i Perugini afforzarono l’Orsaia._
Di questo mese d’agosto, i Perugini per potere con meno gente d’arme
e con minore spesa mantenere l’assedio a Cortona, cominciarono ad
afforzare di mura e di fossi l’Orsaia per farvi una terra nuova, sicchè
il verno come la state potessono tenere assediati i Cortonesi dal
lato del piano. I Cortonesi per questo poco si curavano, perocchè la
montagna era in loro balía, e aveano gente a cavallo e a piè che spesso
faceano risentire i loro nemici.

CAP. LVII.
_Come si fece la pace da’ signori di Milano a’ collegati._
Quasi per spazio di tre anni era continovata la guerra da’ signori di
Milano a’ collegati Lombardi, nella quale erano i signori di Mantova,
di Ferrara, e di Bologna, e il marchese di Monferrato, Genova, e Pavia;
nelle quali battaglie, ribellioni e presure d’assai città e castella
erano fatte, com’addietro abbiamo narrato, con vari avvenimenti di
guerra e di fortuna e d’una e d’altra parte; e come che la possanza de’
signori di Milano fosse grandissima, pure aveano perdute la maggior
parte delle terre che tenere soleano nel Piemonte, e Novara, Como,
Pavia, e Genova, e Savona, e con la Riviera e di levante e di ponente,
e molte altre castella in quelli paesi; ma tutto che queste terre
fossono loro tolte, per loro entrata e potenza conduceano gente d’arme,
e nuove osti faceano, avendo più forza l’un dì che l’altro, almeno
in apparenza. Per le quali cose i collegati straccati dalle gravezze
delle spese incomportabili a loro, con gran pericolo e pena sosteneano
la guerra, avendo nel segreto grande appetito di pace; dall’altra
parte i signori di Milano s’erano trovati più volte ingannati dalla
gente d’arme di lingua tedesca, che avendo essi forza di novemila in
diecimila cavalieri, mille o duemila barbute della compagnia per più
riprese, come mostrato abbiamo, correano infino alle porte di Milano,
e stavano a oste nel loro contado, e non trovavano Tedeschi che contro
a loro facessono resistenza, che tutti teneano parte nella compagnia,
e i cassi da’ soldi entravano in quella, e per questa cagione
s’aveano vedute rubellare molte terre; per la qual cosa anche eglino
desideravano concordia. Onde essendo mezzano e sollicitatore della pace
messer Feltrino da Gonzaga de’ signori di Mantova, la pace si fornì,
e palesossi per tutto all’uscita del mese di maggio, gli anni 1358,
con certi patti e convegne che poco vennono a dire, come appresso si
dimostrò per lo fine.

CAP. LVIII.
_Come s’abbattè i palazzi di quelli di Beccheria._
Essendo cacciati da Pavia quelli della casa di Beccheria, come a
verno addietro narrato, frate Iacopo Bossolaro fece sua predicazione,
alla quale s’adunò tutto il popolo di Pavia uomini e donne; e con
belle e ornate parole mostrò, che non era bastevole avere cacciati di
Pavia i tiranni, se a loro non si togliesse la speranza del tornare,
la quale loro durerebbe mentre che le loro case e’ palagi fossono
in piè; e che per tanto a lui necessario parea d’abbatterli, e fare
piazza del sito dov’erano. Fornita la predica, tutto il popolo si
mosse, e volonterosamente corse ad abbattere le dette case e palagi:
e in picciolo tempo non vi lasciarono pietra sopra pietra, che non
portassono via; e il luogo recarono a piazza, secondo che il frate
predicando avea consigliato. E fu ciò cosa mirabile, che tutti, maschi
e femmine, piccoli e grandi vi furono per maestri e manovali, e a modo
delle formiche ciascuno ne portò via la parte sua.

CAP. LIX.
_Di molte paci e altre cose notevoli fatte._
Gli antichi Romani al tempo del popolo gentile aveano un tempio nella
città consacrato a Giano, il quale nel loro errore faceano Iddio
dell’anno. E per tanto il primo mese dell’anno a questo loro Iddio
era consacrato, e da lui era denominato Gianuaro, che noi volgarmente
appelliamo Gennaio. Questo tempio di Giano, quando stava aperto era
segno di guerra, e quando stava chiuso era segno di pace. Di che
tornando alle favole antiche, e all’usanze antiche della magnificenza
romana, questo nostro anno dire si potrebbe quello della pace: perchè
in esso fu fatta e fermata la pace dal re d’Inghilterra al re di
Scozia, e lasciato fu di prigione il re David, che carcerato il tenea
quello d’Inghilterra. Ancora si fè la concordia dal re di Spagna al
re d’Araona, e quella dal re d’Inghilterra al re di Francia, il quale
era suo prigione, benchè per li patti rimanesse sospesa. E fecesi la
pace dal comune di Vinegia al re d’Ungheria; e quella de’ signori e
tiranni di Lombardia, che di sopra avemo raccontata; e quella dal re
Luigi al duca di Durazzo; e quella da’ Perugini a’ Sanesi. E più ad
aumento di pace in questo anno fu abbondanza di tutti i frutti della
terra. È vero, che furono nel verno malattie di freddo, e nella state
molte febbri terzane, e semplici e doppie, sicchè se gli uomini fer
pace delle loro guerre, non dimanco gli elementi per li peccati sconci
degli uomini loro fecero guerra. Nella quale fu da notare, che come
l’anno passato la Valdelsa, e il Chianti, e il Valdarno furono di molte
infermitadi gravate e morie, che così nel presente, che fu mirabile
cosa. E perchè per queste paci fossono liete molte provincie, il reame
di Francia in questi giorni ebbe grandi e gravi commozioni di popoli
contro a’ gentili uomini, che molto guastarono il paese, e tre gran
compagnie di gente d’arme settentrionali conturbarono forte Italia
e la Provenza. Il perchè appare, che universale pace non può essere
nel mondo, come fu al tempo che ’l figliuolo di Dio umana carne della
Vergine prese.

CAP. LX.
_Come la compagnia del conte di Lando venne in Romagna._
Incontanente che la pace de’ Lombardi fu fatta, la compagnia del conte
di Lando, ch’era stata contro a’ signori di Milano per condotta de’
collegati, com’addietro abbiamo narrato, si partì di quei paesi; e
all’uscita del mese di giugno, avendo per tutto il passo aperto, e
la vittuaglia da’ paesani, con licenza del signore di Bologna se ne
vennono a Budrio in sul Bolognese; e ivi stettono alquanto di tempo
prendendo loro rinfrescamento, dando di loro usati aguati e improvvisi
assalti assai di tema a tutti i Toscani, e al legato del papa in
Romagna, e così al Regno, aspettando in quel luogo civanza di condotta,
e danari da chi con loro si volesse patteggiare e comporre.

CAP. LXI.
_Come il re Luigi riebbe il castello di Parma._
Narreremo in questo capitolo cosa che non pare degna di memoria, nè
certo è, se non in, tanto per quanto per essa si può dimostrare la
debolezza in que’ giorni del famoso reame di Puglia. Certi ladroni e
rubatori di strade nel detto regno in questi giorni faceano compagnia,
e aveano preso per loro ridotto un castelletto tra Serni e Castello
da mare che si chiama Parma: e ivi s’erano adunati, e rubavano le
strade e’ paesi che da loro non si volieno rimedire. E aveano già
tanto fatto, che circa a centoventi di loro erano montati a cavallo,
e armati a guisa di cavalieri, e spesso correano fino a Napoli, e per
Terra di Lavoro; e maggiore guerra e danno faceano a’ paesani, che
quelli della gran compagnia quand’erano nel Regno, perocch’e’ sapeano
i passi e le vie del paese, e conoscevano i massari e’ paesani da cui
si poteva trarre il danaro. E così teneano in mala ventura e angoscia
tutto il paese, che niuno osava andare per cammini senza buona scorta.
E per questa cagione il re fece gente d’arme, e ristrinseli nel detto
castello, e assediolli: e in fine vedendo i detti ladroni che non
poteano tenere il castello, l’abbandonarono, e fuggirsi del paese, e
il re riprese la terra, e la fornì di sua gente; perchè alquanto ne
migliorò la sicurtà delle strade e de’ cammini.

CAP. LXII.
_De’ fatti di Siena della loro guerra._
Li Sanesi avendo veduto non rotte le loro forze, nè con ordine di
battaglia, essere così sventuratamente sconfitti e cavalcati da’
Perugini infino alle porti, essendo di natura sdegnosa e altiera e di
voglioso consiglio, di comune assentimento deliberarono di fare ogni
loro sforzo e podere per qualunque modo potessono, per vendicare loro
vergogna; non ostante che per lo comune di Firenze oltre all’usato
amore consueto di faticarsi a pacificare loro vicini, ingelosito che
per loro riotte non surgesse allettamento di signore forestiere, di
continovo sollecitamente cercasse modo comportevole a sgravare il
soperchio dell’onta fatta a’ Sanesi, e a questo per forza d’amistà
de’ reggenti e maggiori di Perugia avessono condotto ad assentire i
Perugini, nè modo nè verso co’ Sanesi trovare non potè, i quali nel
furore di loro lieve animo, non guardando a stato di parte guelfa,
nè a’ pericoli che seguire ne potesse alla libertà de’ comuni di
Toscana, malcontenti di ciò che per l’uno comune e per l’altro si
facea, cercando sempre concordia tra loro senza favorare in segreto o
in palese eziandio in parole nessuno di loro contro all’altro, solenni
ambasciadori con pieno mandato e larghe promesse mandarono a’ signori
di Milano per impetrare loro aiuto e favore; ma poco loro valse,
tutto che in niente montasse per loro mal volere e pravo concetto,
perocchè per la pace tra detti signori e comuni di Toscana fatta, per
non romperla non se ne vollono travagliare. Il perchè veggendosi i
Sanesi mancare la detta speranza, in sulla quale stavano ventosamente
a cavallo, cercarono convegna colla compagnia che di Lombardia era
venuta a Budrio, e si patteggiarono ch’andasse al loro soldo per certa
quantità di moneta: e nel patto inchiusono, che la compagnia un mese e
più con altra loro gente dovesse stare in sul contado di Perugia; e per
lo detto servigio diedono caparra e la ferma, all’entrata del mese di
giugno 1358. Semoci un poco allargati in parlanza sopra questa materia,
per fare ricordanza a coloro che per li tempi verranno al reggimento
del nostro comune, che stieno avvisati a’ rimedi della straboccata e
ventosa volontà de’ Sanesi, i quali sovente per levità d’animo hanno
tentata la loro sovversione e degli altri comuni di Toscana, che
vogliono e amano di vivere in libertà.

CAP. LXIII.
_Come i Pisani abbandonarono la gara di Talamone._
I Pisani avendo provato e riprovato per molte riprese, che nè per
loro armate, nè per impedimenti di mare, nè per lega che tacitamente
avessono col doge di Genova, nè per qualunque altri loro argomenti o
sagacità, usando larghe promesse di nuove franchigie e più utile a’
Fiorentini, non aveano potuto rimuovere il comune di Firenze dal suo
fermo proponimento del non tornare a fare porto a Pisa, ma piuttosto
coll’aizzamento gli aveano fatti indurare; e veggendo ch’esso comune
di Firenze s’era messo in armare galee, e cercare ventura di mare
contro a loro; colla usata astuzia, del mese di giugno detto anno, con
segreta deliberazione fatta tra loro mandarono la grida, che i Pisani
e’ loro distrettuali, e ogni altra maniera di gente liberamente potesse
andare a Talamone co’ suoi legni e mercatanzie, e di là recare e
portare mercatanzia salvi e sicuri da tutta loro gente. E incontanente
cominciarono a mandarvi della roba loro con fare porto a Talamone; e
nondimeno i Fiorentini continovo le loro galee teneano alla guardia del
mare.

CAP. LXIV.
_Come i Sanesi chiamarono capitano, e uscirono a oste._
Avendo i Sanesi l’animo infiammato contro al comune di Perugia,
elessono per loro capitano di guerra il prefetto da Vico con gran
balìa nella città e di fuori sopra la gente d’arme, il quale accettò:
ma non venendo presto come il furore de’ Sanesi cercava; a dì 21 di
giugno uscirono fuori a oste sopra il Monte a Sansavino colla loro
gente d’arme, e con settecento barbute che avea Anichino di Bongardo
capitano della nuova compagnia, e ivi sforzandosi di vincere la terra,
senza frutto stettono aspettando il loro capitano e l’altra gran
compagnia che aveano condotta in Lombardia. I Perugini temeano forte
l’avvenimento della compagnia, e acconciavansi bene a lasciare trovare
modo a’ Fiorentini d’avere la pace; nondimeno afforzavano l’Orsaia per
potersi tenere più forti e provveduti alla loro difesa.

CAP. LXV.
_Come si fece certa arrota al palio di san Giovanni._
Di questo mese i Fiorentini arrosono al palio di san Giovanni, ch’era
di due finissimi velluti chermesi, con uno nastro d’oro largo quattro
dita coll’arme del popolo e del comune, riccamente ricamate di seta
d’otto braccia di lunghezza, quanto le dette due pezze erano larghe, di
vaio sgrigiato; cosa molto orrevole e bella alla nostra festa.

CAP. LXVI.
_Come il Delfino mandò per lo proposto di Parigi._
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