Cronica di Matteo Villani, vol. 4 - 07

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povero e di danari e d’aiuto per li Lombardi, che non si ardivano a
scoprire per la pace fatta contro a’ signori di Milano, francamente
s’apparecchiava alla difesa e alla guerra come meglio potea.

CAP. XCIII.
_Come la compagnia assalì Faenza._
Lasciando i fatti di Francia e di Lombardia e tornando ai più vicini,
la compagnia, ch’era in Romagna tra Forlì e Faenza, sentendo male
fornita di gente d’arme la città di Faenza, la quale si tenea per
la Chiesa, dove non era che uno capitano con meno di cento uomini
da cavallo, si strinsono alla terra, ed entrarono in uno dei borghi.
Il detto capitano allora era di fuori, e volendo tornare dentro, fu
abbattuto e ferito, e de’ suoi compagni assai magagnati. Per ventura
erano in quel punto in Faenza trecento cavalieri del comune di Firenze
all’ubbidienza d’uno cavaliere fiorentino, il quale vedendo il subito
e improvviso assalto prestamente si mise alla difesa colla brigata
sua, e riscosse il capitano, e i nemici fuori del borgo sospinse con
loro assai danno, e ricoverato il capitano e l’onore della Chiesa si
tornò in Faenza. Per lo detto assalimento baldanzoso e non provveduto
si temette che non fosse nella terra trattato, ma se v’era, non si
trovò. E ciò fu del mese d’agosto del detto anno. Appresso a pochi
dì la compagnia de’ Tedeschi della bassa Magna sotto il capitanato
d’Anichino di Bongardo s’accostò con quella ch’era in Romagna, e molti
altri Tedeschi che spontaneamente si partivano da’ soldi degli Italiani
s’aggiunsono con loro, e come ebbono fatta una massa, vedendosi
forti cominciarono a gridare a Firenze, tenendosi per fermo e per
lo consiglio e da tutti che da’ Fiorentini fossono stati traditi, e
nell’alpe sconfitti. Di questa adunata e di sua mala parlanza gran
sospetto si prese a Firenze, perchè si prese argomento di guardare i
passi, come appresso diremo.

CAP. XCIV.
_Come i Fiorentini mandarono a Bologna per la quistione dello Stale._
Temendosi per lo nostro comune che la compagnia per lo passo dello
Stale, che assai era largo e aperto, non li venisse addosso, in certa
parte di quello luogo avea fatto fare e tagliare i palizzati, i quali
erano abbandonati, perocchè per li patti fatti colla compagnia doveano
passare da Biforco, come addietro dicemmo. E vedendo il comune che
la compagnia partita da Vicchio di quindi era passata in Romagna,
e considerando che quello era il più agevole passo che potesse fare
gente d’arme che da quella parte venisse in offesa di nostro paese,
prese ragionamento di farvi fortezza. Sentendo ciò gli Ubaldini e i
conti da Mangona, a cui a tempo la fortezza potea essere nociva, di
presente furono al signore di Bologna, e gli diedono a intendere che
quello luogo era del comune di Bologna; perchè per la mala informazione
turbato scrisse al nostro comune assai altieramente. Di che il nostro
comune fè ritrovare l’antiche ragioni che ’l monistero di Settimo ha
nello Stale e ne’ luoghi circostanti, colle quali per ambasciadori
e difendere delle dette ragioni mandò a Bologna messer Francesco
di messer Bico degli Albergotti d’Arezzo cittadino di Firenze,
eccellentissimo e famoso dottore in ragione civile, il quale allora
leggeva in Firenze. Questi circa lo spazio d’un mese stette a disputare
co’ dottori bolognesi sopra la materia, e in fine in presenza del detto
signore di Bologna fu determinato, che ’l nostro comune aveva ragione,
tutto che gran punga fosse fatta per li detti Ubaldini e’ conti in
contrario. E a fede di ciò, il signore scrisse appieno al nostro
comune, e le lettere e cautela furono registrate del mese di settembre
1358.

CAP. XCV.
_Qui si fa menzione delle ragioni che ’l monistero di Settimo ha nello
Stale._
E’ n’è di piacere, poichè nel precedente capitolo detto avemo dei modi
tenuti per gli Ubaldini e’ conti di Mangona intorno alla quistione
dello Stale, di fare in sostanza alcuna memoria delle ragioni che la
badia di Settimo ha nel detto Stale, più per reverenza della buona e
fedele antichità che per vaghezza di scrivere. Trovato fu nel monistero
di Settimo una carta rogata negli anni dell’incarnazione del nostro
Signore 1040 a dì 13 di dicembre, nel quale si celebra la festa della
graziosa santa Lucia, e nell’anno secondo dell’imperio d’Arrigo, del
cui tenore in parte togliemo questo. Guglielmo conte, figliuolo di
messer Lottieri conte e di madonna Adalagia contessa, diede per rimedio
dell’anima sua e de’ suoi genitori, alla Chiesa e al monistero di san
Salvadore, nel luogo che si dice Gallano, ove si dice lo Spedale, con
ogni ragione, e aggiacenza, e pertinenza sua, e qualunque e quanto a
quel luogo s’appartiene, in perpetuo a noi Ugo, e agli Abati che per li
tempi saranno; e appresso quello che concede confina così. Da oriente,
dal Nespolo infino al Pero lupo, e infino alla Stradicciuola, e siccome
corre la detta Stradicciuola infino alla collina; da mezzogiorno
dalla detta collina infino a Ferimibaldi, e da Ferimibaldi infino a
Feumicarboni, e da Feumicarboni infino a Collina de’ monti propio....
e infino a Fontegrosna, e siccome trae il vado d’Astronico. Dalla
parte d’occidente, dal guado Astronico infino a Montetoroni, e infino
a Ronco di Palestra, ritorna fino al Nespolo di Briga. E sono tutte le
predette terre e cose, e tutti i piani, e alpi, e le loro pertinenze,
secondo che si dice nella detta carta, infra ’l contado di Bologna e
di Firenze. Nel 1292, a dì 19 di dicembre, il popolo di santo Iacopo a
Montale e di san Martino di Castro per sentenza di lodo poterono usare
i detti beni quattordici anni, dando la decima di tutto il frutto e
certo censo al detto monistero. E perchè semo entrati in ragionamenti
di confini, diremo de’ confini tra il nostro comune e quello di
Bologna, per bene e pace dell’uno e dell’altro comune, i quali furono
terminati per messer Alderighi da Siena arbitro in tra i detti comuni,
e furono questi. Il Mulinello a piè di Pietramala è del nostro comune,
e Baragazzo, e il Poggio del fuoco, e delle valli, e mezzo Montebene, e
Sassocorvaro, e il prato di Baragazzo.

CAP. XCVI.
_Come la compagnia della Rosa di Provenza si spartì e disfecesi._
In questi dì, sentendosi le novità di Francia che narrate sono, e
come il paese s’apparecchiava a nuova guerra per l’operazioni del
re di Navarra, la compagnia, che lungamente era stata in Provenza, e
avevanvi assai terre acquistate, vedendo che poco avanzavano stando
quivi, ed essendo parte di loro richiesti dal Delfino, sperandosi più
avanzare nelle guerre di Francia che nella povertà di Provenza, premono
per partito di partirsi, e trattarono co’ paesani d’andare, e di
rendere le terre e le castella che aveano prese; e venuti a concordia,
ebbono ventimila fiorini d’oro, e catuno se n’andò dove li piacque, e
lasciarono il paese di Provenza, ove erano stati predando i paesani e
affliggendo più di diciassette mesi continui in guastamento del paese.

CAP. XCVII.
_Come s’afforzò e guardò i passi dell’alpe perchè la compagnia non
passasse._
Poichè fu terminata la quistione dello Stale, sentendo il nostro
comune che la compagnia s’apparecchiava a quello luogo, avendo posto
campo tra Bologna e Imola, e temendo non prendesse indi suo vantaggio
in Toscana, senza perdere tempo vi mandò provveditori e maestri per
afforzare sì quel passo, che togliesse speranza alla compagnia, e a
qualunque altra gente volesse offendere il comune, di quindi passare.
E perchè a sicurtà i maestri e’ paesani potessono intorno a ciò
lavorare, vi mandò il comune balestrieri assai e altra gente d’arme
quale pensò alla difesa essere bastevole, con fare comandamento a
tutti i paesani e vicini a quello luogo che vi dovessono essere e
colle persone e colle bestie loro ad atare, tanto che ’l luogo fosse
abbastanza afforzato, i quali vi mandarono volentieri per tema di non
essere sorpresi incautamente dalla compagnia, che da quelli dell’alpe
si tenea offesa, e avea appetito di vendicarsi. L’opera fu di volontà
affrettata perchè il pericolo era vicino, e in piccolo tempo fu tutto
fornito, cominciando dalla vetta de’ colli e passando per lo tramezzo
delle valli, li fossi e li steccati, colle torri di legname e bertesche
spesse a guisa di mura di terra, con tre belle e forti bastite in su i
poggi per dare favore a quelli che difendessono i palizzati, e perchè,
se caso di rotta avvenisse, si potessono ricogliere a salvamento.
La chiusa per lungo fu intorno di passi ottomila, stendendosi insino
presso a Montevivagni. Quelli della compagnia, che s’erano alloggiati
in su quello d’Imola, più volte tentarono e per diverse parti passare
in sul nostro contado, ma sentendo ch’e’ passi dell’alpe erano bene
guardati (che più di dodicimila pedoni, la maggiore parte balestrieri,
talora fu che si trovarono allo Stale, senza quelli ch’erano all’altre
poste) mutarono proponimento, e rivolsonsi indietro nella Romagna,
e massimamente sentendo venuto in Firenze messer Pandolfo di messer
Malatesta da Rimini per capitano di guerra, non lasciando però le
minacce contro al nostro comune.

CAP. XCVIII.
_Come l’imperatore fece il duca d’Osteric re de’ Lombardi._
Carlo imperadore de’ Romani, essendo nel detto anno 1358 del mese di
settembre morto il duca vecchio d’Osteric, il giovane duca ch’era
rimaso signore si fece a parente, e gli diè una sua figliuola per
moglie; e lui volendo aggrandire, vedendo che la forza del genero
giunta alla sua era grandissima, e per l’avviso del conte di Lando
e degli altri caporali di lingua tedesca avea sentito, come le parti
d’Italia, massimamente Romagna e Toscana, erano male disposte, e atte
a potere venire sotto signore, si pensò ciò potere di lieve seguire
con titolo di signore naturale, perocchè il nome del tiranno a’ liberi
popoli, massimamente di Toscana, era terribile, e non potea essere
accetto, e per tanto il detto duca fece e pronunziò re de’ Lombardi. Il
duca, come giovane, e vago di crescere suo nome e signoria, accettò il
titolo del reame: ciò sentito in Italia, non fu senza gran temenza; il
perchè tantosto i signori e’ comuni s’intesono insieme, dando ordine
a leghe e a tutto ciò che pensarono essere necessario e bastevole a
impugnare l’impresa del nuovo signore.

CAP. XCIX.
_De’ processi della compagnia in questi giorni._
Noi dicemmo addietro come il capitano di Forlì per patto promise
quindicimila fiorini alla compagnia, e la cagione perchè, onde venendo
il tempo che pagare li dovea, e non avendo il di che, eziandio
affannando di presta i suoi cittadini, diede a’ caporali contanti
fiorini duemila: ed essendo suoi prigioni il figliuolo del conte
Bandino da Montegranelli, e due figliuoli del conte Lamberto della
casa de’ Malatesti detto il conticino da Ghiaggiuolo, i quali erano
stati presi nella guerra del cardinale di Spagna, loro assegnò alla
detta compagnia in parte di pagamento per fiorini diecimila. Currado
conte di Lando, sentendo l’impotenza del gentiluomo, coll’animo suo
diritto e libero dove avesse avuto di che sadisfare, cortesemente li
fece accettare, attendendosi dell’avanzo alla fede e promessa del
capitano; e per non stare in bargagno, avendo il conte bisogno di
danari, assentì il riscatto de’ detti prigioni per quattromila fiorini:
e ciò fatto, con tutta sua brigata prese cammino, e si strinse verso
quello d’Imola e di Faenza, cercando preda per vivere. E nei detti
paesi ha una valle grassa e abbondante d’ogni cosa da vivere che detta
è Limodiccio, la quale è circondata di poggi altissimi e aspri, e con
assai stretti cammini all’entrare e all’uscire per grandi montate e
scese: i villani di quel paese s’erano ridotti alle guardie de’ poggi
ov’erano l’entrate, non sperando che per lo grande disavvantaggio
di chi venisse di sotto gente d’arme gli andasse ad assalire, poco
avendo considerazione, che la fame fa cercare per lo cibo ogni
luogo segreto, e assalire eziandio le impossibili cose. Quelli della
compagnia assalirono le montagne con franchezza d’animo, facendo in
fatti d’arme maraviglie; il perchè i villani impauriti e inviliti
lasciarono i passi, e diersi alla fuga, onde la valle tutta venne in
potestà de’ nemici, dove trovarono assai roba da vivere. E a loro fu
bene bisogno di così trovare, per ristorare i disagi e la fame patita
a Forlì: ed ivi adagiato e loro e loro bestie, vi dimorarono fino a dì
16 del mese di ottobre. E mentre che stavano a Limodiccio; più volte
cercarono di passare in sul Fiorentino, ma ciò fu in vano; perocchè
trovavano onde speravano passare sì forniti e ordinati al riparo, che
non s’assicurarono di mettersi a partito. E andarono a Modigliana, e
assaggiarono il castello con battaglia, e niente poterono acquistare.
All’uscita del mese cavalcarono a Massa, che è del vescovo d’Imola,
e come suole avvenire de’ beni de’ cherici, che non contendono se
non a pelare, essendo il luogo male provveduto di guardia la presono,
dove trovarono assai roba da vivere e arnese da preda. Alla rocca non
feciono assalto, perocchè essendo nella guardia del signore d’Imola
era bene guarnita e apparecchiata a difesa. I mascalzoni per la troppa
roba vi trovarono vennono tra loro a discordia nel pigliare della roba,
e per non venire a peggio tra loro misono fuoco nella terra, e arse
tutta colla maggiore parte di ciò che v’era dentro, perchè convenne che
la brigata si partisse e accampasse di fuori; e quivi soggiornarono
alquanto verso i confini di Bologna: e non avendo la vittuaglia che
a loro bisognava, il signore di Bologna ne dava loro, e sostenneli
quivi tutto il mese di novembre. Ciò disse che fece, perchè il legato
Cardinale di Spagna era in cammino per passare in Romagna a ripigliare
la guerra, e non sapea l’intenzione sua, sicchè per gelosia di suo
stato era contento d’avere la compagnia di presso.

CAP. C.
_Come il re del Garbo fu morto._
Buevem re del Garbo, il quale volgarmente è detto il reame della
Bellamarina e di Tremusi, avendo lungo tempo con ardire e con senno
sostenuto l’onore di sua corona, e avendosi sottoposto, come nel primo
libro narrammo, gli altri re de’ barbari che gli erano vicini, cioè
quello di Costantina e quello di Buggea i quali tenea in prigione,
cadde in malattia da tosto guarire; ma la rabbia e la cupidigia del
signoreggiare accese gli animi de’ figliuoli, che per nobiltà doveano a
lui a tempo succedere, e sì lo strangolarono. E morto lui, il maggiore
di loro d’età di sedici anni nominato Bugale prese la signoria, e
fessi coronare, ma non con volontà e amore di tutti i baroni. Per la
qual cosa alquanti di loro, e non de’ minori, s’accostarono all’altro
fratello ch’era di meno giorni, cioè d’età di dieci anni, il quale era
oltre a quello che tale età richiedea e intendente e astuto; e il suo
nome era Bestiezti, e a lui dissono: Quando il padre tuo fu fatto re,
per potere regnare senza sospetto de’ suoi fratelli, a venticinque fece
tagliare la testa, e così pensa che tuo fratello farà a te: e però, se
vogli seguire nostro consiglio, noi ti faremo re colla nostra potenza,
se tu ci prometti di fare morire lui. La cagione di questo fu, ch’e’
dicea che i baroni non guidavano bene i fatti del reame. Il giovane per
venire alla corona con tutto il suo consiglio a ciò s’accordò. Perchè
essendo ancora il re giovane debole nella signoria nuova, e poco da
sè accorto e meno avvisato, fu da’ baroni preso per comandamento del
fratello, e come patricida saettato, sicchè in piccolo tempo spacciò
il regno acquistato col micidio del padre, e sè di vita. Gli altri
fratelli vedendo questo crudele principio fuggirono in Sibilia, e ’l
minore fatto re, colla sua forza rimase nelle mani de’ baroni, perocchè
non era in tempo da potere nè da sapere governare il reame. Con questa
malizia fu il maggiore fratello abbattuto, onde molti de’ baroni avendo
il re fanciullo a vile, occuparono assai delle giurisdizioni del reame.
Di questo seguette, che uno antico barone e di grande seguito di fuori
di Fessa si fece fare re alla setta sua, e cominciò a guerreggiare
il giovane re. Sentendo Suscialim fratello del re Buevem morto, come
dicemmo di sopra, il quale era fuggito in Sibilia, questa divisione
de’ baroni, richiese il re Pietro di Sibilia d’aiuto, il quale li
fece armare due galee e valicò a Setta, e là fu ricevuto come re; e
avendo aiuto da’ paesani se n’andò a Fessa, ove il giovane re era con
poco aiuto e consiglio; e però giunto a Fessa fu ricevuto come re; e
disposto il fratello, e messo in prigione, e accolte maggiori forze
andò contro al barone che s’era fatto re, il quale brevemente fece
morire, ed egli rimase libero signore del reame della Bellamarina: e
questo avvenne nel detto anno 1358. È vero che quando morì il gran re
Buevem, che i re che avea in prigione furono lasciati, e ripresonsi i
loro reami di Buggea e di Costantina: e il reame di Tremusi si rubellò,
e tornossi allo stocco de’ re usati.

CAP. CI.
_Come i cardinali ch’erano in Inghilterra si tornarono a corte._
Essendo il cardinale di Pelagorga e quello di Roma messer Iacopo
Capocci in Inghilterra, per seguire l’accordo de’ due re della pace
ordinata con titolo di santa Chiesa, e ’l cardinale il quale fu
cancelliere del re di Francia, il quale stava di là in proprio servigio
del detto re, avvedendosi l’uno dì dopo l’altro che l’operazioni del re
d’Inghilterra erano a impedire, che la moneta che si dovea pagare per
lo re di Francia, e li stadichi che si doveano dare non si fornissono;
e vedendo che il detto re mantenea in arme e in preda, e in grave
intrigamento de’ paesi di Francia, il re di Navarra, e che di continovo
li aggiugnea forza de’ suoi Inghilesi, per modo che i baroni colle
comunanze di Francia non aveano destro d’accogliere la moneta nè di
mandare li stadichi; e avendo di ciò per più riprese richiesto il re
d’Inghilterra che vi mettesse ammenda, ed egli risposto loro, che nol
potea fare; temendo che sotto l’ombra del dimoro non s’apparecchiasse
loro più vergogna che onore, se ne partirono: e per la loro partita
senza frutto feciono manifesto, che piuttosto guerra che pace dovesse
seguitare; come poi n’addivenne, secondo che a suo tempo racconteremo.
E questo fu del mese d’ottobre del detto anno.

CAP. CII.
_Della pace da Sanesi a’ Perugini._
Essendo dibattuti i Perugini e’ Sanesi nella loro guerra novella,
come per noi addietro è fatta memoria, essendo continovo il comune
di Firenze in sollicitudine di mettere tra loro pace co’ suoi
ambasciadori, e inframettendosi anche il legato di Romagna di questa
materia, all’ultimo l’uno comune e l’altro, avendo ciascuno voglia
d’uscire di guerra e di spesa più onestamente che potesse, si rimisono
negli ambasciadori del legato e de’ Fiorentini, i quali diligentemente
praticarono con catuna parte, per vedere se modo convenevole si potesse
trovare; e trovando che ’l dibattito era di potersi con alcuno mezzo
terminare; vollono che da catuno comune venissono sindacati, e la
fermezza de’ Perugini di quello, che per loro s’avesse a ordinare
di Montepulciano, e da’ Sanesi di Cortona: e avuti i sindacati e le
cautele che domandarono, diedono la sentenza, e tennonla segreta, e
feciono a catuno comune pubblicare la pace, e sicurare le strade e’
cammini, e feciono pubblicazione in catuna città, e in Firenze fu
celebrata solennemente dì ultimo del mese d’ottobre del detto anno:
dappoi si manifestò la sentenza, e fu in questo modo. Che tra i detti
comuni dovesse essere ferma, e buona e perpetua pace, e che i Perugini
dovessono lasciare libera la terra di Montepulciano a’ suoi terrazzani,
e dovessono patere mettere in Cortona da indi a quattro anni di tempo
in tempo podestà, e dove i Cortonesi non lo volessono, dovessono
dare il salario al detto podestà, il quale era di lire quattrocento
l’anno, e dovessono i detti Cortonesi ogni anno de’ detti quattro anni
dare a’ Perugini un palio di seta e che i Sanesi infra cinque anni
non potessono mettere podestà in Montepulciano, ma lasciare la terra
libera, e da cinque anni in là vi dovessono mettere podestà, ed avere
il censo usato. Quando dopo la pace predetta ne fu fatta pubblicazione,
e l’uno e l’altro comune se ne mostrò in grande turbazione, e ciascuno
mandò solenne ambasciata a Firenze per fare rivocare la detta sentenza.
Il comune di Firenze sentendo, che nel praticare della cosa gli
ambasciadori de’ detti comuni erano stati quasi in concordia di questo,
e che di nuovo non vi s’era fatto fuori che ’l termine e ’l modo delle
signorie, riprendendo onestamente i detti comuni in persona de’ loro
ambasciadori, rispose, che intendea che si osservasse la pace; ma però
non rimasono in vista contenti i detti comuni, benchè novità di guerra
non movessono insieme.

CAP. CIII.
_Come il cardinale tornò in Italia._
Io non posso fare ch’io non ripeta talora in alcuna parte le cose
già dette, non per crescere scrittura (perocchè le cose notabili che
occorrono continovamente tanto abbondano, che assai di spazio prendono
nel libro) ma per giugnere insieme e le vecchie e le nuove cagioni, che
ne’ principii non conosciute, o conosciute e non debitamente curate,
o che peggio diremo, per grazia o potenza de’ cittadini con infiniti
colori trapassate, hanno danni incredibili e pericoli gravissimi più
volte giattato, e ridotta nostra città in temenza di non perdere
sua libertà. E tutto che lo scrivere aperto in sì fatte materie,
massimamente per lo pugnere cui tocca, dalli pochi intendenti paia
ch’abbia in sè materia di cruccio e malevolenza, che nel vero appo li
savi no; ma pure così fare si dee da qualunque per beneficio di sua
città, e forse dell’altre prende la cura di scrivere; perocchè tacere
il male, e solo il bene mettere in nota, toglie fede alla scrittura,
e fa l’opera di meno piacere e profitto, e se sottilmente si guarda,
forse è dannoso, perocchè li rei sentendo occultare le loro opere più
baldanzosamente procedono al male, e di sè fanno specchio a coloro
che devono venire a invitarli per l’impunità del segreto peccato
alle pessime cose, d’onde tema d’infama li suole talora ritrarre, e
il comune, per non essere avvisato delle malizie passate, con meno
cautela e meno consiglio procede in quelle che li sono apparecchiate
dinuovo. Questo parlare a molti forse parrà di soperchio in questo
luogo, ma se si recheranno alla mente, per li ricordi che sono fatti e
nelle vecchie e nelle nuove scritture, i modi per li nostri cittadini
per l’addietro alcuna volta tenuti, troveranno, che chi per ottenere
beneficii ecclesiastici, chi per essere tesoriere e capitano nelle
terre della Chiesa di Roma, non solo hanno consigliato che sia dato
aiuto e favore non dico alla Chiesa di Dio, che si dee sempre fare, ma
ai forestieri, che sotto nome di duchi, conti, e capitani, o legati di
papa, o altri titoli onesti nel nome ma tiranneschi nel fatto, della
povertà di Provenza sono passati a signoreggiare i nobili e famosi
paesi d’Italia, ma hanno sforzato o in uno o in altro modo e sospinto
il nostro comune disonestissimamente a ciò fare. Il di che è più
volte seguito, che essendo il mondano e temporale stato della Chiesa
di Roma colla forza del nostro comune in Italia ingrandito e montato
in sommo grado di signoria, i governatori d’essa insuperbiti, posto
giù ogni religione e ogni vergogna, come ingrati e sconoscenti de’
beneficii ricevuti, a leggi e costumi di malvagi tiranni, hanno cerco
con trattati e tradimenti per occulte e coperte vie, infino a venire in
palese a volerci sottomettere a loro signoria, e torre nostra libertà;
il perchè è stato di necessità al nostro comune, per difendere suo
stato e giustizia, spendere milioni di fiorini, e che è stato peggio,
operarsi contro alla Chiesa di Roma, che ne diè il segno di parte,
sicchè si può dire quasi contro a sè stesso; e quanto che così suoni
il grido, il vero è stato, che non contro a Chiesa, ma contro a malvagi
pastori e mondani; e certo questo non è stato in pensiere a quelli che
hanno fatto procaccio delle prefende e d’altre cose, che dicemmo di
sopra. Or seguendo nostro trattato, conoscendosi per lo papa e per lo
collegio de’ suoi cardinali, i quali aveano rivocato da sua legazione
il legato di Spagna e posto in suo luogo l’abate di Clugnì, che esso
abate era uomo molle, e poco pratico e sperto, e sì nell’arme e sì
nelle baratte che richeggiono gli stati e le signorie temporali, e
che per tanto era poco ridottato e meno ubbidito, parendo loro che suo
semplice governo poco atto fosse ad acquisto, e pericoloso a sostenere
le terre che la Chiesa avea racquistate nella Marca e nella Romagna,
diliberarono di rimandare il cardinale di Spagna in Italia con più
pieno e largo mandato che per lo addietro, e così seguette; il quale,
tutto che fosse sagacissimo e astuto signore, non senza consiglio de’
nostri cittadini, di quella natura della quale avemo di sopra parlato,
fè la via per Firenze, dove fu a costuma di papa pomposamente ricevuto
con processione, e palio di drappo ad oro sopra capo, addestrato da’
cavalieri, e con altre ceremonie usate in simili casi per lo nostro
comune, che piuttosto in atto d’arme che d’uficio chericile era
mandato; li donarono due grandi destrieri, l’uno tutto di ricca e reale
armadura coverto, e tanti altri doni, che passarono i milledugento
fiorini d’oro. Giunto a Firenze, scavalcò a casa gli Alberti; e
sentendosi in Firenze che ’l paese ov’era destinato avea gran bisogno
di lui, per tutto si credette che giunto prendesse viaggio, ma
coll’usato consiglio de’ nostri cittadini rimase a Firenze per spazio
d’un mese, segretamente cercando l’accordo della compagnia, e lega col
nostro comune, nella quale offerea il signore di Bologna, e tutto facea
a suo vantaggio, e a mal fine e dannaggio di nostro comune; la qual
cosa conosciuta ruppe il ragionamento, e il legato ciò molto ebbe a
male, e si mostrò di partire malcontento dal nostro comune, avendo al
servigio di santa Chiesa del continovo dai cinquecento a’ settecento
cavalieri di quelli del comune di Firenze.

CAP. CIV.
_Come messer Gilio di Spagna parlamentò col signore di Bologna._
Partito il legato di Firenze, a dì 26 di dicembre detto anno, cavalcò
dalla Scarperia, e poi traversò per l’alpe, per non appressarsi a
Bologna, acciocchè ’l signore di Bologna non prendesse gelosia, e
andò a Castelsanpiero; e ivi il signore di Bologna messer Giovanni
da Oleggio gli si fece incontro bene accompagnato di gente d’arme, e
ricevettelo onorevolmente in Castelsanpiero. E ivi essendo amendue,
pochi giorni appresso feciono parlamento, ove furono ambasciadori
del marchese di Ferrara, e della gran compagnia, e d’altri signori e
comuni, nella quale in effetto nè de’ fatti della compagnia, nè del
signore di Forlì niuna concordia pigliare si potè. Il conte di Lando
venuto in Forlì per trovarsi di presso al legato s’arrestò ivi, e così
niente fatto si partirono; il legato si tornò a Imola, e gli altri alle
luogora loro.

CAP. CV.
_Come la compagnia si condusse per la Romagna._
Del mese di novembre sopraddetto la compagnia si partì dalla Massa
e andonne a Savignano, dove per difetto di vittuaglia stette poco,
e passò in quello d’Arimini, ove consumato in breve tempo quello che
accogliere poterono, per forza di fame più giorni strettamente patita,
come arrabbiati combatterono il castello di Sogliano, nel quale era
assai roba da vivere, e quello vinsono, e uccisono senza misericordia
niuna centoventitrè abitanti. E per la vittoria di quello sormontati
in orgoglio combatterono il Poggio de’ Borghi, e vinsonlo, e uccisono
centocinquantacinque uomini. Veggendo vinto le fortezze maggiori e più
atte a difesa, per paura le castellette vicine tutte s’abbandonarono,
nelle quali senza contrasto entrarono i nemici, ciò furono Raggiano,
Strigaro, Montecongiuzzo, Compiano, e Montemeleto, e più altre
terre poste in fortissimi luoghi in sulla stinca della montagna, ove
trovarono grande abbondanza di tutta la roba da vivere. E però quivi
s’arrestarono lungamente, tenendo in continovo sospetto il comune di
Firenze, che temeano non scendessono l’alpe dalla Faggiuola al Borgo a
Sansepolcro, e per quella di Bagno, e per questa temenza il comune di
Firenze vi pose quello riparo che si potè e di gente e d’amici.

CAP. CVI.
_Dello stato della Cicilia._
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