Cronica di Matteo Villani, vol. 3 - 12

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re d’Inghilterra gli avea infra certi giorni a confermare, stigato dal
peccato non purgato nè ammendato da’ Franceschi si levò in parlamento,
e molto arditamente disse al re di Francia: Sire, se io mi ricordo
bene, il re d’Inghilterra e ’l duca ch’è qui presso suo figliuolo,
e ’l conte di Lancastro suo cugino, v’hanno fatto lungamente grande
onta e sconvenevole oltraggio a tutto vostro reame per molte riprese,
sconfiggendo in campo vostro padre con perdita di re, e di gran baroni,
e in mare hanno tagliate le vostre forze, e arso e dipopolato il vostro
reame in diverse parti; ditemi sire, che vendetta v’avete voi fatta,
che senza vostra onta, e di tutto vostro reame, questa pace si faccia?
Avendo voi qui il vostro corporale nemico, con gran parte de’ baroni
e de’ cavalieri inghilesi e guasconi c’hanno contra voi e contro al
vostro reame fatti tutti i grandi mali, e oltre a quelli ch’io v’ho
contati, e ora gli ha Iddio ridotti e rinchiusi nelle vostre mani per
modo, ch’addietro non possono tornare, nè a destra nè a sinistra si
possono allargare. Da vivere hanno poco, e soccorso non attendono: voi
siete signore di fare altamente la vostra vendetta, e veggovi trattare
di lasciarli andare; ed eziandio per non certa fede o fermezza delle
loro promesse, ma piene d’aguati e d’inganni, come è loro antica
usanza, che sotto i patti di fare confermare la pace al re, intende
di subito avere il suo soccorso e quello del conte di Lancastro, ch’è
apparecchiato con grande oste, come tutti quanti sapete; e se questo
avviene, chi v’accerta che la vostra vittoria non possa tornare in mano
de’ vostri nemici, con vituperoso inganno della vostra reale maestà?
E però consiglio, che a’ vinti non si dia più dilazione, e che la
vendetta delle vostre ricevute offese e la piena vittoria, che Iddio
v’ha apparecchiata, non vi scampi per tardamento de’ vostri trattati e
de’ vostri consigli. Le parole dell’ardito prelato feciono cambiare la
volontà del re e di tutti i baroni del consiglio, e catuno s’inanimò
alla battaglia, e al cardinale fu risposto precisamente che più non si
travagliasse della concordia; e deliberato fu di strignere il duca alla
battaglia la mattina vegnente, e questo consiglio fu preso domenica
a dì 18 di settembre anno detto; operando fortuna, per lo franco
consiglio di quel prelato, la materia dell’occulto giudicio di Dio
contro al detto re di Francia.

CAP. XIII.
_Diceria che fece il prenze di Guales a’ suoi._
Il cardinale di Pelagorga avuta la risposta dal re di Francia e
dal suo consiglio contradia al suo trattato e alla sua opinione,
avendo singulare affezione al giovane duca, in cui avea trovato
molta liberalità, parendogli sconvenevole se colla sua bocca non gli
rispondesse, il dì medesimo valicò nel suo campo: ed essendo innanzi
al duca ch’attendea la fermezza della pace, il cardinale gli disse:
Sire, io ho assai travagliato per poterti recare pace, ma non ho
potuto per alcuna maniera; e però a te conviene procacciare d’essere
valente prenze, e pensare alla tua difesa colla spada in mano, perocchè
alla battaglia ti conviene venire co’ Franceschi, rimossa ogni altra
speranza d’accordo o di pace. Udendo questa parola il magnanimo duca,
non perdè in atto o in segno sua virtù, anzi disse: Voi ci potete
essere testimonio, che dalla nostra parte non è mancata la concordia
alla quale con pura fede ci recavamo; ora che da’ nostri avversari
manca, prendiamo fidanza che Iddio sia dalla nostra parte. E dato
con reverenza congio al cardinale, di presente ebbe i suoi baroni e’
suoi capitani de’ cavalieri e degli arcieri inghilesi e guasconi, e
manifestò loro l’intenzione del re di Francia e del suo consiglio,
e come al mattino attendessono la battaglia, con franche e signorili
parole dicendo, come Iddio e la ragione era dalla loro parte, e che
però catuno prendesse cuore e ardire, e inanimasse sè e’ suoi a ben
fare; e ricordassonsi come i Franceschi vinti e sconfitti più volte
da loro, non avrebbono cuore di sostenere la battaglia. E oltre a ciò
disse: Signori e compagni, non dimenticate il luogo ove fortuna ci
ha inchiusi, nel quale se noi vogliamo stare alla difesa, avendo la
forza de’ nemici nostri a petto, in breve ci manca la vittuaglia, e di
niuna parte ci può venire, perchè noi e’ nostri cavalli verremo meno di
fame, e saremo vilissima preda a’ nostri nemici. E nel partire non si
vede salvamento, avendo al fuggire lungo il cammino per le terre de’
nostri nemici d’ogni parte, e così gran forza qui, e de’ nemici alle
spalle, anzi possiamo essere molto certi, che dando loro le reni, ci
faranno morire a gran tormento; e però niuna speranza di salute rimane
dalla nostra parte, se non di combattere francamente, e procurare colla
virtù dell’indurata fortezza delle nostre braccia abbattere la delicata
e apparente pompa de’ nostri avversari; e quanto la loro potenza e
numero di cavalieri e di sergenti è maggiore, tanto conviene in noi
più accendere l’animo a dimostrare nostra virtù: e se fortuna ci pur
volesse abbattere, facciamo sì ch’a’ nostri nemici rimanga dolorosa
vittoria, e a noi eterno nome di valorosa cavalleria. E confortata
e inanimata la sua gente, comandò ch’al mattino tutta la preda loro
delle cose grosse fosse recata nel campo, e messa fuori tra loro e’
nemici, e fattone tre monti, e che la notte stessono in buona guardia,
e confortassono loro e’ loro cavalli, sicchè al mattino si trovassono
forti e acconci alla battaglia;

CAP. XIV.
_Come i Franceschi s’apparecchiarono alla battaglia._
Avendo il re di Francia preso per partito nel consiglio di combattere
la mattina vegnente, fece il dì raunare tutti i suoi baroni e’ capitani
della sua cavalleria e dei sergenti, e con allegra faccia manifestò
loro il consiglio di combattere la mattina vegnente gl’Inghilesi e’
Guasconi, i quali erano pochi alla loro comparazione, i quali tutti si
mostrarono allegri, stimando che non li dovessono attendere conoscendo
il soperchio, e che si dovessono fuggire come fatto avea poco innanzi
il conte di Lancastro. E diedono ordine alle loro schiere, e la gente
che in catuna dovesse essere, e quale andasse prima ad assalire i
nemici e quale appresso, e chi fosse nella schiera grossa del re. E
avvisato catuno capitano della sua gente e di quello ch’al mattino avea
a fare, tutti intesono per quello resto della giornata a provvedere
le loro armi e’ loro cavalli, per essere presti la mattina innanzi il
giorno alla battaglia.

CAP. XV.
_Le schiere e gli ordini de’ Franceschi._
Venuto il lunedì mattina, il maliscalco di Dina, a cui toccava il
primo assalto, fece per tempo la sua schiera co’ cavalieri di Spagna
e d’altri circustanti a quella lingua, ch’erano venuti e condotti al
servigio del re, e a questa schiera vi s’aggiunsono masnadieri italiani
e spagnuoli, sperti delle battaglie, e buoni assalitori. A costoro fu
commesso d’assalire prima i nemici, ed essendo apparecchiati in sul
campo, e le spianate fatte, appresso a lui fu fatta la schiera del
conestabile di Francia, ch’era il duca d’Atene, e in sua schiera ebbe
molti valenti baccellieri di Francia, provenzali e normandi, e questa
schiera dovea percuotere appresso i feditori. Dopo questa il Dalfino
di Vienna figliuolo primogenito del re di Francia, e ’l duca d’Orliens
fratello del re, furono fatti conduttori della terza schiera, ove
aveano più di cinquemila cavalieri franceschi e del reame, e questa
dovea fedire appresso al duca d’Atene. La quarta e ultima schiera era
quella del re di Francia, nella quale avea più di seimila cavalieri
con molti grandi baroni, e questa era per fermezza e riscossa di tutte
l’altre. Avendo i Franceschi così fornite e ordinate le loro schiere:
essendo lungo spazio di terreno tra loro e’ nemici, innanzi che
s’aggiungano alla battaglia, ci conviene narrare l’ordine che prese il
duca di Guales nella sua gente.

CAP. XVI.
_L’ordine degl’Inghilesi con le loro schiere._
Avendo il duca di Guales fatto, come detto è, raunare fuori del
campo innanzi al suo carreggio, verso la frontiera de’ Franceschi
per buono spazio, in tre monti tutto il grosso della loro preda, vi
fece aggiugnere legname la mattina innanzi dì e mettervi entro fuoco,
acciocchè l’avarizia della preda non impedisse l’animo a’ suoi, e
non fosse speranza agli avversari di racquistarla. E fatti i fuochi
grandi tra loro e’ nemici, i fummi occuparono la pianura a modo d’una
grossa nebbia, sicchè i Franceschi non poteano scorgere quello che
gl’Inghilesi si dovessono fare. E in questo tempo il duca e ’l suo
consiglio feciono due parti de’ loro arcieri, che n’aveano intorno
di tremila, e nascosonli in boschi e in vigne, a destra e a sinistra
inverso dove i Franceschi potessono venire per assalirli, sicchè al
bisogno d’ogni parte potessono ferire la gente di Francia e’ loro
cavalli colle saette; e ordinarono fuori del loro campo innanzi al
carreggio una schiera, che sostenesse il primo assalto, e ’l duca con
tutta l’altra cavalleria in un fiotto erano armati, e schierati nel
campo dentro al loro carreggio, per provvedere il portamento de’ loro
nemici. E in questo modo fu apparecchiata l’una e l’altra oste di
venire alla battaglia.

CAP. XVII.
_La battaglia tra il re di Francia, e il prenze di Guales._
Il maliscalco di Dina colla sua schiera de’ feditori, come poco
avveduto e assai baldanzoso, vedendo i fuochi che gl’Inghilesi
facevano, pensò che ardessono il campo, e che per paura se ne
fuggissono, e per questa folle burbanza, non attendendo d’avere
appresso la seconda e terza schiera, levato un grido, se ne vanno
con matto ardimento, e avacciarono il loro assalto, e dilungaronsi
subitamente tanto dall’altre schiere, che per lo lungo terreno non
poterono essere veduti da loro, e con grande ardire si misono ad
assalire la schiera degl’Inghilesi, ch’era di fuori del carreggio, e
fedironli per tal virtù, che li feciono rinculare a dietro, e perdere
assai terreno. Il duca e’ suoi, che conobbono la mala condotta che
aveano fatta gli Spagnuoli, e che non aveano la riscossa appresso,
mandarono per costa millecinquecento cavalieri de’ loro, e inchiusonli,
combattendoli dinanzi e di dietro, e sbarattaronli, facendone grande
uccisione in poca d’ora. Seguendo appresso l’altra più grossa schiera
del duca d’Atene conestabile di Francia, gli arcieri ch’erano riposti
uscirono d’ogni parte per costa a saettare a questa schiera, e
sollecitando le loro saette, molti uomini e cavalli fedirono e assai
n’uccisono; e ’l duca di Guales, vedendo questa schiera già impedita
e magagnata dagli arcieri, uscì loro addosso colla baldanza della
prima vittoria, e dopo non grande resistenza furano tutti morti e
presi, innanzi che ’l re ne sapesse la novella. Il Delfino di Vienna,
e ’l duca d’Orliens, che aveano più di cinquemila cavalieri, e il re
appresso con seimila in sua compagnia, avendo sentita la rotta delle
due prime schiere, come vilissimi e codardi, avendo ancora due tanti e
più di cavalieri e di baroni freschi e ben montati, ed essendo i nemici
stanchi per le due battaglie, tanta paura entro ne loro animi rimessi e
vili, che potendo ricoverare la battaglia, non ebbono cuore di fedire
a’ nemici, nè vergogna d’abbandonare il re, ch’era presso di loro sul
campo, nè l’altra baronia di Francia, e senza ritornarsi a dietro a
far testa col re insieme, e senza essere cacciati, si fuggirono del
campo, e andaronsene verso Parigi, abbandonando il padre e’ fratelli
nel pericolo della grave battaglia; degni non di titoli d’onore, ma di
gravi pene, se giustizia avesse forza in loro.

CAP. XVIII.
_La sconfitta del re di Francia e sua gente._
Avendo il valoroso duca di Guales già sbarattate le due prime schiere
de’ nemici, e veduto che la terza schiera, ov’era il figliuolo e ’l
fratello del re con cinquemila cavalieri, per paura s’erano fuggiti
senza dare o ricevere colpo, prese speranza dell’incredibile vittoria,
e con molta baldanza tutti in uno drappello fatto s’addirizzarono ad
andare a combattere la grossa schiera del re. Il quale re, avendosi
messe innanzi l’altre schiere, si pensò, per ritenere più ferma la
baronia, di scendere a piè, e così fece. E vedendosi venire addosso
gl’Inghilesi e’ Guasconi con gran baldanza, e avendo saputa la fuga
del figliuolo e del fratello non invilì, ma virtuosamente confortando
i suoi baroni che gli erano di presso, si fece innanzi a’ nemici per
riceverli alla battaglia coraggiosamente. Il duca co’ suoi franchi
cavalieri, e sperti in arme a quel tempo più ch’e’ Franceschi, e
cresciuti nella speranza della vittoria, si fedirono aspramente nella
schiera del re. Quivi erano di valorosi baroni e di pro’ cavalieri;
e sentendovi la persona del re, faceano forte e aspra resistenza, e
mantennono francamente lo stormo, abbattendo, tagliando e uccidendo
di loro nemici; ma perocchè fortuna favoreggiava gl’Inghilesi, molti
Franceschi come poteano ricoverare a cavallo si fuggivano, senz’essere
perseguitati; che la gente del duca non si snodava, e la schiera del
re al continovo mancava; e ’l re medesimo, conoscendo già la vittoria
in mano de’ suoi nemici, non volendo per viltà di fuga vituperare
la corona, fieramente s’addurò alla battaglia, facendo grandi cose
d’arme di sua persona; ma sentendosi allato messer Gianni suo piccolo
figliuolo, comandò che fosse menato via e tratto della battaglia; il
quale per comandamento del re essendo montato a cavallo con alquanti
in sua compagnia, e partito un pezzo, il fanciullo ebbe tanta onta
di lasciare il padre nella battaglia che ritornò a lui, e non potendo
adoperare l’arme, considerava i pericoli del padre, e spesso gridava:
Padre, guardatevi a destra, o a sinistra o d’altra parte, come vedea
gli assalitori; ed essendo appresso del re messer Ruberto di Durazzo
della casa reale di Puglia, ch’avea aoperate sue virtù come paladino,
e lungamente con altri baroni difesa la battaglia, e morti e magagnati
assai di quelli ch’a loro si strigneano, in fine abbattuti e morti
intorno al re, il re fu intorniato dagl’Inghilesi e da’ Guasconi, e
domandato fu che si dovesse arrendere; ed egli vedendosi intorneato
de’ suoi baroni e nimici morti e de’ nemici vivi, e fuori d’ogni
speranza di potere più sostenere la battaglia, s’arrendè per sua voce
a’ Guasconi, e lasciò l’arme sotto la loro guardia: e ’l suo piccolo
figliuolo di corpo, e grande d’animo, non si voleva arrendere, ma
pregato, e ricevuto comandamento dal padre che s’arrendesse, così fece;
e questo fu il fine della disavventurata battaglia per li Franceschi, e
d’alta gloria per gl’Inghilesi.

CAP. XIX.
_Racconta molti morti e presi nella battaglia._
In questa battaglia furono morti il duca di Borbona della casa di
Francia, il duca d’Atene, il maliscalco di Chiaramonte, messer Rinaldo
di Ponzo, messer Giuffrè di Ciarnì, il conte di Galizia, messer Ruberto
di Durazzo de’ reali del regno di Cicilia, il sire di Landone, il sire
di Crotignacco, messer Gianni Martello, messer Guglielmo di Montaguto,
messer Gramonte di Cambelli, il vescovo di Celona, cagione di questo
male, il vescovo d’Alzurro, tutti alti e gran baroni; e furono morti
in sul campo oltre a costoro più di milledugento altri cavalieri a
sproni d’oro, e banderesi, e cavalieri di scudo e borgesi, tutta nobile
cavalleria, perocchè non v’erano quasi soldati; tutti erano famigli
di gran signori, e uomini ch’erano venuti al servigio del loro re. I
presi furono messer Giovanni re di Francia, messer Giovanni suo piccolo
figliuolo, il maliscalco da Udinam, messer Iacopo di Borbona, il conte
di Trincia villa, il conte di Monmartino, il visconte di Ventador, il
Conte di Salembrucco Alamanno, il sire di Craone, il sire di Montaguto,
il sire di Monfreno, messer Brucicolto, messer Bremont della volta,
messer Amelio del Balzo, e ’l castellano d’Amposta, messer Gianni e
messer Carlo d’Artese, l’arcivescovo di Sensa, il vescovo di Lingres, e
molti altri baroni che qui non si nominano; e oltre a questi caporali,
vi rimasono presi più di duemila cavalieri franceschi tutti uomini
di pregio, e grandi e ricchi borgesi, e scudieri e gentili uomini.
Questa battaglia fu fatta lunedì la mattina, a dì 18 di settembre, gli
anni 1356, presso a Pittieri a due leghe, in una villa che si chiama
Trecceria, la quale per questo caso piuttosto confermò il suo nome che
altra mutazione le desse.

CAP. XX.
_Come il re di Francia n’andò preso in Guascogna._
Seguita, che vedendosi il giovane duca sì altamente vittorioso, non
ne montò in superbia, e non volle come potea mettersi più innanzi
nel reame, che lieve gli era a venirsene fino a Parigi, ma avendo la
persona del re a prigione. e ’l figliuolo, e tanti baroni e cavalieri,
per savio consiglio diliberò di non volere tentare più innanzi la sua
fortuna; e però raccolta la preda e tutta la sua gente, e fatto fare
solenne uficio per li morti, e rendute grazie a Dio della sua vittoria,
si partì del paese, e senz’altro arresto se ne tornò in Guascogna alla
città di Bordello. E giunto là, fece apparecchiare al re nobilemente
il più bello ostiere, ove largamente tenea lui e ’l figliuolo, facendo
loro reale onore, e spesse volte la sua persona il serviva alla
mensa. È vero che lo volle al cominciamento menare in Inghilterra per
più sua sicurtà, ma i Guasconi, a cui il re s’era accomandato, non
acconsentirono, e però si rimase in Guascogna alcun tempo innanzi che
condotto fosse in Inghilterra, che si fece con grande ingegno, come
innanzi racconteremo.

CAP. XXI.
_I modi tenne il re d’Inghilterra sentendo la novella di sì gran
vittoria._
Corsa la fama dell’incredibile vittoria in Inghilterra, e avendo il
re Adoardo di ciò lettere dal figliuolo che li contavano il pericolo
dov’egli con tutta la sua oste era stato, e l’alta e la grande vittoria
che Iddio gli avea data, il savio re contenente nella faccia e negli
atti, senza mostrare vana allegrezza, di presente fece raunare i suoi
baroni e ’l suo consiglio, e con belle e savie parole dimostrò a tutti
che questo non era avvenuto per virtù nè operazione di sua gente, ma
per singulare grazia di Dio, e comandò a tutti che niuna vana gloria o
festa se ne mostrasse; ma per suo dicreto fece ordinare e mandare per
tutta l’isola, che in catuna buona terra, castello e villa, otto dì
continovi si facesse in tutte le chiese ogni mattina solenne sacrificio
per l’anime de’ morti nella battaglia, e che si rendesse a Dio grazia
della vittoria ricevuta. E fuori di questi esequi non si udì nè
vide alcuna festa in tutta l’isola, strignendo catuna l’esempio e il
comandamento del re. La quale mansuetudine fu al re maggiore laude, che
al figliuolo la non pensata vittoria.

CAP. XXII.
_Battaglia fra due cavalieri, e perchè._
Fu vero, avvegnachè non in questi dì ma poi, che due grandi e valorosi
cavalieri, l’uno Guascone e l’altro Inghilese, vennero a quistione,
perocchè catuno si vantava ch’avea preso il re. E venne tanto montando
la loro riotta, che s’appellarono per questo a battaglia, la quale con
grande pompa e riguardo feciono a Calese, e il Guascone fece ricredente
l’Inghilese. E al Guascone ch’ebbe la vittoria furono fatti gran doni
dal re di Francia e dal prenze di Guales, ma poco appresso gl’Inghilesi
per invidia il feciono morire. Avendo raccontate l’oltramontane
fortune, le italiane con sollecitudine addomandano il debito alla
nostra penna.

CAP. XXIII.
_Processo fatto contro a’ signori di Milano per lo vicario
dell’imperadore._
Narrato abbiamo nel sesto libro, come messer Marcovaldo vescovo
augustinese vicario in Pisa per l’imperadore, era fatto capitano della
compagnia, e dell’altra oste de’ Lombardi ch’erano collegati contro
a’ signori di Milano; ed essendo raunati tutti in Lombardia e acconci
d’andare verso Milano, il vescovo fece esaltare nell’oste l’insegna
imperiale ne’ campi di Modena, e ivi dichiarò a tutti, com’egli era
vicario dell’imperadore, e formò un processo sotto il titolo del
vicariato contro a messer Bernabò e a messer Galeazzo signori di
Milano, il quale in effetto contenea: come in derisione e in contento
della santa Chiesa e’ davano l’investiture de’ beneficii ecclesiastici
a cui voleano, togliendoli a cui la santa Chiesa gli avea investiti, e
a’ legati del papa non lasciavano in tutta loro tirannica giurisdizione
fare uficio, e alquanti n’aveano fatti morire crudelmente; e come
aveano trattato con messer Palletta da Montescudaio di tradire
l’imperadore, e di torgli la città di Pisa, e come per loro violenta
tirannia aveano occupate le città e’ popoli di Lombardia pertinenti al
santo imperio, e come in vergogna della maestà imperiale, tornandosi
l’imperadore in Alamagna, valicando per Lombardia, gli feciono serrare
le porte delle città e castella di loro distretto, e guardare le mura
con gente d’arme, come da loro nemico, avendo titolo di suoi vicari;
e formato il processo, mandò per sue lettere a richiedere i tiranni,
che a dì 11 del presente mese d’ottobre del detto anno comparissono
personalmente dinanzi da lui a scusarsi del detto processo, altrimenti
non ostante la loro contumace contro a loro pronunzierebbe giusta
sentenza. E di quella, coll’aiuto di Dio, e del santo imperio e del suo
potente esercito, tosto intendea fare piena esecuzione.

CAP. XXIV.
_Risposta fatta per li signori di Milano al vicario._
«Avendo per alcuni nostri fedeli notizia delle tue superbe e pazze
lettere, colle quali noi, come fanciulli, col tuo ventoso intronamento
credi spaurire, noi, avvegnachè dell’età giovani, molte cose avendo
già vedute, al postutto il mormorio delle mosche non temiamo. Tu
immerito del preclarissimo nome del santo imperio ti fai vicario, dei
quale noi fedeli vicari ci confessiamo. Contro dunque a te non vicario
dell’imperio, ma capo de’ ladroni, e guida di fuggitivi soldati, infra’
l termine che ci hai assegnato, acciocchè non t’affatichi venendo
sopra il milanese, piagentino ovvero parmigiano tenitorio, pe’ nostri
precussori idonei, acciocchè non ti vanti ch’a tua volontà le nostre
persone abbi mosse, co’ tuoi guai, forse ti risponderemo. Noi adunque
promettiamo a te, che con nefaria mano di ladroni a depopolare e ardere
i nostri pacifichi confini con pazzo campo se’ mosso, non come vescovo
ma come uomo di sangue, se la fortuna ministra, della giustizia nelle
nostre mani ti conducerà, non altrimenti che come famoso ladrone, e
incendiario ti puniremo.»

CAP. XXV.
_Risposta fatta, per lo vicario, alla detta lettera._
«Rallegriamo delle lettere che mandate ci avete, quali mostrano la
superbia della quale voi vi gloriate. Della nostra ingiuria intendiamo
soprassedere, ma della bugia scritta nelle vostre lettere non ci
possiamo contenere. Scriveste dunque, che co’ vostri precursori,
innanzi ch’entrassimo nel vostro tenitorio, ci rispondereste
minacciandone di battaglia. E ora con la grazia di Dio e col suo
aiuto, nel quale solo è la nostra speranza, non occultamente a modo di
predoni, ma palesi, passati Parma, siamo in sul campo presso a cinque
miglia a Piacenza, e col detto divino aiutorio intendiamo procedere
innanzi, e co’ vostri precursori non ci avete ovviati, in vituperio
della vostra vana superbia. Data a Ponte miro, a dì 10 d’ottobre.»

CAP. XXVI.
_Come i soldati de’ tiranni non vollono venire contro all’insegna
dell’imperadore._
Era in questo mezzo avvenuto, ch’e’ signori di Milano, temendo
l’avvenimento de’ sopraddetti loro avversari, aveano mandato a Parma
il marchese Francesco con quattromila barbute di gente tedesca e
Borgognoni ivi raunati altri cavalieri e gran popolo per uscire a
campo, e non lasciare i nemici entrare sul terreno de’ signori di
Milano, e di combattere con loro. Quando il marchese volle uscire
fuori a campo, i conestabili de’ Tedeschi e de’ Borgognoni tutti di
concordia dissono al marchese loro capitano, che contro al vicario
dell’imperadore e alla sua insegna non anderebbono, nè in campo non
farebbono resistenza contro al loro signore. Questo fu il titolo della
scusa, ma più li mosse non volere fare resistenza alla compagnia,
perocchè aveano parte in quella non istandovi, e il refugio e il soldo
quand’erano cassi in altre parti; ma dissono, ch’erano apparecchiati di
stare alla guardia delle città e delle castella lealmente. I signori
sentendo l’intenzione de’ soldati, ch’acconsentivano d’essere cassi
innanzi che uscire contro al vicario dell’imperadore, pensarono che a
cassarli era aggiugnere forza a’ loro nemici, e pericolo di loro stato:
e però dissimularono con loro, e ritrassonli a Milano, lasciando in
Parma e in Piacenza buona guardia per difendere le mura.

CAP. XXVII.
_Come il vicario puose campo._
Il vescovo d’Augusta, ch’era prod’uomo in fatti d’arme e bene avveduto,
sentendo ch’e’ soldati de’ signori di Milano non erano per uscire in
campo contro a lui, con più ardire valicò Parma, cavalcando con tutta
sua oste presso alle porti, e così Cremona, e ristette alquanto in sui
Piacentino, ove fece la risposta della lettera sopraddetta. E predando
il paese d’intorno per alcuno dì, si partì di là, ed entrò sul contado
di Milano; e facendo in quello grandissime prede, trovando la gente
male provveduta, si mise a fermare suo campo a una grossa villa che si
chiama Rosario, presso a Milano a quattordici miglia di piano, intorno
alla quale a due, e a tre, e quattro miglia sono altre grosse villate,
raccolte a modo di casali, piene di molta vittuaglia e bestiame, e
per l’abbondanza l’oste vi stette a grande agio; e indi cavalcarono
per tutto il Milanese, facendo danno grave a’ paesani, che per lungo
tempo non aveano sentito che guerra si fosse; e con tutta la forza de’
signori di Milano, niuna resistenza trovarono in campo in molti giorni:
e però lasceremo alquanto questa materia, tanto che le grandi cose che
ne seguirono abbiano il tempo loro, non partendoci però dall’italiane
tempeste, che prima si vogliono raccontare.

CAP. XXVIII.
_Ordine del re d’Ungheria alla guerra con i Veneziani._
Tornato il re in Ungheria, avvisato che la moltitudine degli Ungheri
non si può mantenere in Italia come ne’ diserti, ebbe suo consiglio, ed
elesse trenta suoi grandi baroni per capitani, ciascuno di cinquemila
Ungheri a cavallo, con ordine che catuno il servisse tre mesi, come
sono tenuti per omaggio. E per questo modo deliberò di continovare
la guerra a’ Veneziani, succedendo l’uno barone all’altro di due in
due mesi, perocchè ’l terzo aveano per la venuta e pel ritorno. E a
dì 15 d’ottobre del detto anno giunse l’uno de’ baroni a Colligrano
con quattromila Ungheri, i quali di presente si misono a scorrere e a
predare il paese infino a Trevigi. In campo non trovavano contasto,
perocchè come questo signore era sopra Trevigi, così altri signori
erano a Giara e nella Schiavonia sopra le terre de’ Veneziani, sicchè i
Veneziani aveano tanto a fare a guardare le mura delle loro terre, che
non sapeano come pur quello si potessono fornire, sicchè gli Ungheri al
tutto signoreggiavano i campi di Trevigiana, e assediavano le castella.

CAP. XXIX.
_L’aguato misono gli Ungheri a gente de’ Veneziani._
Il doge di Vinegia col suo consiglio, vedendo la soperchia baldanza
degli Ungheri, per tenerli più a freno si sforzarono di conducere un
gran barone della Magna con seicento cavalieri tedeschi, per mandarli a
Trevigi, e pagaronlo per quattro mesi innanzi; e datogli a compagnia un
gentile uomo di Vinegia, all’uscita d’ottobre li mandarono a Trevigi,
e per loro la paga per gli altri soldati a cavallo e a piè ch’erano
a Trevigi. Costoro con poca provvedenza de’ loro nemici faceano la
via per lo Vicentino. Gli Ungheri da Colligrano sentirono la via che
costoro faceano; e di subito eletti mille Ungheri, li feciono cavalcare
la notte contro a’ Tedeschi; e venne loro si contamente fatto, che
innanzi ch’e’ Tedeschi avessono novella di loro, gli ebbono addosso
nel cammino; ed essendo male armati, chi si mise a difendere fu morto,
gli altri tutti ebbono a prigioni, e tolti loro i danari, e l’arme, e’
cavalli; e le robe, in camicia gli rimandarono a Vinegia. Per questo
i Veneziani perderono molto vigore, e a’ nemici baldanza grande ne
crebbe, e quasi come paesani sicuravano i villani, e faceano lavorare
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