Cronica di Matteo Villani, vol. 3 - 14

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quelli del castello. Il marchese colla sua gente francamente si fece
loro incontro, e nella prima affrontata gli mise in rotta, e fece
loro danno ma non grande. E tornato colla vittoria, fece vedere a
quelli del castello le cave e le mura tagliate, e il loro soccorso
sconfitto: e però, a dì 21 di gennaio s’arrenderono al marchese,
salve le persone, e diedongli il castello fornito d’armadura, e di
saettamento, e d’ogni bene da vivere maravigliosamente. Ed è da notare,
non senza ammirazione, come la famosa potenza de’ signori di Milano,
essendo vittoriosi, come avemo contato, in termine di due mesi e mezzo
non poterono soccorrere il castello di Novara; e tutto avvenne per
la franca e buona sollicitudine del buono marchese. Di questo mese,
a dì 22, in sull’ora della terza trapassò di verso settentrione in
meriggio un grande bordone di fuoco, e valicato per l’aria alla vista
de’ nostri occhi, essendo il tempo chiaro e cheto, s’udì a modo d’un
tuono tremolante avvisato dal movimento del grosso vapore. Videsi la
state singulare e grandissimo caldo, e lungamente secco e sereno, e
molte terzane nell’arie grosse e presso alle fiumare, con seguito di
morti oltre al consueto modo; altro non ne sapemmo notare se da lui
procedette.

CAP. XLVIII.
_Come messer Bernabò volle uccidere messer Pandolfo Malatesti._
Messer Pandolfo figliuolo di messer Malatesta da Rimini giovane
cavaliere, franco e ardito e di grande aspetto, era andato per
esperimentare in arme sua virtù a Milano, fatto capitano di tutta
la cavalleria di messer Galeazzo Visconti: ed era venuto tanto nel
piacere del suo signore, che tutto il consiglio e la confidanza di
messer Galeazzo riposava in messer Pandolfo. Avvenne di questo mese di
gennaio, essendo messer Galeazzo malato di podagre e d’altro, comandò
a messer Pandolfo che cavalcasse per Milano colla sua cavalleria, e
messer Pandolfo fece come comandato gli fu dal suo signore. Questa
cosa parve che generasse sdegno a messer Bernabò, ma non lo volle
dimostrare contro al fratello; ma ivi a pochi dì mandò per messer
Pandolfo, il quale di presente andò a lui e per reverenza gli
s’inginocchiò davanti. Messer Bernabò, avendo in mano una spada dentro
alla guaina, il percosse con essa senza dirgli la cagione: il giovane
sostenne alquanto, ma menandogli sopra la testa, parò il braccio, e
in quella percossa il fodero della spada uscì del ferro; e rimase il
ferro ignudo nelle mani del tiranno, incrudelì forte, e menogli un
colpo di punta, che l’avrebbe passato dall’uno lato all’altro (e fu
bene l’intenzione del tiranno d’ucciderlo) ma per schifare il colpo,
il giovane cavaliere si lasciò cadere in terra, e ’l colpo andò in
vano. Intanto la moglie di messer Bernabò, ch’era presente, con gli
altri circostanti cominciarono a riprenderlo, dicendo, che non era
suo onore in casa sua colle sue mani volere uccidere un gentile uomo.
E per questo si ritenne, e fecelo prendere e legare, e comandò che
fosse decapitato. Messer Galeazzo sentendo il furore del fratello,
mandò a lui prima la moglie, e appresso due suoi cavalieri, pregandolo
che gli rimandasse il suo capitano. Allora disse messer Bernabò: Dite
al mio frate, che questi ha offeso lui come me, e io gliel rimando,
acciocchè ne faccia giustizia, e non perdoni a costui la nostra onta.
Come messer Galeazzo il riebbe, senza alcuno arresto in quell’ora il
fece accompagnare per le sue terre, e rimandollo in suo paese. La
cagione che messer Bernabò disse palese della sua ingiuria fu, che
’l giovane dovea usare con una donna colla quale usava egli, e che
conobbe a messer Pandolfo in dito un suo anello. La cagione segreta, a
che più si diede fede, fu, perchè gli parea che costui facesse troppo
montare il suo fratello nella consorte signoria. Pochi dì appresso
si mostrò di ciò un altro segno; che essendo venuti a parole due
scudieri, l’uno di messer Bernabò, e l’altro di messer Galeazzo, e
dalle parole a mischia, ove fu fedito il famiglio di messer Bernabò,
e quello di messer Galeazzo rifuggito in casa il suo signore, di
presente messer Bernabò vi cavalcò in persona; e vedendo il fratello
alle finestre, gli disse, che gli mandasse giù quello scudiere che
avea fedito il suo. Messer Galeazzo glie le mandò; e lo scudiere gli
si gettò a’ piedi domandandogli misericordia. La misericordia che
gli fece fu, che negli occhi del fratello il fece tutto stampanare,
e lasciolli il corpo senza anima così forato all’uscio, e tornossi a
casa. Avvenne ancora in questi dì, che un giovane di buona famiglia
di Bergamo, essendo richiesto da uno messo per la signoria, il prese
per la barba, e confessato in giudicio il fallo suo, fu condannato in
venticinque libbre. Sentendolo messer Bernabò, scrisse al potestà che
gli facesse tagliare la mano. E avendolo il potestà preso per seguire
il comandamento, i buoni cittadini della città comparenti del giovane,
parendo loro troppa dura cosa questo giudicio, operarono tanto con il
potestà, che sostenne l’esecuzione tanto ch’eglino andassono per avere
grazia dal signore. Come il tiranno sentì per questi ambasciadori ch’al
giovane non era tagliata la mano, comandò che al giovane le due, e al
potestà l’una fossono tagliate, e a fare questo vi mandò gli esecutori.
La potestà sentendo il crudele comandamento, col giovane ch’avea
preso si fuggirono in uno castello ribello al tiranno. E non molto
di lungi da questi dì uno lavoratore uccise con una mazza una lepre,
che gli occorse per caso tra le mani, e portolla all’oste suo, ch’era
grande cittadino di Milano, e dimestico di messer Bernabò. Vedendola
costui sformatamente grande e grassa la presentò a messer Bernabò; il
quale veduta la lepre, si maravigliò, e domandò ov’ell’era nudrita:
fugli detto, ch’ell’era stata presa per lo cotale lavoratore. Mandò
per lui, e domandollo come l’avea presa. Il lavoratore lietamente
gli raccontò il caso intervenuto. Il tiranno, perchè avea comandato
che il salvaggiume non si pigliasse con alcuno ingegno, fuori che co’
cani o uccelli, non avendo compassione alla semplicità del villano, nè
al caso occorso, incrudelì contro al semplice; e mandato per li suoi
cani alani, nella sua presenza il fece morire e dilacerare a quelli.
Le crudeltà sono poco degne di memoria, ma alquanto ci scusa averne
raccontate delle molte alcune, per esempio del pericolo che si corre
sotto il giogo della sfrenata tirannia.

CAP. XLIX.
_Come i Genovesi racquistarono Savona._
Messer Simone Boccanegra doge di Genova, avendo ripresa la signoria
per lo popolo, mandò per avere tutte le terre e castella della riviera
di levante e di ponente e fra terra, e in breve tutti feciono i suoi
comandamenti, fuori che Savona, Ventimiglia, e Monaco; i quali essendo
in forza de’ Grimaldi, e d’altri gentili uomini di Genova, non vollono
ubbidire il doge. E però il doge commosse il popolo, e per mare e per
terra fece assediare Savona, e strignerla per modo, che tosto venne
in soffratta; e quelli che la teneano avendola di poco rubellata
al Biscione, non erano provveduti a potere avere soccorso, e però
trattarono certi patti, e del mese di febbraio del detto anno feciono
i comandamenti del doge, e ricevettono la sua signoria e del popolo di
Genova.

CAP. L.
_Guerra dal re di Castella a quello d’Araona._
Pella guerra incominciata, come addietro è narrato, tra ’l re di
Castella e quello d’Araona, il re di Castella essendo apparecchiato
con sua gente, improvviso al suo avversario cavalcò sopra le terre
di quello d’Araona, e danneggiò assai il paese, e per forza vinse e
prese la città di Saragozza, e arse la terra, e ritennesi la rocca, e
misevi gente alla guardia. Di questo nacque l’abboccamento che appresso
ne seguitò de’ due re con tutto loro sforzo, come seguendo al tempo
racconteremo. E questo avvenne del mese di febbraio del detto anno.

CAP. LI.
_Come messer Filippo di Navarra cavalcò presso a Parigi._
Messer Filippo fratello carnale del re di Navarra, ch’era preso dal re
di Francia, si mise in compagnia del conte di Lancastro, e con molti
cavalieri e arcieri cavalcarono verso Parigi, scorrendo e predando il
paese, senza trovare in campo alcuno contasto, e accostaronsi presso a
Parigi a quindici leghe, e di là elesse messer Filippo mille cavalieri
Franceschi, navarresi e normandi, e con essi cavalcò all’uscita di
gennaio del detto anno infino presso a Parigi a tre leghe, ardendo
ville casali e manieri in grande quantità, e uccidendo e predando bene
alla disperata; e sì avea in quell’ora in Parigi cinquemila cavalieri
armati, e non ebbono ardire d’uscire della città, tanto erano inviliti.
E avendo per questo modo danneggiato il paese, e fatto onta e vergogna
al vilissimo Delfino, raccolta sua preda, con tutta sua gente sano e
salvo si tornò al conte, e di là tutti insieme carichi degli arnesi e
de’ beni de’ Franceschi, e di loro prigioni si tornarono, senza vedere
viso di nemico, in loro paese. In questi dì il Delfino s’era rimesso
nel consiglio e nelle mani di certi borgesi, i quali erano stati
eletti per comune consiglio del popolo di Parigi, e avea giurato nelle
loro mani di fare pace e guerra come per loro si diliberasse. E molti
stimarono che questa fosse la cagione perchè non uscì contro a messer
Filippo di Navarra, potendolo fare con molta maggiore forza per numero
di cavalieri che non avea egli.

CAP. LII.
_Come si cominciò le mulina del comune di Firenze._
Del mese di marzo, anno 1356 all’entrante, diliberò il comune di
Firenze di far fare la gran pescaia in Arno sopra la città, dalla
torre del Renaio alla porta di san Niccolò, e ’l canale che prende
di sopra a san Niccolò infino al Ponte rubaconte da san Gregorio, nel
quale ordinarono e poi fornirono due case a traverso al canale, l’una
di sopra e l’altra di sotto, catuna con sei palmenta per lo comune
molto bene edificate, e ancora per ordine vi se ne dovea fare quattro
penzole. Provvide questo il comune per fatti delle guerre di fuori,
che faceano alcuna volta venire di farina la città in gran soffratta,
e queste vengono nella guardia dentro alle mura della città, e spesso
hanno d’acqua grande abbondanza.

CAP. LIII.
_Come il reame di Francia ebbe gran divisione._
Detto abbiamo poco addietro come i borgesi di Parigi doveano guidare
il Delfino e ’l reame, ma il mestiere di tanto fascio non era loro;
e per la presura del re Giovanni, e per la codardia del Delfino suo
figliuolo, l’ordine del consueto corso del reame era rotto, e’ baroni
e’ popoli si governavano a loro senno, e’ borgesi di Parigi non poteano
nè sapeano riparare. Gl’Inghilesi tennono con loro trattati d’accordo,
e a mano a mano gli cavalcavano, facendo loro gran danni; e però,
credendosi potere meglio riparare, ordinarono di comune concordia del
reame che la balía e ’l consiglio del reggimento in quelle fortune
fosse di tre prelati, e di tre baroni, e di tre borgesi, con piena
balía di potere fare pace e guerra, e leggi e comandamenti come a loro
paresse; e convenne che ’l Delfino acconsentisse a questo reggimento, e
promettesse reggersi per loro consiglio. Dall’altra parte tutti quelli
di Linguadoca feciono loro conducitore il conte d’Ormignac, dandoli
due altri cavalieri per suo consiglio per certo termine, e ’l Delfino
convenne che glie le confermasse; della qual cosa nacque lo sdegno del
conte di Fucì, che fu poi cagione di gran guerra tra loro, come innanzi
si potrà trovare. Nel principio di questo nuovo reggimento al tutto si
mostrarono strani di non volere udire trattato di pace, e cominciarono
a dare ordine d’accogliere danari per fornirsi di cavalieri soldati,
e parve in questi principii dovessono fare gran cose; ma in poco di
tempo, come catuno ebbe fornite sue spezialità per virtù dell’uficio,
lasciarono in abbandono il consiglio del comune reggimento, e senza
ordine trascorsono alla figura della ruina dello sviato regno. I
Piccardi prima avvedendosi di questo, presono da loro di reggersi per
sè, e non conferire nè ubbidire alle colte, nè agli ordini de’ detti
uficiali, e così feciono molte altre provincie e ville del reame; e
di questo nacquono poi cose di gravi danni di tutto il reame, come
seguendo nostra materia si potrà trovare.

CAP. LIV.
_Morte del conte Simone di Chiaramonte in Cicilia._
Essendo il re Luigi in Messina, vi venne il conte Simone di
Chiaramonte; e parendogli avere fatto al detto re gran cose, perocchè
era principale cagione d’avergli fatto avere Messina, e l’altre terre
e castella dell’isola, parendogli dovere avere dal re ogni grazia,
gli addomandò di volere per moglie dama Bianca una delle figliuole di
don Petro che fu re di Cicilia, e oltre a ciò si mostrava in atto e
nel suo parlare più superbo che altiero. Al re e al suo consiglio non
parve convenevole la sua domanda, che tant’era come dargli il regno, e
però entrò in trattato con lui di volergli dare la figliuola del duca
di Durazzo. E in questo stante al conte venne male, che in sette dì si
trovò morto. Sospetto fu, che ’l consiglio del re avesse aoperato nella
sua morte, per tema ch’e’ non movesse novità grandi nell’isola, come
potea, non avendo dal re la sua intenzione. Se natural fu, assai fu a
grado al re e al suo consiglio. E questo avvenne di marzo, anno detto
1356.

CAP. LV.
_Come si liberò il Borgo a Sansepolcro da tirannia._
Francesco di Nieri da Faggiuola essendo come tiranno signore del
Borgo a Sansepolcro, e per tenere quello avea perdute certe delle
sue proprie castella, e vedendosi debole in quello reggimento, trattò
co’ terrazzani d’avere da loro seimila fiorini d’oro, e lasciarli in
libertà; e avendone già avuti tremila, e data la fortezza a guardia
de’ terrazzani, certi Boccognani, ch’erano in bando di Perugia e
riparavansi con lui, il ripresono di viltà, e dissono che nol dovea
fare, ma se avarazia di danari il movea, elli gli farebbono dare
quindicimila fiorini in tre dì al comune di Perugia dando loro
la terra. Costui stretto dalla cupidigia della moneta diè il suo
consentimento a que’ Perugini. Ed egli avea ancora il titolo della
signoria, e le masnade de’ forestieri a piè da poter mettere i
Perugini nella terra, s’e’ borghigiani non se ne fossono accorti, ma
sentirono il fatto; e senza attendere il dì, la notte furono tutti
sotto l’arme, e per forza trassono Francesco e tutti i soldati del
Borgo, e accompagnandoli, gli ebbono condotti in sul terreno di Città
di Castello. Ivi il lasciarono co’ suoi soldati, i quali il ritennono
tanto, ch’e’ tremila fiorini ch’avea avuto da’ borghigiani vennono
nelle loro mani; e avuti i danari, e de’ suoi arnesi, il lasciarono
andare povero e mendico, com’egli avea meritato. I borghigiani usciti
delle mani del tiranno ghibellino si riformarono a popolo e a parte
guelfa, tenendo di fuori tutti i Boccognani ghibellini ch’aveano
tradita la loro terra, come addietro contammo, e’ loro seguaci.

CAP. LVI.
_Come l’abate di Clugnì succedette al cardinale di Spagna._
Avea, come si può vedere addietro, il cardinale di Spagna legato del
papa con prospera fortuna racquistato a santa Chiesa tolte le terre,
ch’erano state occupate lungamente a santa Chiesa nel Patrimonio, nella
Marca, nel Ducato e in Romagna, salvo quelle che tenea il signore di
Forlì, e contro a quelle s’era apparecchiato di vincerle. In questo il
papa, o che fosse movimento suo o de’ cardinali, o fatto a richiesta
o a motiva del legato, la Chiesa mandò successore a fornire le guerre,
che restavano, e a mantenere le ragioni di santa Chiesa in Italia, per
successore del valoroso cardinale di Spagna l’abate di Clugnì con piena
legazione; il quale giunse a Faenza all’entrante d’aprile anni 1357. E
come l’abate fu giunto, la gente della Chiesa in una cavalcata fatta
sopra Forlì, alla quale il capitano uscì incontro per riscuotere la
preda, e’ cadde in un aguato ove perdè da cento uomini di suo i più a
cavallo. E come il nuovo legato fu posato, il legato fece venire a Fano
tutti i maggiori caporali del Patrimonio, e del Ducato, e della Marca
e di Romagna, e ambasciadori delle comunanze, e in quel parlamento il
cardinale fece suo sermone, commendando coloro ch’avea trovati fedeli e
leali a santa Chiesa, e ammonì e pregò tutti generalmente che dovessono
stare in ubbidienza e in fede di santa Chiesa, e a servire il nuovo
legato lealmente come aveano fatto lui, commendando largamente in tutte
le virtù il suo successore, e dicendo come sua intenzione era di voler
tornare a corte di Roma di presente; e questo fu a dì 27 d’aprile del
detto anno. I savi uomini ch’erano in quel parlamento, che conoscevano
il pericolo che correa il paese ancora in guerra partendosi il legato
cardinale, ch’avea l’amore di tutti e le cose aperte nelle mani, il
pregarono di comune consiglio che non si dovesse partire del paese
insino al settembre prossimo: l’abate medesimo con ogn’istanza per
sua parte e per beneficio di santa Chiesa il ne richiese: ond’egli
conoscendo la necessità, affinchè l’acquisto fatto per lui prendesse
più fermezza, acconsentì di stare alle loro preghiere questo tempo. E
quello che principalmente più l’indusse, fu l’impresa ch’avea ordinata
contro all’aspra rubellione del capitano di Forlì, che per vantaggio
che ’l cardinale gli avesse voluto fare, non volea a santa Chiesa
restituire in pace le città di Forlì e di Cesena.

CAP. LVII.
_Come il re di Francia fu menato in Inghilterra._
Tornando nostra materia a’ fatti del re di Francia, ch’era in prigione
a Bordello in Guascogna, i Guasconi, a cui e’ s’era accomandato, non
volendo acconsentire al re d’Inghilterra di mandarglielo nell’isola
com’e’ volea, si pensò il re di fare per ingegno quello che per sua
autorità, senza indegnazione de’ Guasconi co’ quali avea vinta la
sua guerra, nol potea fare. E però fece venire i legati al figliuolo
in Guascogna, e mandovvi i maggiori de’ suoi baroni a trattare la
pace colla persona del re e co’ legati. E recata la cosa per lungo
dibattimento a concordia, per dare più fede al fatto, fu ordinata e
bandita nell’uno reame e nell’altro triegua per due anni; e’ patti
della pace recati in iscritture private, con patto, che per fare onore
al re d’Inghilterra, e per maggior bene della pace, il re dovesse
andare nell’isola, e con lui i legati di santa Chiesa e tutti i baroni
ch’erano presi, acciocchè la pace nella presenza de’ due re e de’
legati avesse la sua intera e piena fermezza. E per questo ingegno,
acconsentendo i Guasconi alla volontà del re e de’ legati, fu il re
di Francia e gli altri baroni liberati al duca di Guales, i quali
con gran compagnia di baroni e di cavalieri inghilesi gli condussono
in Inghilterra, dove furono ricevuti con quella festa e onore ch’al
suo tempo innanzi diviseremo: e questa partita da Bordello fu fatta
d’aprile del detto anno.

CAP. LVIII.
_Come la gente della Chiesa entrò in Cesena._
Dappoichè il cardinale legato ebbe preso partito di rimanere a fornire
la guerra di Romagna, come detto è, ordinò la sua gente d’arme a
cavallo e a piè, e tutti i sudditi richiese d’aiuto; e fece pubblicare
la sentenza contro al capitano di Forlì e contro a chi gli desse
aiuto o favore, e a dì 24 d’aprile anno detto fece scorrere la sua
gente intorno a Forlì, e presono Castelvecchio, e predarono il paese
facendo assai danno, e il capitano a questa volta si stette dentro
alle mura. Avea, come detto è, Francesco Ordelaffi, detto capitano,
mandato alla guardia di Cesena la valente sua donna madonna Cia,
figliuola di Vanni da Susinana degli Ubaldini, con dugento cavalieri
e con assai masnadieri, e comandato a tutti che l’ubbidissono come
la sua persona; e per suo consiglio l’avea dato Sgariglino di....
suo intimo amico. Questa mantenea la guardia della città con grande
sollecitudine: ma i cittadini sentendo la molta gente d’arme ch’avea
il legato, e che contro a loro s’apparecchiavano le percosse, e non si
vedeano potenti alla difesa, quasi in subito movimento ordinarono di
ricevere nella terra di sotto la gente del legato; il quale subitamente
vi mandò millecinquecento cavalieri, e senza contasto furono messi pe’
terrazzani nelle prime cinte delle mura. La donna colla sua forza per
l’improvviso caso non potè riparare a’ nemici, ma ridussesi in quella
parte più alta della terra che si chiama la murata e nella rocca,
all’uscita d’aprile predetto, con tutte le sue masnade da piè e da
cavallo. E presi tre cittadini ch’erano stati al trattato, in sulla
murata li fece decapitare e gittarli di sotto a’ nemici; e con animo
ardito e franco più che virile prese la difesa del minore cerchio e
della rocca con sollecita guardia di dì e di notte, mostrando di poco
temere cosa ch’avvenuta le fosse.

CAP. LIX.
_Come il legato con sua forza andò a Cesena._
Come il legato ebbe la sua gente in Cesena, di presente mandò tutta
l’altra sua cavalleria e fanti a piè a Cesena per assediare la donna e
la sua gente nella murata e nella rocca, innanzi ch’ella potesse avere
altro soccorso, e fece pigliare un monistero ch’era in un colle al pari
della rocca, e fecevi stare gente a cavallo e a piè sì forte, che da
quella parte la rocca non potesse essere soccorsa, e nella terra di
sotto provvide d’afforzarsi per modo che maggior forza che la sua non
gli potesse nuocere: e’ soldati del cardinale avendo contro a’ patti
rubati i terrazzani, avea fatto cambiare loro gli animi, per la qual
cosa la guardia della terra convenia essere grande e forte, e in questo
per tenerli forniti ebbe il legato somma sollecitudine. La valente
madonna Cia dalla sua parte facea francamente dì e notte buona guardia,
tenendosi in grande ordine alla difesa.

CAP. LX.
_Abboccamento e triegua fatta dal re di Spagna al re d’Araona._
Del mese d’aprile anno detto, il re di Castella avendo oltraggiato
in mare e in terra quello d’Araona, come abbiamo contato, temendo
che il re d’Araona non venisse sopra le sue terre colla sua oste,
s’avacciò, e accolse tra Spagnuoli, e infedeli Giannetti, e Mori,
cinquemila cavalieri e grandissimo popolo, e vennesene in sulle terre
d’Araona; e pose campo intorno a Samona, la quale poco innanzi avea
tolta a’ Catalani, e ivi attese il re d’Araona affine di combattersi
con lui. Il re d’Araona avea fatto suo sforzo, e venne contro a lui con
tremilacinquecento cavalieri catalani, e con moltitudine di mugaveri
a piè con loro dardi, e pose il suo campo assai presso a quello degli
Spagnuoli; e catuno s’ordinava per venire alla battaglia. E perchè
il re d’Araona non avesse tanta gente a cavallo quanta il re di
Spagna, non avea minore speranza nella vittoria, perocchè avea buoni
cavalieri, e tutti d’una lingua, e animosi contro gli Spagnuoli, e
dove abboccati si fossono, non era senza effusione di sangue grande,
ma, come a Dio piacque, baroni di catuna parte si misono in mezzo, e
mostrarono a’ signori come di lieve cagione non si convenia a’ due re
essere operatori di tanto male, e presono ordine di trattare la pace,
e in quello stante feciono fare loro due anni di triegua; e del mese di
maggio del detto anno catuno si tornò addietro con tutta sua gente nel
suo reame.

CAP. LXI.
_Come Rezzuolo si diede a’ Fiorentini._
I terrazzani del castello di Rezzuolo, dappoichè furono liberati
dall’assedio del conte Ruberto da Battifolle per comandamento del
comune di Firenze, s’intesono insieme, e recaronsi in guardia e
ubbidiano male Marco di messer Piero Sacconi, perchè si pensava non
poterlo tenere. Nondimeno vi mandò, gente d’arme per guardare la rocca,
dando boce che ’l volea dare al comune di Firenze, perchè sentiva della
volontà de’ terrazzani; ma quelli del castello non li vollono ricevere,
ma feciono loro sindaco con pieno mandato, a darsi liberamente e
farsi contadini di Firenze, e Marco mandò ancora suo procuratore a
Firenze colle ragioni ch’avea nel castello per darle al comune. I
Fiorentini presono prima le ragioni di Marco, e appresso quelle degli
uomini del castello, e questo fu fatto a dì 29 d’aprile anno detto. E
recato Rezzuolo col suo contado a contado di Firenze, e aggiunto colla
montagna fiorentina con cui confinava, e già per questo Marco non si
fece amico de’ Fiorentini, nè i Fiorentini, di lui.

CAP. LXII.
_Come i Pisani vollono torre Uzzano a’ Fiorentini._
I Pisani veggendosi privati del porto, e della mercatanzia, e de’
mercatanti forestieri, della qual cosa seguitava alla loro città
mancamento delle rendite del comune, e incomportabile danno agli
artefici e a’ mercatanti, e scandalo e riprensione tra’ cittadini,
coloro che reggeano lo stato con grande astuzia pensavano di trovare
modo con loro vantaggio, ch’e’ Fiorentini si movessono contro a loro
in guerra, stimando, se guerra si movesse, i cittadini di Pisa, che
sono animosi contro a’ Fiorentini, dimenticherebbono ogni altra cosa
di mercatanzia e di loro mestieri; e però cominciarono certo trattato
in Uzzano di Valdinievole per torlo al comune di Firenze, non avendo
il detto comune per tutta l’ingiuria della franchigia tolta a’ loro
cittadini voluta rompere la pace. Il trattato si scoperse, e Uzzano e
tutte l’altre terre si rifornirono pe’ Fiorentini di migliore guardia,
e presesi per consiglio di dissimulare l’ingiuria. È oltre a questo
usarono un altro scalterimento. Il doge di Genova era singulare loro
amico, e sotto la sua baldanza mandarono ambasciadori a Genova, i
quali fermarono compagnia e lega col doge per un anno, e co’ Genovesi,
a tenere certe galee in mare per non lasciare andare mercatanzia a
Talamone, ma farla scaricare in Porto pisano; e dierono a intendere
a’ Genovesi, che quest’era di volontà de’ Fiorentini ch’aveano voglia
di tornarsi a Pisa, ma non voleano mancare a’ Sanesi per loro fatto
la promessa del porto di Talamone. E fornita la lega, con moltitudine
di stromenti la feciono bandire, e nel bando dire, che i Fiorentini
potessono colle persone e colle loro mercatanzie andare, stare, e
navicare, e mettere e trarre del loro porto, e della città e distretto,
sani e salvi, e franchi e liberi d’ogni dazio, e gabella e dirittura.
E con questa loro provvisione credettono levare i Fiorentini dalla loro
impresa di Talamone, ma trovaronsi ingannati, come appresso diviseremo.

CAP. LXIII.
_Come i Pisani armarono galee per impedire il porto._
I Fiorentini sentendo i maliziosi agnati de’ Pisani, infinsono, come
detto è il fatto d’Uzzano, e mandarono ambasciadori a Genova per
avvisare il consiglio e il popolo di quella città l’inganno col quale i
Pisani gli aveano indotti a fare lega contro al comune di Firenze. Il
doge per la singolare amistà ch’avea co’ Pisani non lasciò avere loro
il consiglio, sicchè non poterono fare quello perchè andati v’erano,
e tornaronsi addietro non senza mormorio de’ cittadini che ’l seppono
contro al doge. I Fiorentini conoscendo quanto danno tornava a’ Pisani
il perdimento del porto e della mercatanzia più l’un dì che l’altro,
aggravarono l’ordine del divieto, e aggiungono, che chi consigliasse,
o procurasse o trattasse, o in segreto o in palese, che a Pisa si
tornasse, fosse condannato nell’avere e nella persona; e mandarono in
Proenza a fare armare galee per conducere la mercatanzia, e’ mercatanti
si procacciarono cammino di Fiandra a. Vinegia ed a Avignone per terra,
non curandosi, di maggior costo, e ogni cosa comportavano lietamente,
acciocchè ’l comune mantenesse l’impresa. I Pisani si sforzarono tanto
ch’ebbono sei galee armate, e più volte cercarono di prendere e ardere
Talamone; la cosa si rimase in questi termini lungamente, tanto, ch’e’
Fiorentini, procurarono di ributtarli in mare.

CAP. LXIV.
_L’aiuto mandò messer Bernabò al capitano di Forlì._
Il capitano di Forlì, sentendo le masnade del legato in Cesena, e
posta la bastita alla rocca, e racchiusa la moglie e i figliuoli
nella murata, mandò per soccorso a messer Bernabò signore di Milano
in cui riposava tutta sua speranza, il quale incontanente intese ad
apparecchiarli il soccorso. Ma perchè scoprire non si volea allora
nemico di santa Chiesa, trattò col conte di Lando caporale della
compagnia, e segretamente si convenne con lui per li suoi danari;
e fece servigio a se del levargli a’ nemici, e mandogli in Romagna
contro al legato, perchè atassono il capitano di Forlì suo amico. E
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