Cronica di Matteo Villani, vol. 3 - 16

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fu l’ultimo dì di giugno detto. Presa la terra, il legato mandò di
presente molti dificii a tormentare la rocca, e cavatori per cavare
e abbattere le mura, com’altra volta avea fatto il capitano; ma avea
molto rafforzati i fondamenti con gran pietre, e molte stanghe e
cinghie di ferro, ma poco valse, che in assai breve tempo quelli della
terra feciono i comandamenti del legato, come appresso racconteremo.

CAP. LXXX.
_Di processi fatti contro la compagnia per lo legato._
Avendo a questi dì la compagnia tentato di volere entrare in Toscana, e
trovati tutti i passi dell’alpe occupati e in guardia de’ Fiorentini, e
il più largo dello Stale afforzato da non mettersi a prova, con molto
sdegno contro al comune di Firenze valicarono in Romagna, e a dì 6
di luglio furono a Villafranca a tre miglia di Forlì con quattromila
cavalieri, i più bene armati e bene montati, e milleseicento masnadieri
e balestrieri, e grandissimo numero di ribaldi e di femmine al comune
servigio, seguitando la carogna della compagnia, e ivi a pochi dì
si misono al ponte a Ronto e posono il campo e afforzarlo. Il legato
vedendosi la compagnia presso, ristrinse tutta la sua gente in Cesena
e in Brettinoro, senza mettersi a campo o fare assalto contro a loro.
E per avere aiuto da’ fedeli di santa Chiesa, fece sopra la compagnia
il processo ch’avea fatto sopra il capitano di Forlì come suoi fautori,
e pronunziolli incorsi in quella medesima sentenza; e fece in Italia
bandire la croce sopra loro con maggiore istanza, e con maggior mercato
dell’indulgenza, e con minore termine del servigio che dato avea
contro al capitano, e mandò di nuovo i predicatori e gli accattatori a
sommuovere i popoli, e fece grande commozione, e raunò tesoro e gente
assai, come al debito tempo racconteremo,

CAP. LXXXI.
_Della gravezza facea il tiranno a’ Bolognesi._
Quando la compagnia fu valicata in Romagna, i duemila cavalieri che
messer Bernabò tenea sul Modenese, e appresso a Sassuolo in su quello
di Bologna, senza fare alcuna novità di guerra pur facea stare i
collegati in sospetto, e anche il legato, e però i Lombardi della
lega accolsono gente, e ’l tiranno bolognese fece a’ suoi Bolognesi,
per avere danari, sconvenevoli gravezze sopra l’usate. Perocchè ogni
mese volea da catuno de’ suoi sudditi soldi cinque di bolognini per
bocca di sale, e soldi quattro per macinatura la corba del grano,
oltre all’usata mulenda, e per ogni tornatura di terra soldi venti
di bolognini l’anno sopra l’altre gabelle delle porti, e del vino, e
dell’altre cose ch’entravano con some e con carra, che tutte erano
gabellate, e per questo modo traeva loro delle coste e de’ fianchi
libbre seicentomila di bolognini l’anno. E oltre a ciò, avendo tolto
loro l’arme, in questo tempo mandò bando, che chiunque l’amava andasse
nell’oste. Il popolo sottoposto al duro giogo, per ubbidire il tiranno,
si mosse con bastoni e con lanciotti in mano, ch’altr’arme non avea,
e andò dove fu il comandamento del tiranno, e nel campo stette due dì
senza mercato di vittuaglia a grande stretta di loro vita, e non osò
fiatare. La gente della lega era uscita fuori, e ingrossatasi, per
contastare la cavalleria di messer Bernabò, che si stava a Sassuolo,
avvenne, a dì 21 di luglio del detto anno, che trovandosi insieme parte
dell’una gente e dell’altra per scontrazzo, si combatterono tra loro,
e furono rotti quelli di messer Bernabò; gli altri suoi cavalieri,
sentendo quella rotta, si partirono, e tornarsi sani e salvi a Milano.
Dappoichè furono partiti si scoperse un trattato, che dovea essere data
loro la porta del castello di Bologna, e furono presi i traditori, e
giustiziati.

CAP. LXXXII.
_Come i Veneziani domandarono pace al re d’Ungheria._
I Veneziani vedendo che il re d’Ungheria gli guerreggiava in
Trevigiana, e in Ischiavonia e in Dalmazia con grave guerra, e ch’egli
avea preso ordine da poterla senza spesa e senza pericolo della
moltitudine degli Ungheri, usati di generare confusione, continuare,
conobbono che a loro era cosa incomportabile; e però elessono solenni
ambasciadori, e mandarli al re per addomandare pace, volendosi ritenere
Giadra, e renderli l’altre terre della Schiavonia, e darli per tempi
danari assai per l’ammenda; e fra l’altre terre che dare gli voleano,
nominarono Trau e Spalatro. I cittadini di quelle terre sentendo
ch’e’ Veneziani gli voleano dare al re d’Ungheria per loro vantaggio,
si accolsono insieme, e presono per consiglio di volere accattare la
benivolenza del re, e non attendere ch’e’ Veneziani ne volessono fare
loro mercatanzia; e però liberamente si diedono al re, e ricevettono la
sua gente e’ suoi vicari con grado in pace, e’ rettori e la gente che
v’era pe’ Veneziani rimandarono a Vinegia sani e salvi, e il re con gli
ambasciadori non volle accordo se non riavesse Giadra e l’altre terre
del suo reame.

CAP. LXXXIII.
_Come il legato ebbe la rocca di Brettinoro._
Il legato, ch’avea presa la terra di Brettinoro, e stretti quelli della
rocca per modo che poco si poteano tenere per la molta gente che dentro
v’era racchiusa, non ostante che vedessono l’oste della compagnia da
cui attendeano soccorso presso a tre miglia, feciono accordo, e diedono
stadichi, che se la domenica vegnente, a dì 23 di luglio anno detto, e’
non fossono soccorsi, s’arrenderebbono, salvo le persone, e l’arme e
’l loro arnese. Il capitano che v’era per lo legato, messer Galeotto,
provvide sì sollicitamente il dì e la notte che ciò non si potesse
fare, che non valse ingegno del capitano di Forlì, nè forza ch’avesse
la compagnia, che fornire o soccorrere la potessono; e valicato
il giorno, la sera medesima, ch’era il termine, s’arrenderono, con
onorevole vittoria del legato, e abbassamento della fallace fama della
compagnia, e della pertinace superbia del capitano.

CAP. LXXXIV.
_Come si bandì la croce contro la compagnia._
Seguita, che per tema della compagnia, la quale ogni dì crescea, il
legato avea oltre al processo della croce bandita mandato a richiedere
aiuto contro alla compagnia a tutti i Toscani, e più confidentemente
dal comune di Firenze, e mandovvi suo legato un vescovo di Narni
Fiorentino chiamato frate Agostino Tinacci de’ frati romitani, buono
Altopascino; costui con grande solennità fece tre dì ogni mattina
in Firenze processione, e acconsentitagli da’ signori, per reverenza
della Chiesa sonate tutte le campane del comune a parlamento, in sulla
ringhiera de’ priori fatta sua predica, pubblicò il processo fatta
contro alla compagnia, e pronunziò l’indulgenza a chi prendesse la
croce, e allargò che dodici uomini potessono concorrere al soldo d’uno
cavaliere, e raccorciò il tempo del servigio in sei mesi ov’era in
dodici; e ancora più, che prenderebbe ciò che gli uomini e le femmine
gli volessono dare, e dispenserebbe con loro; e divolgato il fatto,
tanto fu il concorso degli uomini e delle donne della nostra città, che
senz’altra provvisione di suo mandato gli portavano i danari per modo,
ch’e’ non potea resistere di potere ricevere e di porre la mano in
capo: e trovossi di vero, ch’e’ ricevea per dì mille, e milledugento,
e millecinquecento fiorini d’oro, e in non molti dì raunò più di
trentamila fiorini d’oro, i più dalle donne e dalla gente minuta. Il
comune per sè avea diliberato di volere mandare aiuto al legato, ma
avvedendosi tardi per gli suoi cittadini ch’aveano già piene le mani
agli accattatori, vide co’ savi, che ’l comune per tutto il popolo
potea avere l’indulgenza, volendo servire di prendere l’aiuto della
Chiesa, per avere il beneficio dell’indulgenza; e però convertì la
sua gente a fare il servigio per tutto il comune, acciocchè ogni uomo
avesse il perdono; e così fatto, il detto vescovo, a dì 26 di luglio
anno detto, pronunziò il perdono a tutti i cittadini, e contadini e
distrettuali di Firenze, i quali fossono confessi e pentuti de’ loro
peccati, o che fra tre mesi avvenire si confessassono. E nota, che in
nove anni tre volte si concedette questo perdono; nel 1343, quando fu
la generale mortalità, e l’anno del cinquantesimo, e in questa guerra
romagnuola.

CAP. LXXXV.
_Aiuti mandarono i Fiorentini al legato._
Il comune di Firenze, a dì 20 di luglio anno detto, fatto capitano
messer Manno di messer Apardo de’ Donati, e datogli il pennone del
comune, il mandarono in Romagna con settecento barbute di buona gente,
e con ottocento balestrieri, affinchè la battaglia si prendesse colla
compagnia; e oltre a ciò v’andarono singulari masnade di cittadini e’
contadini crociati, che furono dugento a cavallo e duemila a piè. E
contando la raccolta de’ danari, e la spesa del comune e de’ singulari
uomini, più di centomila fiorini costò la beffa al comune di Firenze a
questa volta. È vero che ’l tutto s’intendea a combattere la compagnia,
e però vi mandò il comune un confidente cittadino popolare, il quale in
segreto si dovesse strignere col legato, e con autorità di promettere
ventimila fiorini d’oro per lo comune a’ soldati se vincessono la
compagnia; ed era tanta la buona gente ch’avea il legato, e quella
del comune di Firenze, e de’ crociati che v’erano di volontà, ch’assai
se ne potea sperare piena vittoria. Il legato n’avea dato di prima al
comune buona speranza, e ancora poi il suo ambasciadore, ma appresso,
o che il legato invilisse, impaurisse di mettersi a partito, o che non
si confidasse de’ soldati, dissimulò il fatto, e tennelo pendente, e
mantennesi in riguardo, dando ardimento agli avversari, e viltà alla
sua parte che gli tornò in poco onore.

CAP. LXXXVI.
_Come i Genovesi ebbono Ventimiglia._
Di questo mese di luglio, tenendosi la città di Ventimiglia per i
figliuoli e consorti di messer Carlo Grimaldi, e non ubbidivano il
comune nè ’l doge di Genova, per la qual cosa il doge diede boce di
volere fare guerra a’ Catalani, e per questo fece armare venti galee:
e avendo alcuno trattato in Ventimiglia, costeggiando la riviera, come
furono a una punta di mare presso alla terra di Ventimiglia feciono
scendere masnade e balestrieri con un capitano, il quale gli menò
copertamente sopra la città da quella parte dove era il trattato, e
dove non si prendea piena guardia, e le galee andarono per mare; e
giunte nel porto, volendo prendere una galea armata di quelli di Monaco
che v’era dentro, i terrazzani per difendere la galea tutti trassono
alla marina; e in questo, l’aguato de’ Genovesi ch’erano smontati sopra
la terra scesono alla porta, e senza contasto entrarono nella città, e
presono la guardia della porta, e feciono il cenno ordinato alle galee,
le quali si strinsono alla terra. I cittadini di presente conobbono
ch’alla difesa non avea riparo, e però ricevettono i Genovesi come
maggiori, ed eglino, senza alcuna novità fare nella città, presono la
signoria della terra per lo comune di Genova e per lo doge, e’ Grimaldi
che la teneano se n’andarono colle persone e coll’avere a Monaco, e le
galee si ritornarono a Genova.

CAP. LXXXVII.
_Come l’arciprete con compagnia entrò in Provenza._
Essendo in alcuno sollevamento delle guerre il reame di Francia per
la presura del re e de’ baroni, molti uomini d’arme non avendo soldi,
per alcuna industria, secondo che la fama corse, del cardinale di
Pelagorga zio del figliuolo del duca di Durazzo, i quali erano dal re
Luigi e da’ suoi fratelli male stati trattati, essendo messer Filippo
di Taranto fratello del re Luigi in Provenza, mosse l’arciprete di
Pelagorga, uomo bellicoso e di mala fama, il quale si fece capo d’una
parte de’ Guasconi acconci a fare ogni male, e di volgo il nome di
fare compagnia. E con lui s’accostò messer Amelio del Balzo e messer
Giovanni Rubescello di Nizza, e molti uomini d’arme ch’aveano voglia
di rubare s’accozzarono con loro, sicchè in pochi dì accolsono ed
ebbono nelle contrade di Ponte di Sorga di là dal Rodano più di duemila
cavalieri, e stesonsi inverso Oringa e Carpentrasso, standosi per le
villate e a campo senza rubare o far danno al paese, ma per paura i
paesani davano loro vittuaglia. Messer Filippo di Taranto, ch’era in
Provenza, volendo riparare che non entrassono nella Provenza del re
di qua dal Rodano, accolse suo sforzo di Provenzali, e fece, capo a
Orgona, e stese la guardia sua su per lo fiume della Durenza. Ma la
sua gente era poca, e mancava, e la compagnia cresceva, perchè il
papa e tutta la corte ne cominciò forte a temere. Ma i capitani della
compagnia ammaestrati della corte medesima, mandarono ambasciadori al
papa per assicurarlo, che contro della corte e alle terre della Chiesa
non intendeano fare alcuno male, e per sicurtà offeriano i saramenti
de’ caporali, e stadichi, se gli volesse, ma la loro intenzione era
d’andare contro a messer Filippo di Taranto, il quale aveano per loro
nemico, e di guerreggiare le sue terre e del re Luigi. E ivi a pochi
dì valicarono il Rodano ed entrarono in Provenza, che messer Filippo,
non avea forza da campeggiare con loro, e cominciarono a correre il
paese, e a guastarlo, e a uccidere e a predare in ogni parte; e presono
Lallona buona terra e piena d’ogni bene, e poi andarono infino a san
Massimino, e anche il presono, e più altre castella. Le buone terre
s’armarono alla difesa, e ’l papa fece afforzare Avignone, e guardare
la città, e d’altro non s’intramise: e così tutta la state consumarono
quel paese.

CAP. LXXXVIII.
_Come il conte di Fiandra rendè Brabante alla duchessa facendo pace._
Noi dicemmo poco addietro che la duchessa di Brabante era tornata, e
’l conte di Fiandra pazientemente l’avea comportata, perocchè era sua
cognata, e perchè sapea la natura de’ Brabanzoni, che non si potrebbono
tenere sotto la signoria de’ Fiamminghi, e già parecchi buone ville
aveano accomiatati gli uficiali del conte; e avvegnachè fortuna
l’avesse fatto signore di Brabante, la sua intenzione non era di volere
altro che Mellino, ch’egli s’avea comperata con giusto titolo. E però,
essendo trattato della pace nella festa che fece l’imperadore, il conte
si dichinò benignamente alla cognata, e rendelle la signoria di tutto
Brabante, con patto, ch’alcuno lieve omaggio ella ne facesse alla
compagna sua sirocchia, e che a lui rimanesse libera la signoria di
Mellino. E fermata la concordia, con gran piacere de’ Fiamminghi e de’
baroni si pubblicò la pace del mese di luglio del detto anno.

CAP. LXXXIX.
_Come il legato s’accordò colla compagnia per danari._
Tornando a’ fatti della compagnia, seguita a contare poco onore di
santa Chiesa e di due comuni di Toscana. Messer Egidio cardinale di
Spagna legato avendo, com’è detto, da sè molta buona gente d’arme, e
accoltane per l’indulgenza della croce maggior quantità, sicchè assai
si trovava più forte che non era la compagnia per poterla combattere,
e promesso l’avea alle comunanze di Toscana e nelle prediche della
croce, e se alla fortuna della battaglia non si volea abbandonare per
senno, almeno standosi a riguardo si conoscea manifesto, che dov’elli
erano poco poteano soggiornare che non aveano vivanda, e volendosi
partire, avendo tanti nimici a petto, male il poteano fare senza
loro gran danno. Tanto invilì la loro vista l’animo del legato, che
infino allora era da pregiare sopra gli altri baroni, ch’e’ si mise
in trattato col conte di Lando capitano della compagnia, e fecelo più
volte venire a sè: e in fine prese accordo, ch’e’ si dovesse partire
colla sua compagnia e tornarsene in Lombardia, e liberare tre anni le
terre della Chiesa, e la città di Firenze, di Pisa, di Perugia, e di
Siena, avendo la compagnia dal legato e da’ detti comuni cinquantamila
fiorini d’oro, e cominciasse il termine di calen di novembre 1357. Il
comune di Perugia e quello di Siena se ne feciono beffe, e non vollono
attenere quello che il legato n’avea ordinato. I Fiorentini furono
contenti, e pagarono per la loro rata sedicimila fiorini: e’ Pisani
anche s’acconciarono, e pagarono la loro rata e il legato la sua. E
avuto il tributo della Chiesa, e de’ maggiori comuni di Toscana, ove
si conoscevano essere a mal partito, baldanzosi e lieti si tornarono in
Lombardia, in grande abbassamento dell’onore del legato; e se senno fu,
troppa codardia vi si nascose dentro.

CAP. XC.
_Ricominciamento dello studio in Firenze._
Del mese d’agosto del detto anno, i rettori di Firenze s’avvidono,
come certi cittadini malevoli per invidia, trovandosi agli ufici,
aveano fatto gran vergogna al nostro comune, perocchè al tutto aveano
levato e spento lo studio generale in Firenze, mostrando che la
spesa di duemila cinquecento fiorini d’oro l’anno de’ dottori dovesse
essere incomportabile al comune di Firenze, che in un’ambasciata e
in una masnada di venticinque soldati si gittavano l’anno parecchie
volte senza frutto e senza onore, e in questo si levava cotanto onore
al comune; e però ordinarono la spesa, e chiamarono gli uficiali
ch’avessono a mantenere lo studio; e benchè fosse tardi, elessono i
dottori, e feciono al tempo ricominciare lo studio in tutte le facoltà
di catuna scienza. E di questo mese nacquono in Firenze due leoni.

CAP. XCI.
_Come si trovarono l’ossa di papa Stefano in Firenze._
In questo mese d’agosto, cavandosi a lato all’altare di san Zanobi
nella chiesa cattedrale di Firenze, per fare uno de’ gran pilastri per
la chiesa nuova, vi si trovò uno monumento verso tramontana, nel quale
erano l’ossa di papa Stefano nono nato di Lotteringia, e così diceano
le lettere soscritte nella sua sepoltura; e in sul petto gli si trovò
il fermaglio papale con pietre preziose e con lo stile dell’oro, e
la mitra in capo e l’anello in dito; e raccolto ogni sua reliquia, si
riserrarono appo i canonici per fargli al tempo onorevole sepoltura.
Questi sedette papa mesi dieci; e morì gli anni 1088.

CAP. XCII.
_Leggi fatte sopra i medici._
Cominciossi di questo mese d’agosto nel Valdarno di sotto, e in
Valdelsa, e in Valdipesa, e in molte parti del contado di Firenze e
nel suo distretto, un’epidemia d’aria corrotta intorno alle riviere
che generò molte malattie, le quali erano lunghe e mortali, e grande
quantità d’uomini e di femmine mise a terra, e assai cavalieri di
Firenze stati in contado morirono, che fu singolare cosa, e durò fino
a mezzo ottobre; e in Firenze morirono assai uomini e donne, ma de’
cinque i quattro tornati di contado malati. Fece allora il comune
per riformagione, che niuno medico dovesse andare a vicitare alcuno
malato da due volte in su, se il malato non fosse confessato, avendo
di ciò degna testimonianza, sotto pena di libbre cinquecento, e che
di ciò catuno medico dovesse fare ogni anno saramento alla corte
dell’esecutore. La legge fu buona, ma l’avarizia de’ medici e la
pigrizia de’ malati, mescolata colla cattiva consuetudine, fece perdere
l’esecuzione di quella, che se fosse messa in pratica, e tornata in
consuetudine, era gran beneficio dell’anime e santa de’ corpi.

CAP. XCIII.
_Come i Genovesi ebbono Monaco._
Avendo avuto il doge di Genova onore d’avere racquistata la città di
Ventimiglia, fece armata di quattordici galee, e sei ne mandarono
i Pisani ch’erano in lega col loro comune; e queste venti galee
misono nel porto ch’è sotto il castello, e sopra Monaco di verso la
montagna misono quattromila fanti armati, tra’ quali avea di molti
balestrieri, che di notte guardavano i passi della montagna; e tenutolo
così assediato un mese, e tentatolo con loro danno alcune volte di
battaglia, perocch’era troppo forte, vi si stavano. I Grimaldi che
’l teneano pensarono che a lungo andare e’ non potrebbono contastare
al comune, ed essendo preso in Genova un figliuolo di messer Carlo
Grimaldi, trattarono di volere dare il castello di Monaco al doge e
al comune per danari, e riavere il figliuolo di messer Carlo libero
di prigione, ed essere ribanditi; e venuti a concordia, ebbono contati
fiorini sedicimila d’oro, e quattromila ne scontarono per la prigione,
e renderono Monaco al comune di Genova; il quale aveano tenuto
trentadue anni in loro balía, che rade volte aveano ubbidito al loro
comune, e sempre corseggiato e tribolato i navicanti di quel mare, e
fatto del luogo spilonca di ladroni; e questo fu il dì di nostra Donna
a mezzo agosto del detto anno.

CAP. XCIV.
_Come il cardinale assediò Forlì._
Avendo, come detto è, il cardinale fatta partire la compagnia di
Romagna, e trovato il capitano di Forlì ostinato e indurato di non
volere venire all’ubbidienza di santa Chiesa, e volendo il cardinale
tornarsene a corte; innanzi la sua partita ordinò coll’altro legato,
ch’era l’abate di Giugni, d’assediare la città di Forlì, e all’uscita
d’agosto vi posono il campo con duemila cavalieri e con gran popolo,
e cominciarono a dare il guasto intorno alla città, e ’l capitano
con grande animo si ristrinse con pochi soldati a cavallo, e co’
suoi cittadini alla guardia della terra, e provvedutosi delle cose
bisognevoli alla vita, si mise francamente alla difesa: e spesso a
sua posta usciva fuori con sua gente, e assaliva i nemici al campo e
danneggiavali, e per savia condotta si ricoglieva a salvamento. E a
suo diletto inducea i giovani garzoni all’esercizio della guerra, e
tornando nella terra, tutti li facea venire innanzi, e giocandosi con
loro dicea delle loro valantrie, e raccontava com’eglino avien fatto,
e a quelli ch’erano più iti innanzi dava a catuno uno grosso, o due o
tre bolognini. E per queste lusinghe, e per queste lievi provvisioni,
movea i giovani a seguitarlo senza richiesta di grande volontà, e per
sperimentarli nell’arme. E con questo si faceva tanto amare da loro,
che non gli bisognava guardia per alcuno sospetto, e ’l tedio dell’ozio
degli assediati mitigava con alcuno diletto del continovo esercizio;
e guida vali sì saviamente, ed era sì ubbidito da loro, che niuno ne
perdea, e poca speranza dava a’ nemici di vincere la città.

CAP. XCV.
_Come il re d’Inghilterra ruppe i patti della pace._
Tornando alquanto nostra materia al fatto de’ due re, ed avendo
narrata la festa che fu fatta a Londra quando vi giunse il re di
Francia, credendosi per tutti che la pace fatta tra’ legati e ’l duca
di Guales a Bordello per lo re Adoardo si dovesse confermare, essendo
però valicati nell’isola i cardinali e molti baroni di Francia,
strignendo il re e ’l suo consiglio a dar fine e fermezza all’opera,
il re d’Inghilterra, mostrandosi a ciò volonteroso, mantenea la cosa
sospesa, oggi con una cagione e domani con altra, e però non rompea
il trattato; e spesso infingea cagione a’ Franceschi, e dimostrava che
’l fallo fosse loro, e poi l’acconciava, a facevane muovere un’altra.
E per questo modo maestrevolmente e per sua astuzia ritenea il re e
’l figliuolo, e’ baroni e’ cavalieri ch’avea prigioni in Inghilterra,
come egli desiderava; e tanto avvolse questa materia, che straccò i
legati e i baroni ch’erano di là valicati; i quali vedendosi menare al
re con queste simulazioni senza frutto, all’uscita del mese d’agosto
anno detto abbandonarono il trattato, e tornarsi nel reame di Francia,
e per tutto la boce corse che la pace era rotta, e che al primo tempo
il re d’Inghilterra dovea venire a Rems e farsi coronare del reame di
Francia, e non fu senza cagione revelata del segreto: ma indugiossi
più, e il trattato della pace senza il suo effetto poco appresso si
riprese, e tornarono nell’isola i legati.

CAP. XCVI.
_Della mostra fatta a Avignone di cortigiani per tema della compagnia._
Di questo mese d’agosto, nella compagnia dell’arciprete di Pelagorga,
ch’era in Provenza, s’aggiunse il conte d’Avellino e cinque nipoti di
papa Clemente sesto, e trovaronsi più di tremila barbute, e scorsono
predando e guastando la Provenza infino a Grassa, e non trovarono
contasto fuori delle terre murate. Vedendo il papa crescere questa
tempesta, volle vedere in arme tutti i cortigiani, e fece ordinare
di fare la mostra, che fu grande e bella, perchè catuno si sforzò
di comparire in arme, e trovaronsi in questa mostra quattromila
Italiani tutti bene armati, ch’erano due cotanti o più che tutti gli
altri cortigiani. E come furono armati e raunati insieme, gridavano e
volevano correre sopra i cardinali nipoti di papa Clemente, dicendo,
ch’erano autori di quella compagnia, che conturbava la corte e tutta la
mercatanzia, e a gran pena furono ritenuti da’ loro capitani. Il papa,
veduta la mostra, ordinò di fare rifare le mura e’ fossi d’Avignone, e
riparare le porti per tenere la città sicura; altro rimedio di fuori
contro alla compagnia non prese, ma stava continovo la corte in gran
paura, e in vergognosa vacazione di tutti i mestieri.

CAP. XCVII.
_Come il re Luigi da Messina tornò a Napoli._
Il re Luigi avendo con danno e con vergogna levata l’oste sua da
Catania, come narrato abbiamo, e non trovandosi in mare nè in terra
potente da rifare oste, e i suoi avversari aveano ripreso ardire
della loro vittoria; e sentendo il regno di qua dal Faro in molta
discordia per la ribellione di messer Luigi di Durazzo e del conte
di Minerbino, i quali teneano in guerra la Puglia, e molti caporali
di ladroni rompevano le strade e’ cammini; non ostante ch’egli avesse
promesso a’ Messinesi di stare alcun tempo risedente a Messina, cambiò
proposito, per non correre in peggio, e a dì 30 d’agosto del detto anno
si partì da Messina in su una galea d’Ischia, e pose a Reggio, ov’era
prima venuta la reina. E in Messina lasciò suo vicario un figliuolo
del gran siniscalco con trecento cavalieri alla guardia della terra,
confidandosi sopra tutto in messer Niccolò di Cesaro e nel suo seguito,
ch’aveano cura alla guardia per loro medesimi, ch’aveano di fuori
i loro avversari. E poi da Reggio per Calavria e per Puglia se ne
tornarono a Napoli, del mese di settembre del detto anno.

CAP. XCVIII.
_Come si perdè Governo a’ Mantovani._
I signori da Gonzaga, essendo uomini savi di guerra, avendo lungamente
tenuta la signoria di Mantova, vicini e in mezzo tra’ signori di Milano
e quelli di Verona, avean provveduto di tenere salvo gran parte del
loro contado in questo modo. La loro città è posta nel mezzo d’un lago
di fiumi correnti, e di questo lago di verso levante alla città esce un
fiume, che si stende correndo verso mezzo dì ed entra in Po; e dov’egli
entra in Po è un castello e un ponte: il castello si chiama Governo:
e dall’uscita del fiume al detto castello ha dieci miglia di terreno,
e per i Mantovani è alzato e fortificato un argine sopra il fiume
dal lato d’entro, e fattovi forti steccati e molte bertesche a potere
fare ogni gran difesa. E dall’altra parte del lago, di verso ponente
alla città e di lungi tre miglia, esce un altro fiume, e corre verso
mezzo dì anche al Po, e stendesi ancora per dieci miglia di terreno,
e l’argine di questo fiume è fatto maggiore e più forte che l’altro,
e steccato e imbertescato a ogni difesa, e in sul Po s’aggiugne a
un forte castello de’ Mantovani che si chiama Borgoforte, e anche a
questo castello è un ponte sul Po. Tra queste due fiumare si stende un
gran contado tutto piano, e di buono terreno da lavorare, e ubertuoso
di frutti e di vittuaglia. Questo contado per infino a qui per forza
ch’avessono i tiranni vicini non avien mai potuto noiare, e viveanne i
Mantovani in grande sicurtà, e chiamavano questo contado la Serraia.
In questi dì era guerra tra’ signori di Milano e quelli di Mantova,
e però i Mantovani avieno mandate masnade di fanti a piè alla guardia
del ponte e anche di Governo, e anche de’ loro soldati a cavallo, tra’
quali era un conestabile che avea ricevuta ingiuria da’ signori da
Gonzaga. Costui ordinò, che là venisse la gente de’ signori di Milano
per suo trattato, e diede loro il passo del ponte, mostrando a’ suoi,
che come ne fosse passati una parte darebbono loro addosso, e tutti
gli avrebbono a mansalva; ma innanzi che il traditore si mettesse al
contasto ve ne lasciò tanti venire, che a’ suoi per necessità convenne
abbandonare il campo e ’l castello; e per questo modo fu preso il forte
passo di Governo, da potere correre ed entrare nella Serraia; e questo
fu all’uscita del mese d’agosto anno detto.

CAP. XCIX.
_Come i signori di Milano presono Borgoforte, e assediarono Mantova._
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