Cronica di Matteo Villani, vol. 3 - 04

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per forza, ma non ebbono podere d’accostarsi alle mura, e con vergogna
si tornarono addietro. Ma poi i Grossetani per fuggire la guerra
de’ loro vicini s’accordarono co’ Sanesi, e ricevettono la loro
signoria. A Montepulciano non vollono andare, perchè sentirono ch’e’
Montepulcianesi erano provveduti alla loro difesa, non ostante che per
loro si tenesse la rocca del castello, ma non potea dare l’entrata.

CAP. XLIII.
_Come l’imperadore domandò menda a’ Pisani._
Essendo l’imperadore a Pietrasanta ove gli pareva essere sicuro dal
furore del popolo, e pertanto traendo l’animo suo alla cupidigia più
che all’onore imperiale, mandò a Pisa per certi cittadini caporali
del nuovo reggimento, e fugli mandato messer Paffetta con altri cinque
cittadini; e avendo costoro a se, disse, che voleva dal comune di Pisa
l’ammenda del danno ricevuto al tempo del romore; del suo disonore
e della morte de’ suoi cavalieri non fece conto. Questi cittadini
tenendosi in istato per lui, e acciocchè ’l suo vicario li mantenesse
negli onori, gli terminarono per ammenda fiorini tredicimila d’oro,
ed egli ne fu contento; e tanto attese che gli furono mandati, e quitò
del danno ricevuto il comune di Pisa. L’ingiuria e la vergogna sfogata
nel sangue degl’innocenti, con più gravezza il seguitò per lunghi tempi
infino nella Magna.

CAP. XLIV.
_Come i Sanesi vollono fornire la rocca di Montepulciano, e non
poterono._
Messer Niccolò e Messer Iacopo de’ Cavalieri di Montepulciano, che
furono tratti della terra quando l’imperadore andò a desinare con loro,
ed essendo nel cammino di Roma, come già è detto, quando sentirono la
revoluzione del popolo e del patriarca si tornarono in Montepulciano,
e avendo accolta gente d’arme coll’aiuto de’ loro terrazzani s’erano
afforzati, e aveano assediati i Sanesi ch’erano nella rocca. Il popolo
e gli artefici di Siena baldanzosi per la presura di Massa e per
l’ubbidienza di Grosseto accolsono la loro potenza a cavallo e a piede,
e andarono per fornire la rocca di Montepulciano. I terrazzani co’ loro
signori provveduti di buona gente d’arme ordinatamente prenderono loro
vantaggio, e ributtarono i Sanesi addietro con danno e con vergogna:
e fatto questo, incontanente quelli della rocca s’arrenderono a’
terrazzani, i quali di presente la disfeciono, e fortificarono le mura
della terra, e d’un animo, per lo tradimento che i Sanesi feciono a’
loro signori narrato addietro, si disposono e ordinarono alla difesa
contro a loro.

CAP. XLV.
_Come i Veneziani feciono pace co’ Genovesi senza i Catalani._
Partendoci un poco di Toscana, i Veneziani non senza ammirazione ci si
apparecchiano, nè però a loro cosa nuova, ma forse non troppo onesta.
Compagni e collegati erano stati lungamente col re d’Araona e co’
suoi Catalani contro a’ Genovesi, e fatte con loro diverse e gravi
battaglie, nelle quali comunemente aveano partecipato lo spargimento
del loro sangue, e perdimento di navili nelle sconfitte, e l’onore e
’l navilio e la preda nelle vittorie acquistate; e ancora essendo in
lega e in giuramento con quel re e con quella gente, stretti dalla
paura de’ Genovesi, che poco innanzi gli aveano mal guidati nel porto
di Sapienza, e temendo che non si allegassono contro a loro col re
d’Ungheria, a cui eglino teneano occupata Giadra e gran parte della
Schiavonia, posponendo la vergogna della fede che rompeano a’ Catalani,
senza loro consentimento, all’uscita di maggio predetto fermarono pace
co’ Genovesi in questa maniera: che la pace dovesse avere tra loro
cominciamento a dì 28 del mese di settembre prossimo avvenire, e che
fra questo termine il re d’Aragona co’ suoi Catalani con certi patti
potesse venire, s’e’ volesse, alla detta pace, e se non, rimanesse
in guerra co’ Genovesi senza i Veneziani: e fu di patto, che infra
questo tempo niuno comune dovesse dinnovo armare, ma se le galee e’
legni armati di catuno comune ch’erano in mare in diverse parti del
mondo s’abboccassono e facessono danno l’uno all’altro, intendessesi
essere fatto per buona guerra, e ciò che n’avvenisse, e’ non avesse a
maculare la detta pace. E’ Veneziani promisono di stare tre anni senza
andare colle loro galee o altri navili alla Tana, ma in questo tempo
fare loro porto e mercato a Caffa. E promisono i Veneziani a’ Genovesi
per ammenda, e per riavere i loro prigioni, in certi termini ordinati
dugento migliaia di fiorini d’oro, e’ prigioni di catuna parte furono
lasciati liberamente.

CAP. XLVI.
_Come si fè l’accordo dal legato a messer Malatesta da Rimini._
Messer Malatesta da Rimini, il quale tenea occupata a santa Chiesa
Ancona con gran parte della Marca e alquante terre in Romagna,
trovandosi assottigliato del danaro e della rendita per la tempesta
della compagnia e per la sconfitta ricevuta dalla Chiesa, e preso il
fratello, e i sudditi tanto gravati che più non poteano sostenere,
e avendo addosso il legato a cui al continovo accresceva forza, e da
niuno signore o comune di Toscana contro alla Chiesa non potea avere
aiuto, e col legato non trovava accordo con patti, avendone lungamente
fatto cercare, conoscendo egli e’ suoi essere naturali guelfi,
che la pace piuttosto che la guerra potea mantenere il loro stato,
confortato da’ suoi amici e di santa Chiesa, che il legato gli sarebbe
benivolo e grazioso, s’arrendè liberamente alla sua misericordia,
e liberamente rendè a santa Chiesa quante terre tenea nella Marca e
in Romagna; e il legato ricevuto ogni cosa in nome di santa Chiesa,
essendo grato dell’onore ricevuto da’ Malatesti, e per compiacere a’
guelfi d’Italia, avendo promesso e giurato messer Malatesta e’ suoi
di stare in ubbidienza, e di mantenere lealtà e fede a santa Chiesa,
acciocchè potessono a onore mantenere loro stato, diede loro la libera
giurisdizione e signoria di cinque città, ciò sono, Rimini, Pesaro,
Fano, Fossombrone, e .... co’ loro contadi, per dodici anni avvenire;
le quali riconobbono la santa Chiesa, e promisono di darne per censo
ogni anno alla Chiesa certa piccola quantità di pecunia, e compiuto il
termine, farne la volontà di santa Chiesa. E rimasi contenti e in pace,
messer Malatesta e’ figliuoli e’ fratelli cominciarono fedelmente a
seguitare il legato, e a servire la santa Chiesa; ed essendo singulari
amici de’ Fiorentini, assai con più fidanza gli adoperava e onorava
il legato ne’ fatti della guerra. E questa pace e accordo fu fatto
all’uscita di maggio del detto anno.

CAP. XLVII.
_Come i Genovesi appostarono Tripoli._
Avea il comune di Genova, innanzi la pace fatta co’ Veneziani, armate
quindici galee di loro cittadini, e fattone ammiraglio Filippo Doria,
ed era l’intenzione del comune di fare prendere la Loiera in Sardigna
per alcuno trattato, che si menava per un soldato ch’era alla guardia
di quella; e giunti in Sardigna, trovarono che il trattato non ebbe
effetto. Allora l’ammiraglio si pensò di fare maggiore impresa, e
avea l’animo a diverse terre per via di furto: e arrivati in Cicilia
a Trapani, ebbe avviso, come Tripoli di Barberia era per un vile
tirannello rubellato alla corona, ed era male guernito alla difesa
d’un subito assalto, e per questo fece in Trapani fare scale e
altri argomenti da potere combattere alle mura, tenendo segreta sua
intenzione; e quando si vide apparecchiato, fece muovere le sue galee
verso la Barberia. E giunto a Tripoli, mostrando d’andare pacificamente
per mercatanzie, trovando due navi del signore cariche di spezieria
che venivano d’Alessandria, si mostrarono come amici, e al signore
feciono domandare licenza di potere mettere scala in terra per alcuno
rinfrescamento, e il signore la concedette. L’ammiraglio mise in terra
alquanti de’ suoi più savi e provveduti vestiti vilmente a modo di
galeotti per comperare alcune cose per rinfrescamento, e commise loro
che provvedessono il modo della guardia di quelli Saracini e di loro
aspetto, e l’altezza delle mura della città, e da qual parte fosse
più debole. Il signore più per paura che per amore fece fare onore a’
galeotti, e nondimeno guardare la terra. Eglino mostrandosi rozzi e
grossi provvidono molto bene quello che fu loro imposto: e comperate
delle cose, si ritornarono a galea, e avvisarono pienamente il loro
ammiraglio. Il signore presentò alle galee due grossi buoi, e castroni
e vino; i Genovesi non vollono prendere le cose, ma molto grandi grazie
ne feciono rapportare al signore, e incontanente, senza fare a’ legni
carichi alcuna novità, suonarono loro trombetta, e partendosi di là,
si misono in alto mare, tanto che si dilungarono da ogni vista della
città, per assicurare più il signore e la gente della terra; i quali
sentendo le galee partite, e che a’ loro legni carichi non aveano fatto
nulla, che li poteano prendere, presono sicurtà, la quale tosto tornò
loro amara, come appresso diviseremo.

CAP. XLVIII.
_Come i Genovesi presono Tripoli a inganno._
I Genovesi ch’erano partiti da Tripoli, come la notte fu fatta, avendo
bonaccia in mare, si strinsono insieme colle loro galee, e ragunato al
consiglio padroni e nocchieri, l’ammiraglio manifestò loro l’intenzione
ch’avea, quando a loro piacesse, di vincere per ingegno e per forza la
città di Tripoli, ove tutti sarebbono ricchi di gran tesoro; e mostrò
loro come il signore di quella era un vile tirannello nato d’un fabbro
saracino, e disamato da tutti per la sua tirannia, e però se fosse
assalito francamente non potrebbe fare resistenza, e soccorso non
potea avere, perchè non ubbidiva il re di Tunisi, ma era suo ribello;
e avvisolli com’egli avea fatto provvedere di prendere le mura e la
porta agevolmente: e però, là dove e’ volessono essere prod’uomini, la
grande e la ricca preda era loro apparecchiata. Costoro cupidi della
roba altrui, avendo udito il loro ammiraglio, con grande allegrezza
deliberarono che l’impresa si facesse, e offersonsi tutti a ben fare
il suo comandamento, e misonsi di presente in concio di loro armi,
e balestra, e saettamento; e preso alcuno riposo, in quella notte, e
innanzi che il giorno venisse, all’aurora tutti armati e ordinati di
quello ch’aveano a fare giunsono nel porto di Tripoli, e di colpo con
poca fatica ebbono presi i due navili del signore; e messe le ciurme in
terra e’ loro soprassaglienti colle balestra, portando le scale a’ muri
della città vi montarono suso senza trovare resistenza, e la parte di
loro ch’era rimasa a guardia delle galee e de’ legni s’accostarono alla
terra per dare aiuto e soccorso a’ loro compagni; e questo fu sì tosto
e sì prestamente fatto, che appena i cittadini se n’avvidono, se non
quando i Genovesi teneano le mura, e già aveano presa la porta. Levato
il romore per la città, il signore armato colla sua gente, e con parte
de’ cittadini ch’ebbono cuore alla difesa, corsono per volere riparare
ch’e’ nemici non potessono correre la terra, e abboccaronsi con loro. I
Genovesi erano già tanti entrati dentro e sì forti, che per suo assalto
non li potè ributtare; e stando loro a petto, i Genovesi ordinati
colle balestra a vicenda li sollecitavano tanto co’ verrettoni, ch’e’
Saracini male armati non li poteano sostenere. E il signore vedendo che
non potea riparare, vilmente diede la volta, e fuggendosi abbandonò la
città e il popolo. I Genovesi, sentendo partito il tiranno, presono
più ardire, e ordinatisi insieme si misono per la terra, e qualunque
si volea difendere uccidevano, e grande strage feciono quel dì de’
Saracini; e avendo corsa tutta la terra, presono le porti e serraronle,
e misonvi le guardie, e furono al tutto signori della terra e degli
uomini, e di tutta la loro sostanza.

CAP. XLIX.
_Di quello medesimo._
Presa, come detto è, l’antica città di Tripoli, e chiuse le porti, i
Genovesi diedono ordine di spogliare le case, e di farsi insegnare
i tesori del signore e l’avere de’ cittadini, e che ogni cosa
pervenisse a bottino, sicchè lo spogliamento andasse per ordine;
e così seguitarono penando più giorni a fare questa esecuzione, e
condussono a bottino in pecunia, e in avere sottile, e ornamenti d’oro
e d’argento il valere di più di diciannove centinaia di migliaia di
fiorini d’oro, e settemila prigioni tra uomini, femmine, e fanciulli;
e questo fu senza le segrete ruberie ch’e’ galeotti e gli altri
maggiori feciono, che non le rassegnarono in comune, e di ciò non
si fece cerca nè inquisizione; e avendo così spogliata la terra, la
guardarono, e mandarono una delle loro più sottili galee al comune
di Genova, significando quello ch’aveano fatto, e come teneano la
città a farne la volontà del comune. I governatori di quel comune, e
appresso i buoni cittadini si turbarono forte del tradimento fatto a
coloro che non erano nemici, e non aveano guardia di loro, non ostante
che fossono Saracini, e temettono forte, ch’e’ cittadini di Genova
ch’erano in Tunisi e in Egitto tra’ Saracini, e in loro mani colle
loro mercatanzie, non fossono per questo a furore presi e morti; e così
sarebbe avvenuto, se non fosse che Tripoli era sotto reggimento di vile
tiranno, e non ubbidia al re di Tunisi, e però egli e gli altri signori
saracini contenti del suo male non se ne curarono. Agli ambasciadori
della galea non fu risposto; i quali vedendo i cittadini mal contenti,
senza prendere comiato si tornarono a Tripoli a’ loro compagni; i quali
vedendosi smisuratamente ricchi, del cruccio del loro comune, sapendo
che tutti erano corsali, poco si curarono, e in Tripoli si misono
a stare, consumando ogni reliquia di quella città, e cercavano di
venderla per averne danari da chi più ne desse: e questo fu di giugno
del detto anno.

CAP. L.
_Come la gente del marchese di Ferrara fu sconfitta, a Spaziano._
In questi medesimi dì, il marchese di Ferrara avea mandato quattrocento
cavalieri e millecinquecento fanti ad assediare un castello ch’avea
nome Spaziano, il quale avea occupato il signore di Milano nel
Ferrarese; e avendolo tenuto assediato alcun tempo, messer Bernabò vi
mandò subitamente de’ suoi cavalieri al soccorso, e furono tanti, che
per forza li levarono dall’assedio e sconfissono, dando loro danno
assai; e liberato il castello, il fornirono di ciò ch’avea bisogno, e
tornarsene a Milano.

CAP. LI.
_Come l’imperadore ebbe l’ultima paga da’ Fiorentini, e fè la fine._
Restavano i Fiorentini a dare all’imperadore ventimila fiorini d’oro
per lo resto de’ centomila, e sentendolo partito da Pisa, e ch’egli
era a Pietrasanta, s’affrettarono di mandarglieli più tosto, e a dì
10 di giugno gli feciono appresentare contanti ventimila fiorini a
Pietrasanta. L’imperadore considerato il suo partimento non d’onore
ma piuttosto d’abbassamento dell’imperiale maestà, e vedendo la
sollecitudine della fede promessa del comune di Firenze, e il luogo
dove gli aveano mandata la pecunia, fu molto allegro, e commendò
magnificamente la fede e il buono portamento ch’avea trovato ne’
cittadini di Firenze, dicendo, come i Pisani ch’erano camera d’imperio,
e’ Sanesi che liberamente s’erano dati senza mezzo alla sua signoria
l’aveano ingannato e tradito, e fattagli gran vergogna per loro
corrotta fede, e’ Fiorentini l’aveano atato e consigliato dirittamente,
e onorato molto i suoi baroni, e la sua gente, e adempiutogli
pienamente ciò ch’aveano promesso, onde molto si tenea per contento da
quello comune; e di proprio movimento li privilegiò di nuovo ciò che
teneano in distretto, e riconobbe diciotto migliaia di fiorini che il
comune diede per lui al sire della Lippa suo alto barone, e tremila che
per suo mandato avea pagati ad altri baroni, e di tutta la quantità
di centomila fiorini d’oro ch’aveano promesso, come addietro abbiamo
narrato, fece fine al detto comune per suoi documenti e cautela,
per carta fatta per ser Agnolo di ser Andrea di messer Agnolo da
Poggibonizzi notaio imperiale, fatta nella detta terra di Pietrasanta
il detto dì.

CAP. LII.
_Come il figliuolo di Castruccio fu decapitato._
Avendo veduto messer Altino figliuolo di Castruccio Castracane già
tiranno di Lucca, come l’imperadore era uscito di Pisa con sua vergogna
per andarsene nella Magna, accolti certi masnadieri e con sua gente
entrò in Monteggoli presso a Pietrasanta, per tenersi la terra. I
Pisani sdegnati di presente vi cavalcarono, e assediarono il castello
intorno. Messer Altino intendea a difenderlo da’ Pisani, e credea
poterlo fare. I Pisani sentendo ivi presso l’imperadore, mandarono
a pregarlo che gli piacesse di venire nel campo, perocch’elli erano
certi che alla sua persona messer Altino non si terrebbe. L’imperadore
v’andò, e fece comandare a messer Altino che si dovesse arrendere; il
quale incontanente ubbidì a’ suoi comandamenti, e diede la terra a’
Pisani, e sè all’imperadore. I Pisani di presente arsono e disfeciono
il castello: e richiesto l’imperadore da’ Pisani che desse loro messer
Altino, con poco onore della sua corona il mandò prigione a Pisa, e ivi
a pochi dì, partito l’imperadore da Pietrasanta, i Pisani gli feciono
tagliare la testa.

CAP. LIII.
_D’una fanciulla pilosa presentata all’imperadore._
Mentre che l’imperadore era a Pietrasanta, per grande maraviglia, e
cosa nuova e strana, gli fu presentata una fanciulla femmina d’età
di sette anni, tutta lanuta come una pecora, di lana rossa mal tinta,
ed era piena per tutta la persona di quella lana insino all’estremità
delle labbra e degli occhi. L’imperadrice, maravigliatasi di vedere un
corpo umano così maravigliosamente vestito dalla natura, l’accomandò a
sue damigelle che la nudrissono e guardassono, e menolla nella Magna.

CAP. LIV.
_Come l’imperadore e l’imperadrice si partirono per tornare in
Alamagna._
Avendo l’imperadore col senno e colla provvedenza alamannica presa la
corona dell’imperio, e guidati i fatti degl’Italiani come nel nostro
trattato è raccontato, essendosi ridotto a Pietrasanta, l’imperadrice
sollecitando che si tornasse nella Magna, a dì 11 di giugno del detto
anno si partì di là con milledugento cavalieri di sua gente, e tenne
la via di Lombardia; e giugnendo alle terre de’ signori di Milano
non potè in alcuna entrare, ma a tutte trovò le porte serrate, e le
mura e le torri piene d’uomini armati alla guardia colle balestra,
e col saettamento apparecchiato. E giugnendo a Cremona, ch’è grossa
città, volendovi entrare dentro, fu ritenuto alla porta per spazio di
due ore innanzi che vi potesse entrare; poi ebbe licenza d’andarvi
la sua persona con alquanta compagnia senza alcuna gente armata; e
strignendolo la necessità, per non mostrare d’avere dimenticata la pace
che la sua persona avea voluto trattare tra’ Lombardi, vi si mise ad
entrare, e stettevi la notte e il dì seguente, continovo le porti della
città serrate, e di dì e di notte i soldati armati facendo continova
guardia. E ragionando l’imperadore con certi che v’erano per i signori
di Milano, di volere trattare della pace tra’ Lombardi, gli fu detto
da parte de’ signori, che non se ne dovesse affaticare. E però la
mattina vegnente, avendo già preso di se alcuno sospetto, s’uscì della
città, e cavalcò a Soncino. Ivi fu ricevuto con pochi disarmati e con
grandissima guardia: e vedendosi così onorare ora ch’era imperadore
nella forza de’ tiranni di Milano, molto pieno di sdegno s’affrettò
di tornare in Alamagna, ove tornò colla corona ricevuta senza colpo
di spada, e colla borsa piena di danari avendola recata vota, ma con
poca gloria delle sue virtuose operazioni, e con assai vergogna in
abbassamento dell’imperiale maestà.

CAP. LV.
_Come il minuto popolo di Siena prese al tutto la signoria di quella._
Del mese di giugno del detto anno, il minuto popolo di Siena avendo
fino a qui avuto in certi ufici in compagnia alquanti delle grandi case
di Siena, e desiderando d’avere in tutto il governamento di quella
città, levò il romore, e tutti i cittadini presono l’arme; e stando
il popolo armato, dimostrò di volere che i grandi rinunziassono agli
ufici del comune; e sentendo i grandi che questo movea dal consiglio
dato al minuto popolo per Giovanni d’Agnolino Bottoni de’ Salimbeni
per accattare la benivolenza del minuto popolo per animo tirannesco,
non vollono per forza d’arme cercare di ributtare i loro cittadini;
e acciocchè il popolo non si tenesse d’avere lo stato del reggimento
da Giovanni d’Agnolino, i Tolomei suoi avversari furono quelli che
prima cominciarono a rinunziare agli ufici, e volere che il popolo gli
avesse in tutto, e così feciono gli altri appresso. E volle il popolo,
che laddove lo staio era cresciuto per lo patriarca alla misura lieve,
fosse alla picchiata, e così fu conceduto per tutti. Allora il popolo
ordinò d’avere il gran consiglio, e lasciato l’arme, in questo stabilì
per riformagione la loro somma signoria, reggendosi per dodici priori
di due in due mesi, e ivi li crearono; e ancora feciono un gonfaloniere
di popolo, e certi altri ch’avessono a rispondere a lui per terziere
della città: e ivi da capo rifiutato messer Agapito della Colonna per
loro vicario, come detto è, cominciò in libertà il reggimento di quello
popolazzo.

CAP. LVI.
_Come la compagnia del conte di Lando cavalcò a Napoli._
Avvenne ancora del detto mese di giugno, che la compagnia ch’era
lungamente stata in Puglia guidata dal conte di Lando, sentendo che il
re Luigi contro a loro non avea fatta alcuna provvisione a sua difesa,
si partirono di Puglia, e vennonsene in Principato; e soggiornati
alquanti dì nelle contrade di Serni, e di Matalona, e d’Argenza,
feciono grandi prede; e non trovando fuori delle terre murate alcun
contrasto, di là entrarono in Terra di Lavoro, e vennono infino presso
a Napoli, e cavalcarono il paese d’intorno; e non sentendo chi vietasse
loro il paese, essendo ubbiditi da’ casali e da’ paesani di fuori, e
forniti di quello che alla loro vita e dei loro cavalli bisognava, per
potere stare più ad agio, si divisono in più compagnie, e l’una stando
nell’una contrada, e l’altra nell’altra, compresono a modo di paesani
tutto il paese; e lasciarono l’arme non sentendo alcuno avversario, e
cominciarono a prendere diletti d’uccellare e di cacciare; e i loro
cavalcatori e’ ragazzi visitavano le ville e’ casali, e recavano
all’ostiere ciò che bisognava largamente per la loro vita e di loro
cavalli, e quando i signori tornavano, trovavano apparecchiato, e
i cattivelli paesani, che non aveano aiuto dal loro signore, erano
consumati in vilissima fama della real corona.

CAP. LVII.
_Come Fermo tornò alla Chiesa e si rubellò da Gentile da Mogliano._
In questo mese di giugno, quelli della città di Fermo, i quali per lo
tradimento fatto per Gentile da Mogliano al legato quando gli rubellò
la città colla forza del capitano di Forlì e coll’ordine di messer
Malatesta, essendo contro al loro volere, come narrato è addietro,
tornati contro alla signoria del legato, dove s’erano ridotti con
loro grande piacere, vedendo ora la forza del legato loro di presso,
e che Gentile era povero di gente, levarono il romore nella città,
e rinchiusone Gentile nella rocca, e diedono la terra al legato; il
quale la fornì di buone masnade a piè e a cavallo, e presene buona e
sollecita guardia.

CAP. LVIII.
_Come il re di Francia mandò gente in Scozia per guerreggiare
gl’Inghilesi._
Trapassando alquanto agli strani, il re di Francia vedendo che passate
le triegue gl’Inghilesi cavalcavano nel reame, e facevano spesso
danno alle sue genti e al paese, prese consiglio da’ suoi, e avendo
alcuno intendimento da certi baroni di Scozia, mandò in Scozia il sire
di Garendone suo barone con ottocento armadure di ferro, a fine di
muovere gli Scotti a fare guerra agl’Inghilesi per modo, che quelli che
guerreggiavano in Francia avessono cagione di tornare a guerreggiare
con gli Scotti. E giunta questa gente in Scozia, gli Scotti tennero
loro consiglio e diliberarono, che essendo il loro re David prigione
del re d’Inghilterra, se gli Scotti movessono guerra agl’Inghilesi
tornerebbe in pericolo e dannaggio del loro re; e però non vollono
che ad istanza del re di Francia in Scozia si facesse movimento di
guerra sopra gl’Inghilesi, e per questo la gente francesca ch’era di
là passata si ritornò addietro. E questo avvenne del mese di giugno del
detto anno.

CAP. LIX.
_Come i prigioni d’Ostiglia presono il castello._
Di questo mese una buona brigata di prigioni, che messer Gran Cane
della Scala avea racchiusi in Ostiglia, seppono tanto fare per loro
sottile provvedimento che tutte le guardie delle prigioni e del
castello uccisono, e presono il castello, e recaronlo nella loro
guardia e signoria. Il castello era forte e in sù i confini del
distretto di Mantova e di Ferrara. Sentendo i signori vicini questa
rubellione, tentarono quelli di Mantova e di Ferrara catuno di volere
dare danari a’ prigioni che l’aveano preso per avere quella tenuta,
ch’era di piccola guardia, ed era forte da non potere essere vinta
per battaglia, e dava il passo in catuna parte; i matti prigioni
non seppono prendere il buono partito, e però s’accostarono al reo;
e avendo grandi promesse da messer Gran Cane, cui eglino aveano
cotanto offeso, affidandosi solamente alla fede delle sue promesse,
che renderebbe loro i propri beni e farebbe a catuno altri vantaggi,
dicendo, che non imputerebbe loro il misfatto, perocchè fatto l’aveano
come prigioni, a cui era lecito di trovare ogni via di loro scampo,
sicchè ciò non era tradimento. I miseri vinti dalle vane promesse
renderono la tenuta del forte castello alla gente di messer Gran
Cane, il quale ripresa la fortezza, incontanente attenne la promessa
ammazzandone una parte colle scuri, e altri con gravi tormenti fece
morire, e trentasei de’ residui più vili fece impendere per la gola:
e per questo modo morti tutti i prigioni riebbe la sua fortezza del
castello d’Ostiglia.

CAP. LX.
_Come i Genovesi venderono Tripoli._
I Genovesi ch’aveano preso Tripoli di Barberia, come addietro abbiamo
narrato, e non avendo potuto avere risposta dal loro comune quello che
della città si facessono, cercarono di venderla per danari a’ baroni
saracini che v’erano di presso, e niuno trovarono che vi volesse
intendere. Era a quel tempo signore dell’isola di Gerbi un Saracino
ricco e di gran cuore; costui intese a volerla comperare, e trattato
il mercato, ne diè a’ Genovesi cinquantamila doble d’oro; e ricevuto
il pagamento e la tenuta della città, e sceltisi de’ cittadini uomini
e femmine e fanciulle cui e’ vollono, gli altri lasciarono colla
città spogliata d’ogni bene; e raccolti in su le loro quindici galee
piene d’arnesi e di gran tesoro partironsi del paese, e lungamente
stettono ora in una parte ora in un’altra, tanto che il loro comune fu
rassicurato de’ loro cittadini ch’erano in Alessandria e in Tunisi,
che per questa novità di Tripoli non aveano ricevuto danno, allora
ribandirono quelli delle galee, i quali aveano sbanditi per lo fallo
commesso, e dierono loro licenza che potessono tornare a Genova, quando
tre mesi alle loro spese avessono guerreggiate le marine di Catalogna;
i quali fatto il servigio tornarono a Genova, e riempierono la città
di schiavi e schiave saracine, e di molto tesoro acquistato con gran
tradimento, ma per giusto giudicio di Dio in breve tempo capitarono
quasi tutti male, rimanendo in povero stato.

CAP. LXI.
_Come gli usciti di Lucca tentarono di far guerra._
Essendo per le novità sopravvenute all’imperadore in Pisa perduta agli
usciti di Lucca la speranza d’essere liberati dal giogo de’ Pisani,
secondo il trattato di cui era scorsa la fama; e veduto come fortuna
avea fatti signori della città le piccole reliquie de’ Lucchesi
ch’erano nella città in una giornata, per un poco d’ardire ch’aveano
dimostrato, se da loro medesimi non fossono stati traditi, come detto
è, trovandosi gli usciti avere ragunata alcuna moneta per la detta
cagione della speranza dell’imperadore, e parendo loro ch’e’ Pisani
fossono in dubbioso stato, s’intesono insieme i guelfi co’ ghibellini,
e’ figliuoli di Castruccio ch’erano in Lombardia promisono a tutti i
caporali delle famiglie guelfe uscite di Lucca nella loro fede, che
contro alla loro origine e’ si farebbono guelfi per trarre di tanto
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