Cronica di Matteo Villani, vol. 3 - 09

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’l porto e ’l mare stesse guardato e sicuro. E non potendosi trarre
altro da loro, il comune mandò all’imperadore in Boemia a sapere,
se suo ordine era, e se volea ch’e’ Pisani sotto l’imperiale titolo
rompessono loro la pace, togliendo la franchigia a’ suoi cittadini.
L’imperadore udita la novella, gli dispiacque: e incontanente riscrisse
al nostro comune, che ciò non era fatto di suo volere nè di suo
sentimento, e che la sua volontà era ch’e’ Pisani mantenessero a’
Fiorentini la loro franchigia e buona e leale pace; e così riscrisse al
comune di Pisa per sue lettere, ma poco il curarono, e però poco valse.
E avuta la risposta dall’imperadore, più pertinacemente tennono fermo
quello ch’aveano incominciato, e necessità fu a’ mercatanti fiorentini
a cui era staggita la loro mercatanzia di pagare il dazio, e rompere
la franchigia, se rivollono la loro mercatanzia. Questo fu il primo
cominciamento del mese di giugno predetto; come le cose montarono poi
a grande sdegno, e poi a incitazione di grave turbazione di guerra,
appresso ne’ tempi come occorsono si potrà trovare, e massimamente nel
cominciamento dell’undecimo libro della nostra compilazione.

CAP. XLVIII.
_Come i Fiorentini deliberarono partirsi da Pisa e ire a Talamone._
Vedendo i Fiorentini la pertinacia de’ Pisani in non volersi rimuovere
dall’impresa, conoscendo manifestamente che venivano contro a’ patti
della pace con due maliziosi rispetti; il primo, che non sapeano
vedere, e non poteano pensare, che per quella lieve gravezza i
Fiorentini si dovessono sconciare della comodità ch’aveano del loro
porto per le proprie mercatanzie, e per quelle degli altri mercatanti
strani da cui aveano a comperare, trovandole in Pisa a una giornata
presso alla loro città, e trovando in Pisa da’ Pisani la civanza delle
scritte e della loro credenza; e perocchè partendosi di là la spesa
e lo sconcio era sformato, non voleano pensare ch’e’ Fiorentini non
s’acconciassono a consentire questo cominciamento: e quando ciò fosse
recato in pratica e in usanza, aveano intenzione di venire crescendo
il dazio a utilità del loro comune, e a servaggio di quello di
Firenze. L’altro peggiore pensiere si era, se per questo i Fiorentini
si movessono a guerra, lo stato di coloro che nuovamente reggeano,
il quale era debole per i molti buoni cittadini cui eglino aveano
abbattuti dello stato, si fortificherebbe per la guerra de’ Fiorentini,
e sarebbono seguitati e più ubbiditi dal loro popolo. I Fiorentini
conoscendo la loro malizia, non vollono però rompere la pace, ma
tennero più consigli, e trovarono i loro cittadini tutti acconci di
portare ogni gravezza, e ogni spesa e interesso che incorrere potesse
all’arti e alla mercatanzia, innanzi che volessono comportare un danaio
di dazio o di gabella da’ Pisani contro alla loro franchigia. E però
di presente ordinarono per riformagione penale, che catuno cittadino,
o contadino, o distrettuale di Firenze, infra certo tempo giusto dato
loro, catuno si venisse spacciando e ritraendo per modo, ch’al termine
dato catuno si potesse partire da Pisa senza suo danno: e sopra ciò
e sopra trovare modo d’avere porto altrove fu fatto un uficio di
dieci buoni cittadini, due grandi e otto popolani con grande balìa, e
chiamaronsi i dieci del mare; della quale provvisione seguirono gran
cose, come innanzi al suo tempo diviseremo.

CAP. XLIX.
_Come fu disfatta la città di Venafri in Terra di Lavoro._
Il re Luigi avendo lungamente avuto addosso la compagnia e certi de’
suoi baroni ribelli, non avea potuto resistere a’ ladroni, e per questo
erano in ogni parte multiplicati i malfattori, e i baroni si teneano
in loro fortezze, e davano più rifugio e favore a’ rei che a’ buoni;
e per tanto il paese era nella forza di chi male volea fare, per tale,
ch’uno conestabile tedesco, ch’avea nome Currado Codispillo, si rubellò
al re essendo al suo soldo, e con ottanta barbute e cento masnadieri
era entrato nella città di Venafri, e tormentava le strade e’ cammini
e tutto il paese d’intorno, cavalcando in prede e in ruberie infino
ad Aversa, e ritornavasi in Venafri; e per questo erano assediate le
strade e’ cammini, ch’e’ mercatanti non poteano andare nè mandare le
mercatanzie per lo Regno. Sapendo il re che la compagnia era per uscire
del Regno, fece di subito sua raunata, e in persona cavalcò a Venafri,
e sopraggiunti li sprovveduti ladroni, combattè la terra ch’avea
poca difesa, e vinsela, e’ forestieri si fuggirono per la montagna, e
salvaronsi. Il re nel caldo del suo furore, non pensando che la città
era sua e antica nel Regno, la fece ardere e disfare, perchè più non
potesse essere ridotto di ladroni suoi ribelli, e del detto mese si
ritornò a Napoli, cominciando a essere più ubbidito e temuto che non
era prima.

CAP. L.
_Come l’oste del re d’Ungheria cominciò a venire a Trevigi._
Avendo contato poco addietro il movimento del re d’Ungheria, seguita,
che a dì 28 del mese di giugno del detto anno, messer Currado Lupo,
il conte d’Aquilizia, Ilbano di Bossina con quattromila cavalieri
tedeschi, friolani e ungari vennono sopra la città di Trevigi, la quale
era a quel tempo sotto la guardia e libera signoria de’ Veneziani; i
quali avendo poco dinanzi avuta per li loro ambasciadori tornati dal
detto re risposta della sua intenzione, aveano presa temenza ch’e’ non
venisse sopra loro a Trevigi, e però in fretta intesono a fornire la
città di gente d’arme a cavallo e a piè per la difesa, e d’altre cose
necessarie, ma tanto giunsono tosto i nemici, che a compimento non lo
poterono fare; nondimeno per levare il ridotto a’ loro avversari arsono
le villate d’intorno, e i borghi del castello di Mestri. Giunto messer
Currado Lupo incontenente colle sue masnade tedesche corse il paese, e
cavalcò infino a Marghera presso di Vinegia a tre miglia di mare in sul
canale ch’andava a Trevigi, nel quale trovarono più barche cariche di
vittuaglia e d’arme ch’andavano a Trevigi, le quali prese, e gli uomini
fece impiccare, e la roba conducere al campo. Costoro cominciarono a
porre l’assedio alla città, e il re era rimaso addietro a Sigille con
più di quaranta migliaia d’Ungari a cavallo, per venire appresso al
detto assedio.

CAP. LI.
_De’ parlamenti che per questo si feciono in Lombardia._
Nell’avvenimento della gente del re d’Ungheria a Trevigi, da capo
presono sospetto tutti i signori lombardi, e quelli di Milano andarono
in persona a messer Cane Grande, e con lui s’accozzarono al lago di
Garda a un suo castello, e ivi fermarono tra loro lega e compagnia.
E alla città di Bologna si ragunarono tutti gli altri collegati
contro al signore di Milano, e da capo rifermarono loro lega, e di
comune concordia catuna gente per sè mandò da capo ambasciadori al re
d’Ungheria, a volere sapere se egli intendea con tanto grande esercito
quant’egli avea seco fare altra novità in Italia che contro alla città
di Trevigi; e saputo da lui che non venia per altro che per procacciare
le sue terre dal comune di Vinegia, rimasono per contenti. E Ilbano
di Bossina e messer Currado Lupo andarono al signore di Padova che
vicinava col Trivigiano, e da parte del loro signore gli offersono
amistà e buona pace e sicurtà del suo paese, pregandolo ch’allargasse
la sua mano di dare all’oste del re vittuaglia per li loro danari, la
qual cosa fu promessa con certo ordine a’ detti baroni. E tutte queste
cose furono mosse e fatte in pochi dì, all’entrare del mese di luglio
del detto anno.

CAP. LII.
_Come il re d’Ungheria ebbe Colligrano._
Colligrano è un grande e forte castello in Trevigiana presso a
Trevigi a sedici miglia, e in sul passo del Frioli. Questo castello
aveano ben fornito i Veneziani di gente d’arme per impedire il passo
al re. In questi dì il re venia con grande esercito verso Trevigi,
e giunto a Colligrano, vedendolo forte e in sul passo, quanto che
potesse ben passare per forza della sua cavalleria, non lo si volle
lasciare addietro, e però mise in ordine gli Ungheri, ch’erano più
di quarantamila per fare combattere la terra, con intenzione di non
partirsene ch’e’ l’arebbe. I terrazzani vedendo la moltitudine che
copriva la terra intorno intorno parecchie miglia, tutti con gli archi
e colle saette, temendo il pericolo della battaglia, s’arrenderono
alla persona del re innanzi che battaglia si cominciasse. Ed egli
in persona, senza lasciare fare loro alcuno male, v’entrò dentro con
quella gente ch’e’ volle, a dì 12 di luglio del detto anno, e prese la
signoria in nome dell’imperadore, e fornitolo di suoi cavalieri e d’uno
confidente capitano, si mise innanzi col suo esercito in verso la città
di Trevigi.

CAP. LIII.
_Come il re d’Ungheria venne a oste a Trevigi._
Essendo il detto re in cammino, prese un’altro castello che si chiama
Asille, e altre tenute d’intorno senza arrestarsi ad esse, ed ebbele
a’ suoi comandamenti. E cavalcando innanzi, a dì 14 del detto mese
giunse nel campo a Trevigi con più di quarantamila Ungheri e Schiavi
a cavallo, oltre a quelli che prima erano venuti co’ suoi baroni. E
con questo grande esercito prese tutto il paese intorno a Trevigi, e
assediò la città e più altre castella in Trevigiana ivi d’intorno; e ’l
suo proponimento era di non partirsi dall’assedio ch’egli avrebbe la
città al suo comandamento. Ma le cose alcuna volta non succedono alla
volontà umana, e però con tutta la smisurata potenza non potè adempiere
suo proponimento, come leggendo appresso dimostreremo.

CAP. LIV.
_Come si reggeano gli Ungheri in oste._
E’ pare cosa maravigliosa agl’Italiani ne’ nostri dì, a udire la
moltitudine de’ cavalieri che seguitano il re d’Ungheria quando cavalca
in arme contro i suoi nemici. E però, avvegnachè gli antichi fossono di
queste cose più sperti, per lo lungo trapassamento di quella memoria
qui ne rinnoveremo alcuna cosa, per levare l’ammirazione de’ moderni.
Gli Ungheri sono grandissimi popoli, e quasi tutti si reggono sotto
baronaggi, e le baronie d’Ungheria non sono per successione nè a vita,
ma tutte si danno e tolgono a volontà del signore: e hanno per loro
antica consuetudine ordinate quantità di cavalieri, de’ quali catuno
barone, e catuno comune hanno a servire il loro re quando va o manda
in fatti d’arme, sicchè il numero e ’l tempo del servigio catuno sa
che l’ha a fare. E perocchè alla richiesta del signore subitamente
senza soggiorno o intervallo conviene che sieno mossi, per questo quel
comune e quello barone ha diputato quelli che a quel servigio debbino
continovo stare apparecchiati di doppi cavalli, e chi di più, e di loro
leggieri armi da offendere, cioè l’arco colle frecce ne’ loro turcassi,
e una spada lunga a difensione di loro persone. Portano generalmente
farsetti di cordovano, i quali continovano per loro vestimenta, e
com’è bene unto, v’aggiungono il nuovo, e poi l’altro, e appresso
l’altro, e per questo modo gli fanno forti e assai difendevoli. La
testa di rado armano, per non perdere la destrezza del reggere l’arco,
ov’è tutta la loro speranza. Gli Ungheri hanno le gregge de’ cavalli
grandissime, e sono non grandi, e co’ loro cavalli arano e governano
il lavorio della terra, e tutte loro some sono carrette, e tutti gli
nudriscono a stare stretti insieme, e legati per l’uno de’ piedi,
sicchè in catuna parte con uno cavigliuolo fitto in terra li possono
tenere, e il loro nudrimento è l’erba, fieno e strame con poca biada;
massimamente quando usano d’andare verso levante, e valicare i lunghi
diserti. E andando verso que’ paesi, usano selle lunghe a modo di
barde, congiunte con usolieri; e quando sono in que’ cammini disabitati
e ne’ loro eserciti, l’uomo e ’l cavallo in sul campo a scoperto cielo
fanno un letto senz’altra tenda, e in tempo sereno aprono le bande
delle loro selle a modo di barda, e fannosene materasse, e sopr’esse
dormono la notte; e se ’l tempo è di piova, che di rado avviene, o
dell’una parte o d’amendue si fanno coperta, e’ loro cavalli usi a ciò
non si curano di stare al sereno e alla piova, e non hanno danno in
que’ paesi che di rado vi piove; altrove non è così, ma pure comportano
meglio i disagi; e molti ne castrano, che si mantengono meglio, e
sono più mansueti. Di loro vivanda con lieve incarico sono ne’ diserti
ben forniti, e la cagione di ciò e la loro provvisione è questa; che
in Ungheria cresce grande moltitudine di buoi e di vacche, i quali
non lavorano la terra, e avendo larga pastura, crescono e ingrassano
tosto, i quali elli uccidono per avere il cuoio, e ’l grasso che
fanno ne fanno grande mercatanzia, e la carne fanno cuocere in grandi
caldaie; e com’ell’è ben cotta e salata la fanno dividere dall’ossa,
e appresso la fanno seccare ne’ forni o in altro modo, e secca, la
fanno polverezzare e recare in sottile polvere, e così la serbano; e
quando vanno pe’ deserti con grande esercito, ove non trovano alcuna
cosa da vivere, portano paiuoli e altri vasi di rame, e catuno per
sè porta uno sacchetto di questa polvere per provvisione di guerra, e
oltre a ciò il signore ne fa portare in sulle carrette gran quantità;
e quando s’abbattono alle fiumane o altre acque, quivi s’arrestano,
e pieni i loro vaselli d’acqua la fanno bollire, e bollita, vi
mettono suso di questa polvere secondo la quantità de’ compagni che
s’accostano insieme; la polvere ricresce e gonfia, e d’una menata o di
due si fa pieno il vaso a modo di farinata, e dà sustanza grande da
nutricare, e rende gli uomini forti con poco pane, o per se medesima
senza pane. E però non è maraviglia perchè gran moltitudine stieno
e passino lungamente per li diserti senza trovare foraggio, che i
cavalli si nutricano coll’erbe e col fieno, e gli uomini con questa
carne martoriata. Ma ne’ nostri paesi, ove trovano il pane e ’l vino
e la carne fresca, infastidiscono il loro cibo, il quale per dolce
usano ne’ deserti; e però mutano costume, e non saprebbono vivere di
quell’impastata vivanda, e però non potrebbono in tanto numero ne’
nostri paesi durare, che le città e le castella sono forti, e i campi
stretti e le genti provvedute; e però avviene, che quanti più in numero
di qua ne passano, più tosto per necessità di vita si confondono. La
loro guerra non è in potere mantenere campo, ma di correre e fuggire e
cacciare, saettando le loro saette, e di rivolgersi e di ritornare alla
battaglia. E molto sono atti e destri a fare preda e lunghe cavalcate,
e molto magagnano colle saette gli altrui cavalli e le genti a piede, e
per tanto sono utili ove sia chi possa tenere campo, perocchè di fare
guerra in corso e tribolare i nemici d’assalto sono maestri, e non
si curano di morire, e però si mettono a ogni gran pericolo. E quando
le battaglie si commettono, sempre gli Ungheri si tengono per loro, e
combattono, partendosi a dieci o quindici insieme, chi a destra e chi a
sinistra, e corrono a fedire dalla lunga con le loro saette, e appresso
in su’ loro correnti cavalli si fuggono, e solieno andare senza insegna
o alcuna bandiera, e senza stromento da battaglia, e a certa percossa
di loro turcassi s’accoglievano insieme. Abbianne forse oltre al
dovere stesa nostra materia, ma perchè in questo nostro tempo si sono
cominciati a stendere nelle italiane guerre, non è male a sapere loro
condizione.

CAP. LV.
_Come l’oste si mantenea a Trevigi._
Stando il re d’Ungheria all’assedio di Trevigi, venne a lui messer Gran
Cane della Scala con cinquecento barbute di fiorita gente d’arme, e
ricevuto dal re graziosamente stette a parlamentare con lui in segreto,
e tornossi a Verona, lasciati al servigio del re que’ cavalieri che
menati avea con seco, avvegnachè il re, avendo troppa gente della sua,
non gli arebbe voluti, ma per cortesia gli ritenne. Messer Bernabò di
Milano gli mandò cinquecento balestrieri, i quali gli furono assai
a grado; e incontanente il re fece strignere l’oste intorno alla
città, e rizzarvi da diverse parti da diciotto difici, e cominciava
a volere fare cave per abbattere le mura, ma di quello quelli della
città poco si torneano, perocch’ell’è posta in piano, ed è quel piano
sì abbondante d’acqua viva, che non si può cavare braccia due in
profondo, che da catuna parte l’acqua surge abbondante e bella. Quelli
che dentro v’erano alla guardia della città per i Veneziani, vedendo
l’oste strignersi alle mura della città, francamente si mostrarono
apparecchiati alla difesa, e contro a’ trabocchi aveano fatti terrati
e altri utili ripari. Il re e ’l suo consiglio avendo provveduto la
terra intorno, conobbono che non era cosa possibile a volerla vincere
per battaglia, avendo difensori come la sentivano fornita, perocchè le
mura erano forti e alte, e molto bene provvedute e armate, e i fossi
larghi e pieni d’acqua viva. E per tanto non era da potere sperare
vittoria, se non per lungo assedio, e a questo si disponea la volontà
reale, ma la moltitudine de’ suoi Ungheri bestiali e baldanzosi
generava confusione, che non si poteano reggere nè tenere ordine; e
però avvenne, non ostante che il re col signore di Padova avesse pace e
concordia (per la quale mandava ogni dì grande quantità di pane cotto
all’oste in molte carra, e quattro carrette di vino per mantenere in
dovizia l’oste, senza quella vittuaglia che le singulari persone del
suo contado vi portavano) e in patto era che il suo contado e distretto
dovea essere salvo e sicuro da tutto l’esercito del re, che non ostante
le dette promesse gli Ungheri cavalcavano di loro movimento in sul
Padovano, uccidendo ardendo e rubando, e facendo preda come sopra i
nemici; onde il signore si turbò, e non mandò più nel campo l’ordinata
vittuaglia, e’ paesani per non essere rubati si rimasono di portarvene,
per la qual cosa il grande esercito cominciò a sentire difetto, e
sformata carestia delle cose da vivere oltre all’usato modo. Lasceremo
alquanto questa materia, per dare all’altre cose che occorsono alla
fine di questo assedio il loro debito.

CAP. LVI.
_Come la gran compagnia passò nella Marca._
All’uscita del mese di luglio del detto anno, il conte di Lando colla
sua compagnia uscì del Regno per la via della marina di san Fabiano.
La forza del legato ch’era in sul Tronto non si potè tanto stendere
che la compagnia inverso la marina non valicasse il fiume, e valicati
senza contasto, si dirizzarono verso Fermo, e tra la città d’Ascoli e
di Fermo posono loro campo; nel quale si trovarono duemilacinquecento
barbute ben montati e bene in arme, e gran quantità di cavallari e di
saccomanni in ronzini e in somieri, e mille masnadieri, e barattieri,
e femmine di mondo, e bordaglia da carogna bene più di seimila.
Essendosi accampati, sentirono come il legato era forte di gente d’arme
e apparecchiato a tenerli stretti dalle gualdane, e però cercarono
accordo con lui, e vennero a’ patti, che promisono in dodici dì essere
fuori della Marca d’Ancona, senza fare prede o danno al paese, e che
prenderebbono derrata per danaio, e’ paesani doveano apparecchiare la
vittuaglia al loro trapasso. Seguirono i patti, ma non del termine, e
dovunque tenevano campo non poteano fare senza grave danno de’ paesani;
e a dì 10 del mese d’agosto furono passati in Romagna.

CAP. LVII.
_De’ fatti dell’isola di Cicilia._
In questi tempi nell’isola di Cicilia avvenne, che essendo morto
Lodovico che si faceva dire re, e un suo fratello, ch’erano in guardia
della setta de’ Catalani, l’altra parte della setta degl’Italiani,
ond’erano capo i conti della casa di Chiaramonte, i quali s’erano
accostati col re Luigi di Puglia, presono più ardire, e’ Catalani e’
loro seguaci n’abbassarono; e per questo avvenne, che messer Niccola
di Cesaro con alquanti grandi cittadini di Messina i quali erano
stati cacciati di Messina vi ritornarono; e questo messer Niccola
essendo cacciato della terra, s’era ridotto di volontà del re Luigi
nel castello di Melazzo, e fatto capitano de’ cavalieri del detto re
Luigi per guardare il castello e guerreggiare i Messinesi. Costui
ritornato in Messina co’ suoi consorti e con altri di suo seguito,
molto segretamente si cominciò a intendere co’ caporali di Chiaramonte,
e all’entrata di luglio del detto anno, provveduto a’ suoi segreti,
fece muovere certi di sua setta, i quali cominciarono mischia con
quelli cittadini ch’erano avversari di messer Niccola, e che l’aveano
tenuto fuori di Messina. Essendo per questa novità la terra a romore,
come ordinato era, messer Niccola ebbe di subito da Melazzo dugento
cavalieri che v’erano del re Luigi e quattrocento fanti, i quali mise
nella città, e con loro e con suo seguito di cittadini corse la terra,
e caccionne fuori diciannove famiglie de’ suoi avversari, e tutti
gli fece rubare, e fecesene signore, non per titolo, ma come maggiore
governava il reggimento di quella. E così in tutte le parti dell’isola
erano dissensioni e brighe per le maladette sette, ma l’una calava e
l’altra montava con continove uccisioni e guastamento del paese; e già
per terre che ’l re Luigi v’avesse o per sua forza di gente, che ve ne
manteneva poca per povertà di moneta, lievemente montava al fatto. La
divisione de’ paesani mutava la loro fortuna, come seguendo nel loro
tempo si potrà vedere.

CAP. LVIII.
_Come il conte di Lancastro cavalcò fino a Parigi._
Del mese di luglio del detto anno, il conte di Lancastro con
due fratelli del redi Navarra, con quattromila cavalieri e molti
arcieri inghilesi, per fare maggiore onta al re di Francia, sentendo
s’apparecchiava di molta baronia, si misono a cammino, scorrendo i
paesi inverso la città di Parigi, facendo col fuoco gran danno alle
villate di fuori e predando in ogni parte, e misonsi tanto innanzi,
che a una giornata s’appressarono a Parigi. Sentendo che ’l re
s’apparecchiava di venire contro a loro con diecimila cavalieri e
grande popolo, diedono la volta girando il paese, e facendo continovi
danni e gravi si ridussono in Normandia a un castello che si chiamava
Bertoglio, innanzi al quale fermarono loro campo per difenderlo,
avvisando che ’l re di Francia il dovesse fare assediare, perocchè
tribolava col ricetto degl’Inghilesi tutta Normandia.

CAP. LIX.
_Come il re di Francia andò in Normandia._
Il re di Francia infocato di sdegno più contro a messer Filippo di
Navarra che gli era venuto addosso, che contro al duca di Lancastro,
sentendo che s’era ridotto nel Castello di Bertoglio sotto la guardia
degl’Inghilesi, di presente in persona si mosse da Parigi con quella
cavalleria ch’avea accolta, lasciando d’essere seguito dagli altri,
e dirizzossi in Normandia verso Bertoglio; e trovandosi con più di
diecimila cavalieri, e con grande moltitudine di sergenti, si mise
a campo presso a’ suoi nemici, a intenzione di combattere con loro.
Il conte di Lancastro avvisato guerriere, sentendosi il re appresso
con molto maggior forza che la sua, ebbe un suo avvisato scudiere e
ben parlante, il quale mandò al re di Francia, e fecelo richiedere di
battaglia. Il re allegramente ricevette il gaggio della battaglia,
facendo allo scudiere larghi doni; il quale volendo dimostrare
ch’avesse amore al re, in sul partire gli disse, che la venuta del
conte alla battaglia sarebbe innanzi dì, dicendogli, che per tempo si
dovesse apparecchiare. Il re mucciando gli disse, che di ciò non si
curava; venisse quando volesse, pure che venisse alla battaglia; ma le
parole dello scudiere furono molto piene di malizia, perocchè sapendo
che ’l conte la notte si dovea partire, disse questo acciocch’e’
Franceschi sentendo il movimento credessono che ciò fosse apparecchio
di battaglia e non di fuga, e così avvenne, che ’l conte di Lancastro,
e messer Filippo di Navarra in quella notte, facendo fare gran vista
nel campo e gran romore, chetamente si ricolsono, e partirono colla
loro gente. Il re la mattina scoperto il baratto degl’Inghilesi si
mise a oste al castello con proponimento di lasciare gli altri assalti
degl’Inghilesi, e attendere a racquistare le terre che rubellate gli
erano in Normandia. In questo tempo il duca di Guales faceva alle terre
del re di Francia grandi guerre in Guascogna, ma però il re non si
volle partire dall’assedio di Bertuglio infino a tanto che l’ebbe a’
suoi comandamenti, arrenduti al re salve le persone, e così fu fatto;
avendo il re vittoria d’avere cacciati con vergogna i nemici, e vinto
il castello.

CAP. LX.
_Come il papa e l’imperadore diedono titolo al re d’Ungheria._
In questi tempi mostravano il papa e’ cardinali grande affezione al
re d’Ungheria, o che fosse procaccio del detto re, che spesso avea in
corte suoi ambasciadori, o che motivo fosse della Chiesa per fargli
onore, a dì quattro del mese d’agosto del detto anno, il papa e i
cardinali di concordia in consistoro il pronunziarono e dichiararono
gonfaloniere di santa Chiesa contro agl’infedeli. In questo medesimo
tempo, essendo il detto re all’assedio di Trevigi, l’imperadore il fece
suo vicario nella guerra de’ Veneziani, ed egli levò nel campo la sua
insegna, e tutte le terre che per lui s’acquistavano riceveva in nome
dell’imperadore.

CAP. LXI.
_Come i Fiorentini s’accordarono di fare porto a Talamone._
Avemo narrato addietro, come il comune di Firenze per lo torto
ch’e’ Pisani faceano a’ suoi cittadini, d’avere levata loro la
franchigia contro a’ patti della pace, essendo venuto il termine che
i mercatanti s’erano partiti da Pisa, e ritrattone le mercatanzie e’
danari, del presente mese d’agosto del detto anno, avendo i dieci del
mare lungamente trattato col comune di Siena di volere far porto a
Talamone, recato l’acconciamento del porto e del ridotto in terra,
e della guardia, che da loro parte era a fare, e del dirizzamento
del cammino, e dell’albergherie, e appresso di quello che per dazio
e gabelle la mercatanzia de’ Fiorentini avesse a pagare, in piena
concordia, per riformagioni de’ consigli di catuno comune, si fermò
per dieci anni di fare i Fiorentini porto là e ridotto a Siena, e i
Sanesi di conservare i patti promessi. È vero, che tra gli altri patti
era promesso di sbandire le strade da Siena a Pisa per divieto d’ogni
mercatanzia, ma questo non osservarono i Sanesi, anzi correa il cammino
dall’una città all’altra in grande acconcio de’ Pisani. Avvedendosene
i Fiorentini, se ne dolsono, ma ’l reggimento del comune di Siena non
se ne movea. Vedendo de’ cittadini che voleano s’attenesse la fede al
comune di Firenze, e che i loro rettori non lo faceano, ordinarono,
che certi sbanditi loro cittadini rompessono e rubassono la strada e
la mercatanzia, e forse fu d’assentimento de’ rettori per coprirsi
al comune di Pisa. Costoro feciono volentieri il servigio per modo
che ’l cammino al tutto per terra fu loro tolto. E i Pisani sopra gli
altri Toscani saputi e maliziosi, a questa volta si trovarono presi
nella loro malizia; perocchè incontanente che i Fiorentini presono
porto a Talamone e ridotto a Siena, tutti gli altri mercatanti d’ogni
parte abbandonarono il porto e la città di Pisa, e votarono la città
d’ogni mercatanzia, e le case dell’abitazioni, e ’l mestiere delle
loro mercerie, e gli alberghi de’ mercatanti e de’ viandanti, e’
cammini de’ vetturali, e ’l porto delle navi, per modo che in brieve
tempo s’avvidono, che la loro città era divenuta una terra solitaria
castellana; e nella città n’era contro a’ loro rettori grande repetio.
Allora s’accorsono senza suscitamento di guerra quanto guadagno tornava
al loro comune per avere rotta la pace e la franchigia a’ Fiorentini.
Allora cominciarono a cercare ogni via e modo, con ogni vantangio che
volessono i Fiorentini, di ritornarli a stare in Pisa; ma i Fiorentini,
sdegnati della fede rotta pe’ Pisani cotante volte al loro comune, non
poterono essere smossi del fermo proposito di fare col fatto conoscenti
i Pisani, che i Fiorentini poteano ben fare le mercatanzie per terra
e per mare senza loro, ed eglino male usare il porto, e’ mercatanti,
e la mercatanzia, e l’arti, e’ mestieri a utilità de’ loro cittadini,
e l’entrate del loro comune senza i Fiorentini. E perchè per indietro
non si potessono atare, si fece divieto in tutto il distretto di
Firenze d’ogni mercatanzia o roba ch’andasse o venisse verso Pisa,
senza rompere il cammino a’ viandanti. E di questo seguitarono appresso
maggiori cose per mare e per terra, come leggendo innanzi per li tempi
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