Cronica di Matteo Villani, vol. 3 - 06

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non trovandosi, i signori che dentro v’erano ritornati, ricordandosi
che ’l comune di Siena non avea attenuti i patti promessi loro altra
volta sotto la sicurtà e fede del comune di Firenze e di Perugia, a
cui i Sanesi l’aveano rotta con inganno assai sconcio e manifesto, al
quale i detti comuni senza l’arme non aveano potuto mettere rimedio, e
l’arme non aveano voluto pigliare, per questa cagione non si vollono
più fidare alla corrotta fede de’ Sanesi; e vedendosi impotenti da
difendersi da’ Sanesi, s’accordarono, e misono di volontà del popolo
la guardia di Montepulciano con certi patti nelle mani de’ Perugini;
e i Perugini vaghi di crescere signoria, e ricordandosi dell’ingiuria
ricevuta in Siena per questi fatti di Montepulciano, accettarono la
guardia, e incontanente la fornirono di loro soldati a cavallo e a
piè per difenderla da’ Sanesi. Questa cosa conturbò molto il comune
di Siena, e perciò facendosi la lega che seguitò appresso de’ Toscani,
i Sanesi non vi vollono essere, e altre gravi cose ne seguirono, come
innanzi si potrà trovare al debito tempo.

CAP. LXXXIV.
_Come il re d’Inghilterra tornò in Francia._
Quello che seguita è cosa bene strana: essendo il re d’Inghilterra,
come poco innanzi avemo contato, ritornato di state nell’isola
d’Inghilterra con tutto suo oste e col navilio, e dovendosi secondo
usanza della guerra, il navilio e la gente d’arme riposare per
la grazia del verno, il detto re di maggiore animo e ardire che
altro signore al suo tempo, del mese d’ottobre del detto anno, co’
figliuoli, e colla moglie, e co’ baroni, e con grande moltitudine
di suoi cavalieri e arcieri, di subito e improvviso a’ Franceschi
valicò a Calese: e di presente fece tre osti, l’una accomandò al conte
di Lancastro suo cugino, e questa mandò in Brettagna, e la seconda
accomandò al suo maggiore figliuolo duca di Guales, e questa mandò in
Guascogna, e l’altra ritenne a sè, per venire verso Parigi, e a catuna
comandò che dimostrasse sua virtù, mettendosi innanzi fra le terre del
re di Francia ardendo e predando, e facendo dimostranza di valorosi
baroni contro a’ loro nemici.

CAP. LXXXV.
_Come il re d’Inghilterra cavalcò il reame fino ad Amiens._
Mandato ch’ebbe il re d’Inghilterra i detti baroni, catuno con grande
compagnia di cavalieri e d’arcieri nel reame di Francia, egli in
persona si mosse da Calese colla sua oste, e avviossi verso Parigi
dov’era il re di Francia, e guastando le ville del paese con fuoco,
facendo grandi prede se ne venne ad Amiens, e ivi s’arrestò alquanti
dì. Ma vedendo che ’l soprastare gli era pericoloso per la gran
cavalleria che ’l re di Francia apparecchiava contro a lui, e perchè
i passi del suo ritorno erano da potere essere occupati, sopravvenendo
la gente del re di Francia, a grave suo pericolo, come savio guerriere
raccolse tutta la sua gente e tutta la preda ch’avea fatta, e senza
contasto sano e salvo colla sua oste si tornò a Calese in dieci
dì dalla sua mossa. Il conte di Lancastro entrò colla sua oste in
Brettagna e cavalcò il paese, facendo danno assai e grandi prede, e
stettevi più tempo: poi si raccolse colla sua oste, e con gran preda
tornossi a salvamento.

CAP. LXXXVI.
_Della materia degl’Inghilesi medesima._
Il valente prenze di Guales colla sua compagnia di tremila cavalieri
e quattromila arcieri mosso da Calese, a gran giornate si mise in
Tolosana, e trovando i paesi sprovveduti del suo subito avvenimento,
fece in Tolosana molte grandi prede, e con fuoco guastò molto paese;
e senza arrestarsi in Tolosana cavalcò a Carcasciona, e vinse e prese
l’antica città di Carcasciona, fuori che la rocca della villa, ch’era
un forte castello; e recato in preda ciò che potè fare portare, arse
la maggior parte della villa, e cavalcò più innanzi in Bideurese, e
arse e fece preda grande senza contasto, e della sua gente corse insino
presso a Mompelieri a poche leghe, e dimostrava di voler venire insino
a sant’Andrea dirimpetto a Avignone, il Rodano in mezzo, e forte se
ne temette nella corte di Roma; ma il papa gli mandò a dire che non
venisse più innanzi, e incontanente per ubbidire al santo padre si
tornò addietro, essendo stato nuovo flagello di quel paese, che memoria
non v’avea per i viventi a quel tempo ch’altra guerra gli avesse
molestati. Il conestabile di Francia, ch’era allora messer Giacche
figliuolo del duca di Borbona, giovane cavaliere e di gran cuore,
avendo accolta assai gente d’arme, in compagnia del conte d’Armignacca,
e del conte di Foci e di più altri baroni del paese, sentendo tornare
per quel paese il duca di Guales con tutta la preda, ch’era più di
mille carrette cariche dell’avere de’ paesani, e più di cinquemila
prigioni, si volle abboccare con gl’Inghilesi per combattere con loro
per riscuotere la preda. Il conte d’Armignacca e gli altri baroni
non vollono e non acconsentirono al conestabile, parendo loro avere
disavvantaggio per la buona compagnia de’ franchi guerrieri ch’erano
con il duca di Guales. Il giovane e franco barone ne prese sdegno, e
cavalcò a Parigi e rifiutò l’uficio, e allora fu fatto conestabile
il duca d’Atene conte di Brenna. Il valente duca di Guales intese
a conducere la sua preda, ch’era oltre a modo grande, e sentendo i
nemici appresso, come fu alla selva di Crugnì per maestria di guerra vi
nascose una parte di sua gente in aguato, e i Franceschi vi mandarono
ad imboscare, non sapendo degl’Inghilesi che v’erano, messer Astorgio
di Duraforte con mille cavalieri, i quali entrando nella selva furono
di subito assaliti dagl’Inghilesi che prima v’erano riposti, che
poco sostennono, che furono sconfitti e sbarattati con loro danno,
e d’allora innanzi non trovarono gl’Inghilesi contasto, e ricchi di
preda, sani e salvi si tornarono a Bordello in Guascogna, del mese di
novembre del detto anno.

CAP. LXXXVII.
_Come morì il re Lodovico di Cicilia, e l’isola rimase in male stato._
Di questo mese di novembre anno detto, Lodovico di Cicilia primogenito
di don Pietro si morì molto giovane, e poco appresso di lui si morì il
seguente suo fratello detto duca Giovanni, e de’ tre fratelli rimase
Federigo il minore, il quale la setta de’ Catalani recarono appo
loro, per potere sotto il titolo d’avere a governare il giovane, a
cui s’appartenea il regno, aggiugnersi maggiore forza. Ma per questo
l’altra setta degl’Italiani si feciono più strani contro al duca
Federigo, e diventarono più animosi contro alla setta de’ Catalani.
E per la detta maladizione di divisione e tempesta tanto intestina
battaglia era nell’isola, che gli abitanti di catuna terra erano
in fatica d’avere del pane per vivere, e consumavansi d’inopia e di
carestia; e di questo seguitò poi grande novità nell’isola, come al suo
tempo racconteremo.

CAP. LXXXVIII.
_Come in Napoli fu romore._
A’ Napoletani parendo essere gravati de’ danari pagati per la compagnia
e d’alcune altre gravezze, del mese di novembre del detto anno, per
mostrare la potenza e la franchigia di quella città, tutti di concordia
presono l’arme, e feciono armare tutti i forestieri mercatanti e
artefici ch’erano nella città, e levarono il romore, gridando: Viva la
reina, e muoia il suo consiglio. E di questo tumulto seguitò solamente,
che la misura del sale fu alcuna cosa consentita loro migliore mercato:
convenevole prezzo di cotanto movimento, non volendosi francare
dell’antica consuetudine della loro natura, che come sono pieni di
furore per ambizioso vento, così poco mantengono l’ira, che li riduce a
pace.


LIBRO SESTO

CAPITOLO PRIMO.
_Il Prologo._
Perocchè ’l sesto libro del nostro trattato nuova e non pensata materia
di guerra nel suo principio con seguito di gran cose in breve tempo
ci apparecchia, ci fa pensare come e quanto lo stato della tirannesca
signoria è pieno d’aguati e di calamitosa vita. Le loro scellerate
operazioni sempre combattono e spesso abbattono le virtù de’ buoni: i
loro diletti sono dissimiglianti a’ buoni costumi: per loro s’abbattono
le ricchezze de’ sudditi; nimicano gli uomini che crescono nella loro
giurisdizione in magnanimità e in senno; assottigliano con incarichi la
sustanza de’ popoli: la loro sfrenata libidine non prende saziamento
dal fatto, ma quanto il piacere della vista richiede, tanta in fatto
a’ sudditi contro all’onesto debito conviene sostenere e patire.
Ma perocchè in queste e molte altre maligne operazioni le violenti
tirannie si manifestano, non richieggiono da noi nuovo raccontamento.
Ma traendone una parte assai strana nell’apparenza e assai dimestica
nel fatto, qual’è più maravigliosa vista, guardando nella tirannesca
gloria, a vedere antichi e nobili principi naturali ubbidienti a’
tiranneschi servigi, e uomini d’alti lignaggi e d’antica nobiltà usare
le mense di coloro, e prendere le loro provvisioni? Ma se guardare
vogliamo l’uscimento delle cose, quella gloria spesso si converte
in calamitosa miseria. Chi la può disegnare maggiore? che i tiranni
medesimi non sanno nè possono in alcuno riposare la loro fede, ed
eglino al continovo aspettano il cadimento del tiranno, e lievemente
si dispongono e accordano alla loro distruzione, non ostante le
sopraddette cose. E questo non si trova avvenire nelle reali e naturali
signorie, perocch’e’ loro fatti ne’ sudditi, e nelle loro virtù e cose
son contrarie a’ tiranni. Dunque come le tirannie si criano, com’elle
esaltando si fortificano e crescono, così in esse si nutrica e nasconde
la materia della loro confusione e ruina. Certo intra l’altre questa
è grandissima miseria de’ tiranni: e perocchè al presente ci occorre
alcuna cosa di ciò manifestare in fatto non di lieve movimento, come
seguirà appresso nostro volume, basti narrando quella avere fatto certa
prova al nostro proponimento.

CAP. II.
_Come nacque briga da’ Visconti e que’ di Pavia e di Monferrato._
Certa cosa è, che il marchese di Monferrato per vicinanza e per larghe
provvisioni de’ tiranni di Milano, e i signori da Beccheria di Pavia
parenti stretti e dimestichi della loro mensa, per lunghi tempi uniti
colla casa de’ Visconti signori di Milano, e nelle loro guerre stati i
principali aiutatori, e in questo tempo valicando Carlo d’Osteric re
de’ Romani in Lombardia, come già è detto, il marchese, non ostante
ch’e’ fosse soggetto all’imperio, venne a Milano per dare aiuto e
favore a’ signori con seicento cavalieri di buona gente d’arme, e
que’ da Beccheria anche vi mandarono loro sforzo. Avvenne, che un
dì essendo il marchese in Piacenza in compagnia di messer Maffiolo
Visconti, ch’allora vivea, un suo scudiere andò in cucina al cuoco
di messer Maffiolo per un tagliere di vivanda: il cuoco villanamente
gliel contradicea: lo scudiere sdegnoso diede una gotata al cuoco, e
portonne la vivanda; il cuoco di presente se n’andò a dolere a messer
Maffiolo suo signore. Il tiranno mosso a furore non considerò suo
onore, nè quello di tant’uomo quant’era il marchese, e senza dirli
alcuna cosa, avendolo in sua compagnia, fece prendere lo scudiere,
e in quell’istante tagliarli la mano; della qual cosa il marchese
fu molto turbato, ma ritenne con virtù nel petto il grave sdegno.
Questo li rinnovò nella mente certo oltraggio che la famiglia di
messer Galeazzo Visconti per maggioranza avea fatto alla sua gente
che vicinavano con sue terre, la quale cosa con senno avea trapassata
insino allora. E ancora di nuovo sentiva, come al continovo per nuovi
dispetti la gente di messer Galeazzo oltraggiava i detti sudditi che
vicinavano con loro, e il signore il sentiva, e vedea l’onore che ’l
marchese facea alla loro signoria, e per arrogante maggioranza mostrava
d’esserne contento; onde turbato il marchese, cambiò l’animo, ed
essendo con quelli da Beccheria una cosa, s’intesono insieme, essendo
l’imperadore futuro a Mantova, e ancora, con lui s’intesono in segreto.
E trattando l’imperadore co’ signori di Milano di volere prendere la
corona a Moncia, sentirono i Visconti, che se non s’accordavano con
lui, che quelli da Beccheria erano acconci di riceverlo in Pavia;
onde i signori concepettono contro a loro; per la qual cosa poterono
comprendere, che partito l’imperadore, a loro converrebbe mutare
stato. E tornando l’imperadore coronato da Moncia in Milano, i signori
feciono molti cavalieri, e in questo stante il marchese cavalcò subito
a Pavia, e menò seco due di quelli da Beccheria e feceli fare cavalieri
all’imperadore, e questo accrebbe l’izza e la malavoglia a’ tiranni.
Poi partito l’imperadore il marchese se n’andò via, e quelli da
Beccheria rimasono in gran sospetto de’ signori di Milano, e stavanne
in più guardia che non soleano. E dalle sopraddette cose seguitarono
le ribellioni e le nuove guerre che appresso seguirono a’ signori di
Milano, come seguendo nostro trattato per li tempi racconteremo.

CAP. III.
_Come si rubellarono terre di Piemonte._
Il marchese di Monferrato avendo ordinato co’ signori di Pavia che
si fortificassono di gente e di buona guardia, acciocchè i tiranni
vicini non li potessono improvviso sorprendere, tornato nelle sue
terre, procacciò aiuto di gente d’arme da certi baroni tedeschi di sua
amistà, e con suoi trattati (ch’era molto amato da quelli del Piemonte
e dalla sua gente) trovandosi forte di cavalieri e favoreggiato
dall’imperadore, del mese di dicembre, gli anni di Cristo 1355, fece
rubellare nel Piemonte a messer Galeazzo de’ Visconti di Milano Chieri
e Carasco; e poco appresso del mese di gennaio fece rubellare al detto
tiranno la ricca terra d’Asti, e appresso Albi, Valenza, e Tortona, e
più altre terre del Piemonte, e tutti i popoli di quelle d’un animo,
con ordine di mantenere la difesa, feciono loro capitano il detto
marchese. Messer Galeazzo vi mandò incontanente molta gente d’arme
a cavallo e a piè credendo ricoverare delle terre; il marchese era
provveduto di buona gente, e coll’aiuto de’ Piemontesi si fece loro
incontro alle frontiere, e in alcuni abboccamenti fece vergogna alla
gente di messer Galeazzo, e difese bene i Piemontesi. Allora quelli da
Beccheria, ch’erano confederati nella amistà e compagnia del marchese,
non si poterono più coprire, e però in aperto si fortificarono di
gente e d’altre cose, aspettando l’impeto dell’ira e della forza de’
tiranni contro a loro, non dimostrando però di volere essere i movitori
della guerra, ma apparecchiati alla difesa. Lasceremo alquanto questa
materia per raccontare al suo tempo con più chiarezza le cose che ne
seguitarono, e diremo degli altri fatti che prima occorrono alla nostra
materia.

CAP. IV.
_Come i Fiorentini feciono lega contro la compagnia._
E’ m’incresce di scrivere quello ch’ora seguita, perocchè ’l nostro
comune delle leghe e delle compagnie c’ha usato di fare co’ comuni
di Toscana, al bisogno sempre s’è trovato ingannato, nondimeno il
fatto narreremo. Sentendosi già per tutta Italia che ’l conte di Lando
colla compagnia ch’aveva nel Regno era per venire al primo tempo nella
Marca, e valicare in Toscana, i Fiorentini volendo riparare ch’ella
non facesse ricomperare i comuni di Toscana, mandarono a Perugia, e a
Pisa, e a Siena, e all’altre minori comuni di Toscana, richieggendo i
detti comuni, che per beneficio di tutti parea loro di fare una lega
e una taglia di duemila cavalieri il meno, i quali fossono al tempo
apparecchiati interi e cavalcanti al servigio della detta lega contro
alla compagnia, o a chi venisse a fare guerra sopra alcuna città di
quelle della lega. E a ciò feciono muovere i detti comuni per loro
ambasciadori, e durò il trattato lungamente, sturbandolo i Sanesi per
l’izza ch’aveano presa co’ Perugini per l’impresa di Montepulciano; in
fine, essendo la cosa cominciata al principio di gennaio, del mese di
febbraio del detto anno ebbe compimento in questo modo tra’ Fiorentini,
e’ Pisani, e’ Perugini: che la lega dovesse durare tre anni, e la
taglia fosse di milleottocento cavalieri, ottocento de’ Fiorentini,
cinquecentocinquanta de’ Pisani, e quattrocentocinquanta de’ Perugini;
con patto ch’e’ Sanesi vi potessono entrare colla loro parte della
taglia de’ cavalieri, e che del mese d’aprile fossono pagati e
apparecchiati, e che l’uno comune dovesse fare rassegnare i cavalieri
dell’altro. La lega fu ferma e fatta, l’effetto che ne seguitò fa
manifesto quello che poco innanzi n’avemo detto.

CAP. V.
_Come gli Scotti presono Vervic._
Essendo tornato il re d’Inghilterra a Calese dalla cavalcata ch’avea
fatta ad Amiens, come poco innanzi abbiamo detto, i baroni di
Scozia sentendo il re, e i figliuoli, e’ baroni, e tutta la forza
del re d’Inghilterra valicati nel reame di Francia, e cominciatovi
grande guerra, non ostante che il loro re vi fosse in prigione,
prestamente accolsono molta gente d’arme a cavallo e a piè, e
improvviso agl’Inghilesi se ne vennono a Vervic, grande e forte terra
degl’Inghilesi, situata agli stremi de’ confini di Scozia; e giugnendo
alla città sprovveduta, per forza v’entrarono dentro e presono la
terra, ma il castello del re che v’era forte e bene guernito non
poterono avere; ma com’ebbono presa la terra, la lasciarono guernita
di loro gente, e per savia provvisione con tutta loro oste si misono
innanzi, e presono una montagna onde il soccorso degl’Inghilesi
potea venire alla terra, e non d’altra parte, e ivi s’accamparono per
contradire agl’Inghilesi il passo. Era in que’ dì il conte di Lancastro
già tornato in Inghilterra, il quale di presente cavalcò nel paese
colla sua gente, ma non ebbe podere di levare gli Scotti dal passo.
Il re Adoardo sentendo la novella degli Scotti, incontanente valicò
nell’isola con quella gente che subitamente potè muovere, e senza
arresto se n’andò contro a’ nemici che teneano il passo della montagna,
e aggiuntosi il conte di Lancastro colla sua gente, non ostante che
grande fosse il loro disavvantaggio ad avere a combattere i nemici
all’erta, colla sua persona si mise innanzi, e diede tanto conforto
a’ suoi, ricordando loro le vittorie avute sopra gli Scotti e la loro
viltà, che con tanto ardore d’animo, e con tanto duro assalto d’ogni
parte li percossono, che per forza li ributtarono della montagna;
e senza avere cuore di rifare testa alla terra ch’aveano presa
l’abbandonarono in tanta fretta, che la preda ch’aveano accolta non
ne portarono, e assai de’ loro Scotti vi lasciarono morti e presi per
ricordanza. E questo fu del mese di gennaio del detto anno. Allora fece
il re racconciare la terra, e fornire di miglior guardia.

CAP. VI.
_D’un trattato fatto per racquistare Bologna._
Messer Bernabò de’ Visconti di Milano avendo la mente attenta a trovar
modo di racquistare Bologna, e di vendicarsi di messer Giovanni
da Oleggio; quanto che per l’accordo fatto si dimostrasse amico,
diede boce e dimostrò manifesto segno di volere guerreggiare in
sul Ferrarese; e mandò messer Arrigo figliuolo di Castruccio che fu
tiranno di Lucca in Romagna, a conducere al suo soldo mille barbute
della compagnia ch’allora era nel paese, il quale avea caparrati i
conestabili, e intesosi secondo il segreto a lui commesso da messer
Bernabò col capitano di Forlì, e col signore di Ravenna, e con alquanti
degli Ubaldini in cui si confidava, e ancora s’intendea col podestà di
Bologna, ch’avea nome messer Ramondo de’ Ramondi di Parma, ed erano in
questo trattato certi caporali di quelli da Pagano, e altri Bolognesi
confidenti di messer Bernabò. Il modo era, che la forza del tiranno
dovea venire da Milano sul Ferrarese secondo la palese boce, e già era
messer Bernabò venuto in persona a Parma con duemila cavalieri, e come
messer Bernabò fosse in sul Ferrarese, messer Arrigo di Castruccio
co’ cavalieri condotti di Romagna, e coll’aiuto de’ Romagnuoli e degli
Ubaldini, essendo provveduti e apparecchiati, doveano il dì nominato,
essendo messer Bernabò in sul Ferrarese, valicare sopra Bologna da
quella parte, e messer Arrigo colla sua compagnia venire dall’altra,
e allora il podestà, e que’ da Pagano con gli altri Bolognesi
confidenti doveano levare il romore nella città, e con loro quattordici
conestabili di cavalieri che tenevano a questo trattato; e costoro,
ch’erano soldati di messer Giovanni, nel romore doveano trarre a lui, e
ucciderlo se potessono, e se non, si doveano strignere dall’una parte
della città, e aprire e spezzare la porta, e mettervi dentro quella
gente di fuori che più avessono di presso. Questo trattato era segreto
per li palesi verisimili della vicina impresa della guerra di Ferrara,
alla quale il marchese prendea ogni riparo che potea; ma come fu
piacere di Dio, per lo meno male, la cosa fu rivelata per strano e non
pensato modo come appresso diviseremo.

CAP. VII.
_Come si scoperse il trattato di Bologna, e fevvisi giustizia._
In Bologna era tornato di Romagna messer Arrigo di Castruccio,
avendo fornito e messo in punto ciò che gli era stato commesso, e
ivi era venuto per intendersi con gli altri traditori. Avvenne, che,
all’entrata del mese di Febbraio del detto anno, Francesco de’ Roaldi
di Bologna, grande cittadino e molto confidente di messer Giovanni da
Oleggio, tanto ch’al continovo ricevea provvisione da lui, essendo in
questo trattato, confidandosi nel suo senno, volendosi sgravare della
sua provvisione, se n’andò a messer Giovanni, e per me’ coprire quello
che sentiva in sè, disse: Signor mio, pigliate ne’ vostri fatti buona
guardia, perocch’io sento che molti uomini, e oltre al modo usato, sono
venuti della montagna nella città in questi giorni; e a dirli questo
il movea la tenerezza ch’avea nell’animo del suo stato e onore, per
lo beneficio ch’avea ricevuto e ricevea da lui. Il tiranno il commendò
di questo fatto, e ringrazionnelo assai, e dopo questo confortò della
buona guardia. Messer Francesco entrando in altra materia disse a
messer Giovanni: Signor mio, io vi prego che vi piaccia di darmi
licenza, ch’io possa prendere altrove mio vantaggio, perocchè della
provvisione ch’io ho da voi non posso comportare la vita mia a onore.
Il tiranno si maravigliò di questo, perocchè gli avea assegnate grandi
provvisioni e altri gaggi, e ricordogli le dette cose, e ancora li
promettea al tempo maggiori, e nondimeno messer Francesco pure gli
domandava licenza. Il tiranno gli disse, che si ripensasse, e poi
tornasse a lui; e a tanto si partì messer Francesco. Messer Giovanni
mandò incontanente alle porti, e fece sapere chi a que’ giorni vi fosse
entrato oltre all’usato modo, e trovò che non v’erano entrati contadini
nè altra gente oltre al modo usato, e così se n’erano usciti. E per
questo cominciò a maravigliarsi più del movimento di messer Francesco
de’ Roaldi, e sospicciando mandò per lui; e quando l’ebbe seco, il
tiranno finse di sapere che sentisse contro a lui alcuno trattato. Il
savio cavaliere veggendosi preso dall’astuzia, pensò che senza grave
tormento non potea passare mettendosi al niego, e però di cheto gli
confessò e manifestò tutto il trattato. Il tiranno senza arresto mandò
per lo potestà, e per messer Arrigo di Castruccio ch’era in Bologna,
e per que’ caporali da Pagano, e avuti costoro disse, e a certi degli
Ubaldini ch’era no in quel servigio, ch’e’ perdonava loro per vicinanza
e per molti servigi ch’avea ricevuti da quella casa, ma comandò loro
che incontanente si dovessono partire, e così fu fatto. E abboccando
messer Giovanni i traditori insieme, fu da loro al tutto chiaro del
trattato sopraddetto: e a dì 12 di febbraio, non trovando il tiranno
chi volesse fare la condannagione nè l’esecuzione, fece podestà messer
Tassino de’ Donati rubello di Firenze; costui li condannò; e Sinibaldo
di messer Amerigo Donati di Firenze, allora in bando e al soldo del
tiranno, con dugento fanti tutti armati a corazze fece tagliare la
testa a messer Arrigo, figliuolo che fu di Castruccio signore di Lucca
e di Pisa, e a messer Bernardo e a Galeotto da Pagano, e a messer
Ramondo Ramondi da Parma podestà di Bologna, e a Francesco de’ Roaldi
di Bologna; e appresso, a dì 20 del detto mese, ne furono decapitati
diciassette tra conestabili de’ soldati e famigli de’ traditori.
E fatto questo, messer Giovanni rimase in maggior paura, e in gran
sospetto di messer Bernabò di Milano.

CAP. VIII.
_Come il signore di Bologna fece lega._
Era insino a qui messer Giovanni da Oleggio, poichè avea fatta la pace
e la concordia con messer Bernabò, stato in fede ne’ suoi servigi, e
intesosi con lui e ricevuto in Bologna le sue podestà, e attendea dopo
la sua morte lasciarli Bologna, come gli avea promesso, ma vedendo
questo mortale trattato contro a sè, non pensò potersi mai più fidare
de’ signori di Milano, e conobbe, che a volersi meglio potere guardare
gli convenia essere loro mortale nemico, e però incontanente si rifornì
di nuove masnade di cavalieri e di masnadieri. Ed essendo in guerra il
signore di Mantova e il marchese di Ferrara col Biscione, ch’allora
era così chiamata la tirannia di Milano per la loro arme, si collegò
con loro, e promise d’essere sempre contro alla casa de’ Visconti
di Milano, e mandò la sua gente a fare loro guerra con gli altri
collegati.

CAP. IX.
_Come l’oste del Biscione ch’era a Reggio si levò in isconfitta._
A Reggio era stata lungamente l’oste de’ signori di Milano in una
forte bastita presso alla terra, nella quale avea ottocento cavalieri
e grande popolo, e in quel tempo vi s’aspettava il fornimento della
vittuaglia da Parma con grande scorta. Il marchese di Ferrara, e
quegli di Mantova, e ’l signore di Bologna sentendo quell’apparecchio,
accolsono loro gente per impedire la scorta a loro podere; e avendo
a Modena seicento barbute e cinquecento masnadieri, il signore di
Bologna n’aggiunse dugento cavalieri e cinquanta masnadieri; e avendo
lingua come la vittuaglia in dugento carra colla scorta dovea l’altro
dì venire alla bastita, cavalcarono la notte per modo, che essendo
giunta l’altra parte alla bastita, e messavi la roba, tornandosene
senza sospetto, costoro li assalirono sprovveduti, i quali non feciono
retta, e quasi tutti furono presi, i buoi e le carra in preda. E
avuta subitamente questa vittoria, con grandi grida e con maggiore
baldanza percossono alla bastita dalla parte di fuori; e quelli di
Reggio ch’aveano veduta la vittoria della loro gente francamente li
assalirono dalla parte d’entro, e combattendo la bastita d’ogni parte,
in fine per forza v’entrarono dentro, ed ebbono a prigioni i cavalieri
e’ masnadieri che quella guardavano, e pochi ne poterono campare; e
messa la vittuaglia e l’arme, e tutti i prigioni guadagnati in Reggio,
arsono in tutto la bastita: e riposati alcuno dì la gente in Reggio,
cavalcarono infino a Parma, e valicarono quella facendo grandi prede
e danno a’ paesani: e del mese di febbraio del detto anno, con grande
onore e ricca preda, in vergogna de’ tiranni di Milano, si ritornò
catuna gente a’ suoi signori senza trovare alcuno contasto.

CAP. X.
_Come i Chiaravallesi di Todi tenevano trattato col prefetto._
Del mese di febbraio del detto anno, i Chiaravallesi di Todi per
provvisione del comune tornarono a’ loro beni, e potendo colle loro
persone usare la cittadinanza, cercavano, come mal contenti, trattato
col prefetto di Roma di metterlo in Todi per farlone signore; e non
potendo menare eglino questo perchè erano sospetti, il feciono menare
a un messer Andrea giudice di Todi loro confidente. Il trattato
si scoperse, e al giudice fu tagliata la testa. I Chiaravallesi
avvedendosi che il comune di Todi per questo prendea di loro maggiore
sospetto, temendo di non essere corsi un dì a furore, da capo uscendo
della città, presono il castello di Toscina l’aprile seguente, e
rubellaronlo al comune.

CAP. XI.
_Come morì messer Pietro Sacconi de’ Tarlati._
Essendo messer Pietro Sacconi de’ Tarlati d’Arezzo in età decrepita
intorno al centinaio degli anni, e malato a morte, in questi dì si
disse pubblico, ch’e’ pensò di non volere morire che non ordinasse
prima alcuno nobile fatto del suo antico mestiere: e ordinò con Marco
suo figliuolo, dicendo: Ora, che si crede che tu sia imbrigato intorno
alla mia malattia, e che altri non prenderà guardia di te, procaccia
di furare Gressa al vescovo d’Arezzo e agli Ubertini. Il figliuolo
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