Cronica di Matteo Villani, vol. 3 - 13

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le terre per la nuova sementa.

CAP. XXX.
_Come il re Luigi trattò d’avere Messina in Cicilia._
Addietro avemo fatta memoria nel quarto libro, come messer Niccola di
Cesaro rientrò in Messina e caccionne i suoi nemici, e con assentimento
del re Luigi riprese Melazzo, e fecesene maggiore, ma non tanto
ch’avesse ardire di scoprirsi a’ Messinesi, se non si sentisse più
forte. E però s’accostò alla setta di que’ di Chiaramonte, e fece
tornare da Firenze a Messina certi cavalieri ch’erano stati cacciati
quando fu cacciato egli. E vedendo morto colui che dovea essere loro
re, si mise in trattato col gran siniscalco del re Luigi di dargli
Messina, e per questa cagione il re Luigi, e la reina Giovanna andarono
in Calavria, e stettono parecchi mesi a Reggio, innanzi che l’accordo
avesse il suo effetto. E facendo suo sforzo d’avere galee armate a
questo servigio, con gran fatica ve n’erano sette, e alquanti legni
armati in questo tempo. Lasceremo al presente questa materia tanto
che venga a perfezione, e seguiremo quello che prima ci occorre a
raccontare.

CAP. XXXI.
_Come si trattò pace fra il conte di Fiandra e i Brabanzoni._
I Brabanzoni vedendosi sottoposti al conte di Fiandra e a’ Fiamminghi,
cosa molto strana al loro costume, non potendo più sostenere il giogo,
e non volendosi rimettere in guerra, che n’erano mal capitati e mal
destri, per savio avvisamento presono consiglio tutte le comuni di
Brabante, fuori che la villa di Mellina ch’appartenea al conte, che la
duchessa, ch’era cognata carnale del conte, tornasse in Brabante: e
fattala venire, la ricevettono in Loano, affinchè tra lei e ’l conte
si trovasse accordo. E per questa cagione, niuna vista o sentimento
mostrarono di pigliare arme: e ’l conte, sentendo tornata la cognata
in Brabante, non ne prese turbazione come avrebbe fatto del duca. E di
presente che la duchessa fu in Brabante, si levarono baroni e amici di
catuna parte, a trattare tra loro concordia per riposo de’ Fiamminghi
e Brabanzoni. Per lo quale trattato, avvegnachè durasse lungamente,
in fine, come trovare si potrà appresso nel suo tempo, vennero a final
pace e concordia; ma questo principio fu del mese d’ottobre del detto
anno.

CAP. XXXII.
_Come i Fiorentini si partirono da Pisa, e andarono a Siena con le
mercatanzie._
Seguita, per non lasciare in silenzio lo sdegno preso pe’ Fiorentini
contro a’ Pisani, i quali, come narrato è addietro, aveano loro rotta
la pace, togliendo a’ Fiorentini la franchigia, della quale appresso
seguitò grande materia di guerra, come leggendo per li tempi si potrà
trovare. I Fiorentini avendo ritratta la loro mercatanzia e’ danari,
in calen di novembre anno detto, tutti i cittadini e distrettuali di
Firenze furono partiti di Pisa; e come questo fu fatto, e le strade
sbandite per divieto fatto a tutte le mercatanzie, arnese e roba, i
Genovesi, e’ Provenzali, e’ Catalani, e tutti altri mercatanti se ne
partirono, e rimase la città di Pisa ne’ luoghi della mercatanzia
solitaria; e allora si cominciarono a avvedere i Pisani che non
aveano fatta buona impresa, e grande repetio ebbe nella città de’
loro maggiori nel reggimento, che dato avea a intendere, che per
gravezze ch’e’ facessono a’ Fiorentini non se ne partirebbono, tant’era
l’agiamento del porto, e la comodità del cammino e dell’altre cose,
e’ non pensavano che lo sdegno dell’ingiuria ponderasse contro alla
loro comodità. La cosa andò tutto per altro modo. I Fiorentini presono
porto a Talamone, e pertinacemente si disposono a volere vedere se fare
potessono la mercatanzia senza i Pisani. Per questo i Pisani ch’erano
amici di Simone Boccanegra doge di Genova, si misono a fare lega con
lui, e armare galee, per impedire che la mercatanzia non ponesse a
Talamone. Onde seguitarono non piccole e disusate novità, come leggendo
innanzi a loro tempo si potrà trovare.

CAP. XXXIII.
_Come il capitano di Forlì si provvide._
Essendo la compagnia valicata in Lombardia, il legato intendea a
riprendere la guerra contro al capitano di Forlì il signore di Faenza,
e apparecchiavasi d’assediare la città di Forlì. Il capitano ch’era
coraggioso e avvisato, innanzi che l’assedio gli venisse addosso,
ebbe trecento suoi cavalieri e cinquecento masnadieri, e di subito e
improvviso a’ Malatesti cavalcò con questa gente a Rimini, e accolse
una grande preda d’uomini, e d’arnesi, e di bestiame, e data la
volta, senza contasto con tutta la preda si tornò in Forlì; e fatto
questo, fece ardere e disfare tutti i casali e terre da non potersi
bene difendere, e intese a votare la terra di tutta la gente disutile
alla guerra, e a fornirsi copiosamente di vittuaglia, acciocchè più
lungamente potesse fare sua difesa contro al legato, ch’era per farlo
assediare, come appresso avvenne, ma più tardi ch’e’ non s’avvisava.

CAP. XXXIV.
_Come Faenza s’arrendè al legato, e’ patti._
Messer Giovanni di messer Ricciardo de’ Manfredi signore di Faenza,
conoscendo la sua forza debole a resistere a santa Chiesa, si mise
a trattare accordo col legato, mediante gli ambasciadori del re
d’Ungheria, che a stanza di messer Giovanni se ne travagliavano, e in
fine del mese di Novembre anno detto, a dì 10, vennero a questi patti:
che al legato si dovesse rendere liberamente la signoria di Faenza, e
delle castella e del contado, e messer Giovanni dovesse avere tutto suo
patrimonio salvo, e la terra di Bagnacavallo. E per attenere i patti
diede due suoi figliuoli stadichi, e mandolli co’ detti ambasciadori
alla guardia del signore di Padova. E appresso, del mese di dicembre
vegnente, il legato attesi d’ogni parte i patti, fece prendere la
tenuta della città di Faenza e di tutte le castella. E innanzi che
la terra si desse al legato, il tiranno fece a’ cittadini gravi
oppressioni, e tolse loro molti danari, e di quelli cui egli odiava
per sospetto fece uccidere. E a questo modo prese fine la tirannia di
messer Giovanni sopraddetto, la quale per lo suo principio fu cagione,
come addietro avemo contato, di molti mali avvenuti in Italia.

CAP. XXXV.
_Che fece la gente della lega de’ Lombardi in questo tempo._
Tornando a’ fatti di Lombardia, essendo stato lungamente il vicario
dell’imperadore colla gente della lega e della compagnia a oste in
sul contado di Milano senza avere trovato contasto, si ridussono a
una villa chiamata Margotto in sul Tesino, e ivi si rassegnarono
tremilacinquecento cavalieri bene armati e bene a cavallo, senza
l’altra cavalleria da saccomanno, e seimila masnadieri: costoro
prendeano molta fidanza, non temendo ch’e’ soldati tedeschi e
borgognoni venissono contro a loro. Il marchese di Monferrato trasse
dell’oste cinquecento cavalieri per un trattato ch’egli avea tenuto
della città di Novara, e a dì 9 di novembre anno detto entrò nella
terra, e presela, e assediò il castello, ch’era grande e forte e
bene fornito di gente alla difesa, e di molta vittuaglia da potere
lungamente attendere il soccorso, e francamente manteneano la difesa.

CAP. XXXVI.
_Della materia medesima._
Avvenne, che presa Novara per lo marchese prosperamente, avendo egli e
messer Azzo da Correggio un altro trattato in Vercelli, si sforzarono
d’avacciare la cavalcata, e per tema di riparo che pensavano vi si
metterebbe per esempio di Novara; e per questo messer Azzo trasse
dell’oste anche settecento barbute di buona gente, e andando per
entrare in Vercelli, a dì 11 di novembre detto, quelli che v’erano
dentro per lo signore di Milano avendo udita la novità di Novara
ripararono alla guardia di Vercelli, sicchè la cavalcata fu invano.
Nondimeno pensando il marchese e messer Azzo che da Milano non potesse
venire loro soccorso, vi si misono a oste, ove stettono più dì; e in
questo mezzo fortuna cambiò la faccia a coloro che troppo si fidavano,
come spesso avviene in fatti di guerra, che fa vinti i vincitori avere
a schifo il suo nemico.

CAP. XXXVII.
_Come l’oste della lega fu rotta dalla gente di Milano._
I signori di Milano che riceveano cotanto oltraggio per la malizia de’
loro soldati, non si ruppono da loro, ma carezzaronli in vista e in
opere, e massimamente certi conestabili più confidenti, e tanto seppono
fare, che una parte ne recarono a loro volontà; e nondimeno per tutte
loro città raccolsono arme de’ soldati de’ loro sudditi e degli altri
Italiani intorno di quattromila cavalieri, e altrettanti n’ebbono
de’ loro soldati; e questo fu fatto per modo, che poco avvisamento
n’ebbono i loro nemici. E sentendo tratti dell’oste del vicario
milledugento barbute per lo fatto di Novara e di Vercelli, subitamente
feciono capitano messer Loderigo de’ Visconti valente cavaliere, ma
di grande età. Costui uscì subito con bene seimila cavalieri e molto
gran popolo di Milano, e andatosene verso i nemici, ch’erano col loro
campo a Margotto in sul Tesino, puosesi a campo a dì 12 di novembre
predetto, presso a’ nemici a tre miglia, e mandò a richiedere il
vescovo di battaglia, la quale richiesta il vicario mostrò d’accettare
allegramente, e ’l termine fu per la domenica mattina vegnente, a dì
13 del mese. Ma vedendosi il vescovo sfornito il campo di milledugento
buoni cavalieri, si provvide la notte di fare valicare il Tesino a
tutta la sua oste, a fine di riducersi con essa presso a Pavia, per
avere il sussidio della città, che troppo gli parea avere grande
disavvantaggio. In questo movimento prigioni si fuggirono ch’avvisarono
messer Loderigo del fatto: il quale di subito la notte mandò messer
Vallerano Interminelli, figliuolo che fu di Castruccio, con trecento
cavalieri, e comandogli che si strignesse co’ nemici francamente,
sicch’egli impedisse la partita loro, tanto ch’e’ giugnesse colla sua
oste, della quale incontanente ordinò le battaglie, e seguitò appresso.
Messer Vallerano fece coraggiosamente il suo servigio, e innanzi
dì assalì il campo ora dall’una parte ora dall’altra, per li quali
assalti molto impedì il valico del Tesino alla gente del vicario. Ma
schiarito il giorno, per lo soperchio della gente del vicario fu preso
colla maggiore parte de’ suoi cavalieri. Nondimeno il carreggio del
campo, e la salmeria, e ’l popolo, e parte de’ cavalieri valicavano
continovamente, e di qua alla riscossa erano rimasi col vicario
dell’imperadore il conte di Lando capitano della compagnia, e messer
Dondaccio di Parma, e messer Ramondino Lupo, e quasi tutti i migliori
conestabili dell’oste con millecinquecento barbute e co’ sopraddetti
prigioni. E avendosi messa innanzi tutta l’altra oste, innanzi che
potessono conducersi al passo, messer Loderigo colla sua cavalleria,
tutti schierati e ordinati alla battaglia, fu loro addosso la mattina
al chiaro dì. I cavalieri del vicario, ch’erano uomini di gran virtù
in fatti d’arme, vedendosi allo stretto partito, tutti s’annodarono
insieme, e feciono testa, e ricevettono l’assalto de’ nemici
francamente, non lasciandosi di serrare, facendo d’arme gran cose
contro al soperchio ch’aveano addosso: e combattendo continovamente
per spazio di tre ore sostennero l’assalto d’ogni parte, danneggiando
molto i nemici loro. Infine la fatica e ’l soperchio della moltitudine
de’ loro avversari li ruppe. Allora molti, che temettono più la paura
che la vergogna, si misono alla fuga e camparono. In sul campo ne
rimasono presi seicento e più, tra’ quali fu il vescovo già detto,
vicario dell’imperadore, e ’l conte di Lando, e messer Ramondino Lupo,
e messer Dondaccio. È vero che ’l conte venne a mano de’ Tedeschi,
che ’l celarono e camparono, e due cavalieri tedeschi camparono messer
Dondaccio, e fuggironsi con lui, e fidaronsi alle sue promesse, e per
diversi cammini il condussono a Firenze, e poi in Lombardia. Tutta
l’altra oste, che avea valicato Tesino, sani e salvi si ricolsono in
Pavia con tutto il carreaggio e l’altro arnese. E questa fu la fine
della nuova impresa del nuovo vicario dell’imperadore, ma non de’ fatti
della lega.

CAP. XXXVIII.
_Il consiglio prese il capitano di Forlì._
Veduto che Francesco degli Ordelaffi ebbe, che Faenza, e tutta l’altra
Romagna, e la Marca, e ’l Ducato era venuta all’ubbidienza di santa
Chiesa, e che al legato ch’avea gran potenza di danari e d’uomini
d’arme, non restava a fare altra guerra che contro a lui, ragunò a
consiglio tutti i buoni uomini di Forlì, e domandò consiglio da loro
di quello ch’avesse a fare. Costoro consigliati insieme, di concordia
feciono dire al capitano in quel consiglio, che la fede e l’amore
ch’e’ Forlivesi aveano sempre portato alla sua casa e a lui non era
in loro mancata; e come altre volte de’ loro propri beni nelle fortune
loro gli aveano atati e mantenuti, tanto ch’elli erano ritornati nella
signoria; così intendeano di fare quando il bisogno incorresse, di che
Iddio il guardasse. Nondimeno conoscendo al presente la gran forza
della Chiesa contro a lui solo, e niuno soccorso, consigliavano che
col legato si trattasse accordo il migliore che avere si potesse. E
di questo avverrebbe, ch’eglino suoi amici non perderebbono i loro
beni, e potrebbonlo sovvenire e atare. Quando egli ebbe udito il loro
consiglio, disse: Ora voglio che voi udiate la mia intenzione. Io
non intendo fare accordo colla Chiesa, se Forlì e l’altre terre ch’io
tengo non mi rimangono, e quelle intendo mantenere e difendere fino
alla morte. E prima Cesena, e le castella di fuori, e Forlimpopoli,
e appresso perdute quelle, le mura di Forlì, e perdute le mura,
difendere le vie e le piazze, all’ultimo questo mio palazzo, e in fine
l’ultima torre di quello, innanzi che per suo assentimento alcuna
n’abbandonasse; e però volea che tutti sapessono in palese la sua
intenzione, pregandoli con minacciamento di gravi minacce che catuno li
fosse fedele amico e leale: e di presente mandò la moglie e’ figliuoli
con buona compagnia di gente d’arme a cavallo e a piè, e raccomandolle
la guardia di Cesena; e fornì di vantaggio tutte le castella, e di
Forlì trasse da capo femmine e fanciulli, e gente disutile in tempo
d’assedio, e soldati mise nelle case e masserizie di certi cittadini
meno confidenti; e così disposto, intendea a difendersi dal legato.

CAP. XXXIX.
_Messer Niccola prese Messina per lo re Luigi._
Tornando nostra materia a’ fatti di Messina, essendo il re Luigi a
Reggio, messer Niccola di Cesaro avea procurato d’avere in sua guardia
il castello di Sansalvadore in sulla marina, e aggiuntosi i cavalieri
di sua setta, ch’avea fatti ritornare da Firenze, si provvide che non
era sicuro a fare sua impresa col re Luigi, s’e’ non avesse il castello
di Mattagrifone sopra Messina, che era fortissimo, e dava l’entrata e
l’uscita della città per la montagna; questo procacciò per ingegno,
che per forza non avea luogo. Il castellano non prendea guardia de’
suoi cittadini, e’ cavalieri tornati da Firenze erano amici, e per
modo d’andarlo a vicitare con alquanti loro famigli, furono con festa
ricevuti da lui; e tenendolo in novelle, com’era ordinato, messer
Niccola sopravvenne con altri suoi compagni, e non gli fu contradetta
l’entrata per mala provvisione del castellano; e trovandosi dentro
forte, cortesemente ne trasse il castellano, ch’era male provveduto
alla difesa. Fornito questo messer Niccola vi mise il castellano e le
guardie a suo modo; e avendo fermo il trattato col re Luigi, il re del
mese di novembre vi mandò messer Niccola Acciaiuoli da Firenze ch’avea
menato questo trattato, con sette galee e un legno armato cariche di
grano, e con lui cinquanta cavalieri e trecento masnadieri di Toscana;
e giunti a Messina, furono ricevuti da messer Niccola di Cesaro e da’
suoi seguaci a grande onore; e ’l popolo ch’avea necessità grande di
vittuaglia, sentendo le galee cariche di grano, fu molto contento, e
incontanente per sicurtà del re fu consegnato al gran siniscalco la
guardia di Sansalvadore, ch’è la forza del porto, e Mattagrifone, ch’è
la guardia della città; e fatto questo, e lasciato in catuno masnadieri
e balestrieri alla guardia, fu condotto il gran siniscalco e l’altra
sua gente d’arme all’abitazione del re, ove trovò due figliuole del
re Petro, le quali ritenute cortesemente mandò poi al re e alla reina
ch’erano a Reggio, e da loro furono ricevute graziosamente, come
appresso racconteremo, e la reina le ritenne con seco onorevolemente.
Qui si desti la memoria della reale eccellenza del re Ruberto: qui
s’agguagli la sua sollecitudine, la sua grande potenza, l’armata di
cento, e di centosessanta, e di dugento galee per volta, e di molte
armate colla forza grande de’ suoi baroni, e della sua cavalleria e
delle sue osti, per acquistare alcuna terra nell’isola di Cicilia non
che Messina, ch’è la corona dell’isola, e non potutolo fare, acciocchè
per esempio si raffreni l’impotente ambizione degli uomini, e non si
stimi alcuna cosa per forza avere fermezza, nè potere fuggire a tempo
le calamità innate nelle mortali e cadevoli cose del mondo.

CAP. XL.
_Come si ribellò Genova a que’ di Milano._
Seguitasi, che in questi dì i Genovesi, i quali di natura sono altieri,
vedendosi sì vilmente sottoposti a’ tiranni di Milano, e che vendicati
s’erano de’ Veneziani e de’ Catalani, per la cui fortuna s’erano
sottoposti al tirannesco giogo, avendo sentito che ’l marchese di
Monferrato avea rubellato a’ tiranni Asti in Piemonte, e che i signori
di Pavia s’erano accostati con lui, e ’l vicario dell’imperadore
era colla gente della lega e colla compagnia a oste in sul Milanese,
innanzi che sapessono della sconfitta del vicario, parendo loro avere
tempo da rubellarsi senza pericolo, a dì 15 di novembre anno detto, il
popolo si levò a romore, e prese l’arme, e corse la terra, gridando:
Viva libertà, e muoiano i tiranni; e corsi al palagio, dov’era il
vicario de’ signori, senza contasto furono messi dentro, e trassonne il
vicario e tutta sua famiglia, e tutte le masnade de’ soldati a cavallo
e a piè con lui misono fuori della città e del loro distretto, senza
fare loro villania o altro male. E incontanente mandarono a Pisa per
messer Simone Boccanegra, ch’era prima stato doge di Genova, il quale
essendo molto amico de’ Pisani, e avendo secondo l’opinione di molti
trattata questa rivoltura, coll’aiuto de’ cavalieri di Pisa e per loro
consiglio si mise per terra, e andò a Genova, e prese la signoria dal
popolo. E per questo modo fu libera la città di Genova dalla signoria
de’ Visconti di Milano, della qual cosa i signori di Milano rimasono
indegnati contro al comune di Pisa, aggiugnendo allo sdegno, ch’aveano
dato aiuto al vicario dell’imperadore quando andò contro a loro, e la
morte di messer Paffetta loro confidente amico; ma tutto comporta nel
tempo l’animo della parte.

CAP. XLI.
_Come fu disfatta la chiesa di santo Romolo._
Era la chiesa di santo Romolo in sulla piazza de’ priori, e impedia
molto la piazza; entrò un uficio al priorato ch’aveano poco a fare, e
però, come fu loro messo innanzi di rallargare e dirizzare la piazza,
preso di concordia tra loro il partito, subitamente la sera e la
notte feciono mettere in puntelli la chiesa e le case sue, e a dì 20
di novembre tutto feciono rovinare, e ivi presso volgendo le loggie
verso la piazza, ordinarono che si redificasse maggiore e più bella,
e ordinaronvi i danari, e fu fatto. Costoro, a dì 3 di dicembre del
detto anno, volendo fare una gran loggia per lo comune in sulla via di
Vacchereccia, non bene provveduti al beneficio del popolo, subitamente
feciono puntellare e tagliare da piè il nobile palagio e la torre della
guardia della moneta, dov’era la zecca del comune, ch’era dirimpetto
all’entrata del palagio de’ priori in sulla via di Vacchereccia, e
quella abbattuta, e fatta la stima delle case vicine fino al chiasso
de’ Baroncelli e de’ Raugi (biasimati dell’impresa, e che loggia si
convenia a tiranno e non a popolo) vi rimase la piazza de’ casolari, e
la moneta assai debole e vergognosa a cotanto comune. Questo medesimo
uficio comperò da’ Tornaquinci la grande e bella torre ch’aveano sul
canto di mercato vecchio e in sul corso del palio, la quale strignea
e impediva la via del corso; questa feciono abbattere e cadere in sul
mercato all’uscita del loro uficio; e fu molto a grado a’ cittadini, e
utile alla via e al mercato.

CAP. XLII.
_Quello fece messer Filippo di Taranto e di Vercelli._
Era in questi dì a corte di Roma a Avignone messer Filippo di
Taranto fratello carnale del re Luigi, il quale aspettava che ’l papa
dispensasse con lui e con la moglie che s’avea tolta, sirocchia della
reina Giovanna, quella che fu moglie del duca di Durazzo e appresso di
Ruberto del Balzo, ed era sua nipote, figliuola del fratello carnale;
e ’l papa, per l’irreverenza ch’ebbono al sagramento matrimoniale
di copularsi prima ch’avessono la dispensagione, tardava di farla,
e mostrava di non volerla fare: e in questo aspetto messer Filippo
sommosse certi baroni e cavalieri provenzali, e raunò quattrocento
barbute, e tenne segreta la sua cavalcata, avendo boce ch’andava in
aiuto a’ signori di Milano o al marchese; ma egli ch’avea suo trattato
cavalcò a Carasco in Piemonte, e ripresesi la terra, e lasciolla
in ordine di guardia, e se ne tornò a Avignone del detto mese di
novembre. In questo medesimo mese, non ostante la sconfitta del vicario
dell’imperadore, il marchese di Monferrato, e messer Azzo da Correggio,
e ’l conte di Lando, ch’era lasciato, accolsono tutto il rimanente
della loro gente, e que’ di Milano, avendo la vittoria, ne cassarono,
e assediarono di fuori il castello di Novara, e anche dalla parte della
città, e assediarono Vercelli, e tutto il verno mantennero gli assedi,
tanto che vinsono la punga del castello di Novara, come seguendo nostro
trattato al suo tempo diviseremo.

CAP. XLIII.
_Come si fuggì di Milano la donna che fu di messer Luchino col
figliuolo._
Di messer Luchino Visconti tiranno di Milano era rimaso uno figliuolo
nudrito per la madre, ch’era di quelli dal Fiesco di Genova. I tiranni
di Milano, per tema della signoria, l’aveano assottigliato delle
possessioni e del tesoro che ’l padre gli avea lasciato, e il giovane
crescea in aspetto d’essere valoroso e in amore de’ cittadini, e questo
gravava l’animo a’ signori per gelosia dal loro stato. La madre, ch’era
savia e accorta, temea forte che messer Bernabò e messer Galeazzo nol
facessono morire, i quali teneano lui e lei in guardia, ch’uscire non
poteano di Milano. La donna ordinò molto saviamente con danari e con
grandi promesse, con certi conestabili di cavalieri ch’aveano a fare
la guardia, che ’l dì ch’ella disse loro la donna fu provveduta, e
montata in su buoni cavalli, e con parte di loro tesoro furono tratti
di Milano, e avviati con cavalieri in verso Pavia. La cosa fu tosto
manifestata a’ signori; i quali li feciono perseguitare insino presso
a Pavia, e arebbonli ritenuti, se non che gente uscì di Pavia, e
ricevettonli, e tutti condussonli sani e salvi nella città di Pavia.

CAP. XLIV.
_Come il Re Luigi e la reina andarono a Messina._
Dappoichè per la gente del re Luigi fu presa la tenuta delle fortezze
della città di Messina e del porto, i cittadini ordinarono di comune
consiglio di mandare per lo re e per la reina a Reggio, acciocchè
venissono in Messina a ricevere il saramento e la reverenza come loro
signori; ed elessono undici cittadini i maggiori per ambasciadori,
i quali tutti si vestirono di scarlatto foderato di vaio, e con le
due figliuole di don Petro valicarono a Reggio, del mese di dicembre
anno detto; e giunti là, e fatta la reverenza al re e alla reina,
furono da loro ricevuti con grande allegrezza e festa; e sposta la
loro ambasciata, e pregato il re e la reina che dovessono andare a
Messina, incontanente mandarono a far tornare le loro galee: e ricevute
le damigelle a grande onore, la reina l’ordinò di sua compagnia,
trattandole caritatevolmente in tutte le cose; e venute le galee, il re
e la reina e le damigelle vi montarono suso con tutti gli ambasciadori,
e valicarono a Messina, a dì 24 di dicembre la vigilia di Natale,
ove furono ricevuti con grande solennità di festa, fatta per tutti i
cittadini, e collocati nelle case reali: e fatta la solenne festa del
Natale, ricevettono il saramento e l’omaggio da tutti i cittadini, e
a richiesta de’ cittadini promise il re di risedere colla corte di là,
cosa che poi non attenne.

CAP. XLV.
_Come fu murato il borgo di Fegghine._
Ricordandosi i cittadini di Firenze, come in tutte le gravi guerre
ch’al loro comune erano sopravvenute, il borgo di Fegghine ricevea
le percosse, e veggendo quanto il porto di quel luogo era utile al
fornimento della città, per la grande abbondanza della vittuaglia
che a quello mercato continovamente venia, diliberarono che ’l borgo
si murasse di grosse mura e di buone torri, e facessevisi una grossa
terra alle spese del comune con l’aiuto delle circustanti vicinanze;
e dato l’ordine del mese di dicembre del detto anno, e chiamati gli
uficiali del mese di gennaio, cominciarono a fare i fossi e le porte
principali, e appresso a fondare le mura e le torri. Penossi a compiere
questa terra lungamente, ma fornita fu d’essere circundata di mura da
difesa l’anno 1363, e compiuta e perfetta del mese di.....: Furono le
mura in fondamento grosse braccia .... e sopra terra grosse braccia
... e alte con merli braccia ... con un corridoio dentro in beccatelli
largo braccia ... e con torri alte braccia .... senza le porte, catuna
alta sopra le mura braccia ... E con due porte maestre, l’una verso
Firenze chiamata porta fiorentina, e l’altra verso castello Sangiovanni
chiamata porta aretina, catuna Con gran torri, alte sopra le mura
braccia ... la faccia delle mura di verso Firenze è per lunghezza
braccia ... e diverso l’Arno è braccia ... e quella verso castello
Sangiovanni è braccia ... e quella di verso il poggio è braccia ...
E così in tutto girano le mura di quella terra braccia ... E innanzi
che la terra fosse murata, fu ripiena di molte case nuove edificate
da’ cittadini di Firenze, e da’ paesani d’intorno. Costò al comune
di Firenze fiorini .... e a’ terrazzani e circustanti fiorini....
E in questo medesimo tempo ne fece porre il comune una di nuovo al
Pontassieve di costa ove si dice Filicaia, la quale è più per ridotto
d’una guerra, che per abitazione o per mercato che vi si potesse
allignare.

CAP. XLVI.
_D’un parlamento fece l’imperadore in Alamagna._
L’imperadore Carlo convocati i prelati e’ baroni d’Alamagna alla festa
della natività di Cristo a Mezza nello Reno, vi si trovò con bene
ventimila cavalieri, e in abito della maestà imperiale fu servito
a mensa dal duca di Brandimborgo, e dagli altri baroni ordinati per
consuetudine a quel servigio. E a quella festa vennero ambasciadori
del re d’Inghilterra, e due figliuoli del re di Francia per trattare
pace intra ’l re di Francia e ’l re d’Inghilterra, ma gli Alamanni
poco vi seppono trovare modo, ma trattovvisi la concordia, che poi ebbe
compimento, tra ’l conte di Fiandra e ’l duca di Brabante per l’opera
di Mellina. In quella festa fu molto ubbidito e reverito l’imperadore
da’ prencipi d’Alamagna, e con tutti si mostrò in buona pace. In
questi medesimi dì, a dì 23 di dicembre, papa Innocenzio sesto fece
più cardinali di suo movimento, fra’ quali fu il vescovo di Firenze,
ch’avea nome messer Andrea da Todi valente uomo, il cancelliere di
Parigi uomo di grande autorità, e il generale de’ frati minori e quello
de’ predicatori, che niuno l’avea procurato.

CAP. XLVII.
_Come il marchese di Monferrato ebbe il castello di Novara._
Il Marchese Francesco di Monferrato, come narrato abbiamo addietro,
avea assediato il castello di Novara, ma per via d’assedio o per forza
non si potea avere, ch’era inespugnabile e fornito per molti anni:
ma il valente marchese avea presi e facea guardare i passi del Tesino
per modo, che ’l soccorso più volte mandato pe’ signori di Milano più
volte ributtò addietro, e la rocca fece cavare; e avendo gli assediati
recati a partito, che le mura erano in puntelli nella maggiore parte,
e non attendeano altro che d’arrendersi o di mettervi entro il fuoco;
la gente de’ signori di Milano passò Tesino, per andare a soccorrere
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