Cronica di Matteo Villani, vol. 3 - 07

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ubbidì al consiglio del padre, e molto segretamente accolse gente, e di
furto entrò nel castello di Gressa, ma essendovi gli Ubertini forti,
per forza ne lo pinsono fuori; e forse per dolore che messer Pietro
n’ebbe s’avacciò la sua dispettosa e non contenta morte, lasciando
nuova guerra tra’ suoi Tarlati e gli Ubertini per questo furto. Pro’ e
valente uomo fu e avvisato, in fatti di guerra, ma più in operazioni di
trattati, e di furti e di subite cavalcate, che in campo o in aperta
guerra; e’ fu fortunato contro agli altri suoi nemici, e infortunato
contro al comune di Firenze, e per animosità di parte ghibellina non
seppe tener fede.

CAP. XII.
_Come scurò tutto il corpo della luna._
Martedì notte alle ore quattro, a dì 16 di febbraio anno 1355,
cominciò la scurazione della luna nel segno dell’Aquario, e alle
cinque ore e mezzo fu tutta scurata, e bene dello spazio d’un’altra
ora si penò a liberare. E non sapendo noi per astrologia di sua
inflenza, considerammo gli effetti di questo seguente anno, e vedemmo
continovamente infino a mezzo aprile serenissimo cielo, e appresso
continove acque oltre all’usato modo il rimanente d’aprile e tutto il
mese di maggio, e appresso continovi secchi e stemperati caldi insino a
mezzo ottobre. E in questi tempi estivali e autunnali furono generali
infezioni, e in molte parti malattie di febbri e altri stemperamenti
di corpi umani, e singularmente malattie di ventre e di pondi con
lungo duramento. Ancora avvenne in quest’anno un disusato accidente
agli uomini, e cominciossi in Calavria a Fiume freddo e scorse fino
a Gaeta, e chiamavano questo accidente male arrabbiato. L’effetto
mostrava mancamento di celabro con cadimenti di capogirli con diversi
dibattimenti, e mordeano come cani e percoteansi pericolosamente,
e assai se ne morivano, ma chi era provveduto e atato guariva. E fu
nel detto anno mortalità di bestie dimestiche grande. E in quest’anno
medesimo furono in Fiandra, e in Francia e in Italia molte grandi e
diverse battaglie, e nuovi movimenti di guerre e di signorie, come
leggendo si potrà trovare. E nel detto anno fu singulare buona e
gran ricolta di pane, e più vino non si sperava, perchè un freddo
d’aprile l’uve già nate seccò e arse, e da capo molte ne rinacquono
e condussonsi a bene, cosa assai strana. E da mezzo ottobre a calen
di gennaio furono acque contino ve con gravi diluvi, e perdessene il
terzo della sementa, ma il gennaio vegnente fu sì bel tempo, che la
perduta sementa si racquistò. I frutti degli alberi dimestichi tutti
si perderono in quest’anno. Non ne avremmo stesa questa memoria se la
scurazione predetta non vi ci avesse indotto.

CAP. XIII.
_Come la gran compagnia presono Venosa._
La compagnia del conte di Lando ch’avea avuta la prima paga dal re
Luigi, e dovea attendere l’altre paghe in Puglia senza far danno a’
paesani, vernava di là, e non faceva guerra; ma la fede, vedendosi il
destro, non seppe per promessa o saramento ch’avessono fatto osservare:
e però entrarono in Rapolla, e presa la terra la spogliarono d’ogni
sustanza, e consumarono colle persone e co’ cavalli ciò che da vivere
vi trovarono; e appresso, del mese di febbraio predetto, per aguato di
furto presono la città di Venosa, e fecionne il simigliante. E questa
è la fede delle compagnie, che ogni cosa fanno licito alla corrotta
volontà della preda, e però è folle chi alle loro promissioni si fida.

CAP. XIV.
_Come il legato bandì la croce contro al capitano di Forlì._
In questo tempo del verno, messer Gilio cardinale di Spagna legato
di santa Chiesa, avendo prosperamente racquistato a santa Chiesa il
Patrimonio, la Marca d’Ancona, e ’l ducato di Spoleto, e la maggior
parte della Romagna, restavagli a racquistare Forlì e Faenza, e le
terre vicine e de’ loro distretti, le quali tenevano occupate per
loro tirannie Francesco degli Ordilaffi capitano di Forlì, e messer
Giovanni di messer Ricciardo Manfredi; e non trovando il detto legato
concordia con loro, ordinò contro a’ detti suo processo, e seguitollo
fino alla sentenza, perocchè tornare non vollono all’ubbidienza. E
pubblicata per Italia la loro dannazione, e fattili scomunicare, avendo
dal papa lettere d’indulgenza con piena remissione de’ peccati e della
pena a chi fosse contrito e confesso, fece bandire la croce contro
Francesco Ordilaffi tiranno di Forlì, e di Forlimpopoli e di Cesena, e
contro a Giovanni e Rinieri de’ Manfredi tiranni di Faenza, condannati
per eretichi e ribelli di santa Chiesa, potendo il cavaliere e il
pedone partecipare in due anni il servigio d’un anno in arme contro
a loro. Ordinati furono i predicatori, e’ collettori delle provincie
e delle città, e incontanente l’avarizia de’ cherici cominciò a fare
l’uficio suo, e allargarono colla predicazione l’indulgenza oltre alla
commissione del papa, e cominciarono a non rifiutare danaio da ogni
maniera di gente, compensando i peccati e i voti d’ogni ragione con
danari assai o pochi come gli poteano attrarre; e per non mancare alla
loro avarizia, sommoveano nelle città e ne’ castelli e nelle ville
ogni femminella, ogni povero che non avea danari, e dare panni lini e
lani, e masserizie, grani e biada, niuna cosa rifiutavano, ingannando
la gente con allargare colle parole quello che non portava la loro
commissione; e così davano la croce, e spogliavano le ville e le
castella più che non poteano fare le città, ma nelle città le donne e
le femmine valicavano tutta l’altra gente, e per questa maniera davano
la croce: e ’l termine della guerra cominciava in calen di maggio gli
anni 1356. Della città di Firenze e del contado un frate de’ Romitani
vescovo di Narni trasse grandissimo tesoro, del quale non potendo il
cardinale avere diritto conto, lungo tempo tenne in prigione il detto
vescovo in un suo castello nella Marca, guardato alle spese del detto
vescovo.

CAP. XV.
_Come il conte Paffetta fu da’ Pisani messo in prigione._
Egli è assai utile cosa agli uomini considerare contro alla malizia e
alla superbia de’ grandi cittadini, quando possono far male e abbattere
gli altri, ch’e’ medesimi sono sottoposti a quella medesima calamità
e fortuna; ma provarlo per esperienza gli ne fa più certi, e a quelli
c’hanno a venire ne rimane migliore esempio. Detto abbiamo come la
malizia di messer Paffetta conte di Montescudaio cittadino di Pisa,
colla perversa operazione fece morire e cacciare i Gambacorti di Pisa,
e sè fece il maggiore di quella città; avvenne che gli altri cittadini,
cui egli avea rimessi al governamento del comune, parendo loro che
messer Paffetta fosse troppo grande, si legarono e feciono setta
contro a lui segretamente, e un dì, essendo messer Paffetta andato
agli anziani, come ordinato era, gli anziani mandarono di subito a
fare pigliare certi cittadini caporali della sua setta e stretti suoi
confidenti, e altri di suo seguito intorno di cinquanta, e di presente
li mandarono a’ confini, facendoli uscire della città, e messer
Paffetta con alcuno altro mandarono in prigione nell’Agosta a Lucca;
e messolo in carcere sotto buona guardia, rivocarono i confini agli
altri e fecionli ritornare, senza fare altra novità o mutazione di loro
stato. Parve a tutti rimanere più sicuri, e in migliore essere nella
cittadinanza, che in prima; e questo fu all’entrata del mese d’aprile,
e ancora non era compiuto l’anno ch’egli avea abbattuti i Gambacorti
e gli altri buoni cittadini di Pisa. Era in Pisa il vicario sostituto
del vicario dell’imperadore, il quale consentì a tutto, essendoli fatto
intendere che messer Paffetta volea con certo trattato dare Pisa a’
signori di Milano: grande loro amico era, ma altro vero non se ne potè
trovare; e stato alquanto in prigione, per tema che l’imperadore non lo
ne facesse trarre, o i signori di Milano, di veleno, o d’altra violente
morte, celatamente lo feciono morire in prigione.

CAP. XVI.
_Come gli Aretini riposono certe fortezze._
Gli Aretini sentendo morto messer Piero Sacconi de’ Tarlati loro
nemico, il quale lungo tempo gli avea tenuti in guerra e in gran paura,
contro al quale non s’ardivano a muovere vivendo, incontanente dopo
la sua morte, del detto mese di febbraio del detto anno, uscirono a
oste, e riposono una tenuta contro al castello di Gaerina, e un’altra
contro a Bibbiena, e una sopra Pietramala, e tanto stettono a campo,
che tutte e tre furono fortificate e fornite, acciocchè i Tarlati
non potessono correre sopra loro a loro volontà, com’erano usati di
fare. E per la baldanza presa per la morte d’un decrepito vecchio,
non avendo avuto ardire di farlo a sua vita, ordinarono tra nella
città e nel contado tremila uomini a corazze, e trecento balestrieri
e centocinquanta barbute, per potere mantenere il loro contado più
sicuro, e guerreggiare i nemici. Abbianne fatta memoria per una cosa
assai nuova, considerando che un uomo vecchio tenesse in freno e in
paura così antica e gran città, che non pensavano in fatti di guerra
potere resistere alla sua persona.

CAP. XVII.
_Di nuove rivolture della gran compagnia._
Stando la compagnia del conte di Lando a vernare in Puglia con grande
abbondanza d’ogni bene da vivere, aspettando dal re Luigi la moneta
promessa, per lo patto ch’avea di doversi partire al maggio prossimo
e uscire del regno, una parte di loro con certi conestabili intorno
di cinquecento barbute, contentandosi male d’aversi a partire del
paese, senza tenere promessa al re o fede all’altra compagnia si
rubellarono da essa, e accostati al conte di Minerbino detto Paladino,
se n’andarono per sua condotta in terra d’Otranto, ove per lunghi tempi
passati non era sentita guerra, e di presente presono due castella nel
paese piene di molta vittuaglia, e preda quanta ne poterono guardare
di bestiame grosso e minuto, del quale poterono avere l’uso, ma non
danari. Il conte di Lando si dolse al re Luigi del tradimento fatto per
costoro, e offerse sè e l’altra compagnia al servigio del re contro a
que’ ribelli, e contro a tutti i baroni che non volessono ubbidire alla
corona. Il re, e il suo consiglio, e il gran siniscalco, credendosi
fare meno male, accettarono la profferta, e una parte della compagnia
con certa condotta de’ suoi uficiali mandò in Abruzzi per fare ubbidire
alquanti comuni e baroni, i quali così rubavano e predavano il paese
come se fossono nel servigio della compagnia e non in quello del re,
e tanto più sicuramente, perchè niuno s’era provveduto contro a loro:
e quelli ch’erano rimasi col conte di Lando volevano pur vivere largo
all’altrui spese. E così nella concordia, come nella guerra, erano
d’ogni parte i regnicoli mal trattati.

CAP. XVIII.
_Di grandi gravezze fatte dal re di Francia nel suo reame._
In questo verno, vedendosi il re di Francia la guerra degl’Inghilesi
addosso, e spogliare da’ forestieri il reame, come già abbiamo narrato,
pensando avere a moltiplicare la spesa, oltre alle colte de’ feudi
delle città del reame e de’ baroni, e oltre alle gravezze dell’usate
reve, e del gran danno fatto a’ sudditi del reame di cambiare le
buone monete d’oro e d’argento in ree contro all’usanza di quel
regno, ordinò, e pose per modo di gabelle, ch’ogni mercatanzia che si
comperasse o vendesse nel reame dovesse pagare agli uficiali ordinati
sopra ciò danari otto per catuna lira. La qual cosa gravò tanto i
mercatanti, che abbandonarono in gran parte il reame e il trafficare in
quello, e quasi tutto il peso rimase a’ baroni e a’ paesani, della qual
gravezza forte si conturbarono inverso il loro signore, e desideravano
il suo male; e alquante città per questa cagione si recarono a reggere
per loro, e non voleano ricevere gli esecutori e gli uficiali del re di
Francia, come per innanzi leggendo si potrà trovare.

CAP. XIX.
_Come i Pisani facevano simulata guerra._
La materia ch’ora seguita non era degna di memoria per lo fatto,
ch’assai fu lieve, ma il modo, c’ha poi generate più gravi cose, ci
scusa. I Pisani, innanzi a questo tempo di più anni, per loro maliziosa
industria, avendo buona e leale pace co’ Fiorentini, contro a’ patti
di quella aveano fatto fare il castello di Sovrana, il quale il comune
di Firenze tenea per li patti della pace, e fecionlo torre a certi
ghibellini usciti di quel paese, e il comune di Pisa sotto nome di
costoro si tenea la terra, e mantenievi soldati che tribolavano tutto
il paese e le terre d’intorno del comune di Firenze; essendo i Pisani,
oltre alla pace, in singulare compagnia e lega col nostro comune,
faceano queste coperte con grande ambizione. I Fiorentini lungamente
dissimularono mostrando di non se n’avvedere, ma moltiplicandosi il
male, e scoprendosi ogni dì più l’uno che l’altro, il nostro comune
prese di gastigarli in quella contrada con quella malizia ch’eglino
avevano insegnata. E del mese di febbraio del detto anno ordinarono
co’ Pistoiesi che si lasciarono torre Calumao, una fortezza sopra
Sovrana, a certi caporali di buoni masnadieri, i quali con aspra e
continova guerra in breve tempo uccisono tutti i caporali di Sovrana,
e presono masnade ch’e’ Pisani mandavano per guastare la Sambuca, e
feciono grande guerra nel paese. E per questo tutti i ghibellini di
Valdinievole erano mal condotti, ch’avendo pace vivevano in continua
guerra per la cominciata malizia pisanesca. Ma aggiugnendo malizia a
malizia, per vendicare loro onta sbandirono loro soldati, e mandarono
trecento barbute e gran popolo agli usciti ghibellini di Valdinievole,
i quali cavalcarono infino alla Pieve a Nievole, e arsono intorno a
quella, e feciono quel danno che poterono; e appresso si dirizzarono
a Castelvecchio, e ordinatamente il combatterono, ma nol vinsono. Il
comune di Firenze sentendo questo fece cavalcare i suoi cavalieri in
Valdinievole, e raunati i paesani, cercavano d’abboccarsi co’ nemici,
ma eglino non attesono; e non potendo tornare per la via ond’erano
andati, per altra via più aspra, ma a loro più sicura, in fretta si
ritornarono a Pisa, e furono ribanditi.

CAP. XX.
_Come il capitano della Chiesa assediò Cesena._
Il legato del papa, oltre alla gente ch’attendea de’ crociati avea
da sè a soldo duemila barbute, e confidandosi de’ Malatesti, fece
gonfaloniere di santa Chiesa e capitano della sua gente d’arme messer
Galeotto da Rimini, e con mille cavalieri e con gran popolo del mese
di febbraio del detto anno il mandò a oste sopra la città di Cesena;
il quale in prima corse il paese predando d’intorno, e appresso visi
pose ad assedio, e strettosi alla terra, vi stette infino che il
conte di Lando venne del Regno in Romagna, come innanzi al suo tempo
racconteremo.

CAP. XXI.
_Come il conte da Battifolle assediò Reggiuolo._
Avendo il conte Ruberto da Battifolle ricevuto ingiuria nel suo
contado di cavalcate e di prede fatte per Marco figliuolo di messer
Piero de’ Tarlati, contro a’ patti della pace fatta con gli aderenti
de’ signori di Milano, accolta sua gente e’ suoi fedeli in arme,
all’entrata del mese d’aprile anni 1356, essendo per nevi e per venti
smisurato freddo, se n’andò al castello di Reggiuolo, il quale era
allora del detto Marco, e cinselo d’assedio, e fece a’ suoi fare case
di legname per ripararsi dal freddo, e rizzò trabocchi e manganelle
che tribolavano il castello e coloro che dentro il guardavano, e
aggiungendo al continovo forza avea sì stretti gli assediati, che più
non si poteano difendere. Vedendo Marco che ’l castello non si potea
più tenere, mandò a richiedere il comune di Firenze per li patti della
pace, che non lasciassono al conte seguitare l’impresa. Il conte venne
a Firenze, e mostrò al comune come Marco era stato movitore della
guerra, e più che non avea voluto approvare nè ratificare per carta
alla pace secondo i patti. Ma nondimeno il comune di Firenze, per non
potere essere calunniato a diritto o a torto d’avere lasciato a’ suoi
aderenti rompere la pace, diliberò, che ’l conte si dovesse partire
dall’assedio. Il conte non ostante l’ingiuria ricevuta, e la spesa
fatta, e la ferma speranza d’avere il castello, per ubbidire al comune
di Firenze lasciò l’impresa, e a dì 18 d’aprile del detto anno si tornò
in Casentino.

CAP. XXII.
_Come il conticino da Ghiaggiuolo racquistò Ghiaggiuolo._
Di questo mese di maggio 1356, il conticino da Ghiaggiuolo con alcuna
gente del legato cavalcò nelle terre che il capitano di Forlì gli avea
tolte; e stando nella contrada molto baldanzoso, fece correre boce
che Forlì s’era renduto al legato, e che il capitano era preso. E per
mostrare la cosa ben certa, si fece venire un frate con lettere che
contavano le novelle molto verisimili, e recò l’ulivo palese, e fu
ricevuto con grande festa. E incontanente si strinse a Ghiaggiuolo,
e fece vedere le lettere al castellano, e poi gli disse, che se
incontanente non li rendesse il castello, che lui e’ compagni farebbe
morire senza niuna misericordia. La cosa avea sembianza di verità, e
il castellano era di poco intendimento, e pauroso e vile, e però gli
rendè il castello, ch’era forte e bene fornito, e andossene colla sua
compagnia a salvamento con vergogna, e non senza infamia di tradimento.

CAP. XXIII.
_Come i Visconti assediarono Pavia._
Avendo nel principio di questo sesto libro narrato il sospetto preso,
e la discordia tra’ signori di Milano e il marchese di Monferrato,
e quelli da Beccheria di Pavia, e accresciuta la mala voglia per le
rubellioni fatte in Piemonte, messer Bernabò e messer Galeazzo Visconti
volendosi vendicare sopra i loro parenti e prossimani vicini, con
grande moltitudine di cavalieri e di popolo, del mese di maggio del
detto anno, valicarono il Tesino e strinsonsi alla città di Pavia, e
vi poson l’assedio d’ogni parte, con intendimento di non levare l’oste
se prima non avessono la città al loro comandamento, e così si credette
per tutta Italia, perocchè la città è presso a Milano a venti miglia di
piano, e la potenza de’ tiranni era sopra modo grande a quella impresa.
Ma perocchè non procede dalla volontà umana la potenza divina, le cose
succedono spesso ad altro fine che gli uomini non divisano, e così
avvenne di quest’assedio, come seguendo nostro trattato dimostreremo.

CAP. XXIV.
_Come il re di Francia prese il re di Navarra._
Avendo racconto addietro come il re Giovanni di Francia avea renduto
pace al re di Navarra, e perdonatagli la morte del conestabile e agli
altri baroni ch’erano stati con lui, e come accomandato gli avea il
Delfino suo figliuolo, seguitò, che in questo tempo, essendo loro
commesso dal re la provvisione della guardia di Guascogna, insieme
cavalcavano la provincia, provvedendo a quello ch’era di bisogno alla
difesa del paese, e ancora andavano prendendo loro diporto; ed essendo
nella città di Ruen, il re di Francia il sentì, e mossesi da Parigi
quasi sconosciuto con poca compagnia e cavalcò ad Orliens, e là tenne
a battesimo un fanciullo nato di quelli d’Artese, e parente stretto
del conestabile di Francia che fu morto, a cui il re secondo il volgo
avea portato disordinato amore: avvenne, o che la morte del suo diletto
amico per lo fanciullo parente li rivenisse nella mente, o che altra
cagione il movesse al presente fatto, niuna certezza se ne potè avere,
ma di subito armato a modo di cavaliere, con sessanta cavalieri armati
di sua famiglia cavalcò a Ruen; e giunto senza arresto alla città,
mandò un cavaliere innanzi a sè, il quale dicesse in segreto al Delfino
suo figliuolo, che di cosa ch’avvenisse non prendesse turbazione nè
paura; e seguendo il re co’ suoi cavalieri armati entrò nel palagio
ov’era il re di Navarra, e il Delfino, e il conte di Ricorti con
quattro cavalieri banderesi di Normandia, e aveano a desinare con
loro altri baroni e cavalieri del paese. Ed essendo giunto innanzi il
cavaliere, e appena compiuto di favellare al Delfino, il re di Francia
armato colla barbuta in testa e co’ suoi cavalieri fu in sulla sala, e
trovandoli alla mensa, comandò che alcuno non si movesse; e avviatosi
verso il re di Navarra, il chiamò traditore della corona, e andogli
addosso con uno stocco ignudo per ucciderlo di sue mani: ripreso e
ritenuto da’ suoi, dicendo che a re non si convenia tanto fallo, il
fece prendere e imprigionare, e detto fu che alquanto il punse dello
stocco; e fece pigliare il conte di Ricorti, e i quattro cavalieri
normandi, chiamandoli traditori, i quali si scusavano, dicendo ch’erano
diritti e leali; ma il re mosso da furiosa tempesta d’animo giurò di
non mangiare, prima che di loro avesse fatto secondo la sua intenzione
piena giustizia.

CAP. XXV.
_Come il re di Francia fece decapitare il sire di Ricorti e altri
quattro cavalieri normandi._
Avendo preso il re di Navarra, di presente il mandò a incarcerare a un
forte castello che si chiama Castel Gagliardo: e in quello stante il
re di Francia fece mettere in su una carretta il sire di Ricorti e i
quattro cavalieri normandi per farli decapitare, innanzi che volesse
desinare. E quelli della città per la subita tempesta del re vedendo
tanta novità, e non sapendo che vi fosse la persona del re di Francia,
traevano in piazza per aiutare i baroni presi. Il re conoscendo il
pericolo del popolo commosso, si trasse la barbuta di testa e fecesi
conoscere; e sparta la voce che ivi era la persona del re loro signore
catuno stette cheto. Allora il re, per mostrare al popolo e agli altri
maggiori che v’erano che ’l suo furioso movimento a tanto fatto non era
senza gran cagione, si trasse dal lato un brieve con molti suggelli,
nel quale si contenea, come il re di Navarra col sire di Ricorti, e con
quattro cavalieri normandi, e con altri che in quello si nominavano,
aveano trattato col re d’Inghilterra d’uccidere il re di Francia e ’l
Delfino suo figliuolo, e di fare re di Francia il detto re di Navarra,
il quale fatto re, dovea rendere la Guascogna e la Normandia al re
d’Inghilterra. E questo brieve, vero o simulato che fosse, continovo
fino alla morte fu negato per lo sire di Ricorti e per i quattro
cavalieri normandi; nondimeno nella presenza del re tranati in sulla
piazza furono decapitati, e i corpi loro legati con catene, senza
concedere loro sepoltura, furono appesi. Altri dissono, che doveano
dare prigione il Delfino al re d’Inghilterra, ma poca fede si diede
all’una cagione e all’altra, ma più che ciò fosse fatto per vendetta
della morte del conestabile. E appresso fu mandato il re di Navarra
prigione in Castelletto, parendo a molti, che egli, egli altri ch’erano
stati decapitati fossono senza colpa di quella infamia.

CAP. XXVI.
_D’un grosso badalucco fu a Pavia._
Essendo l’oste de’ signori di Milano sopra la città di Pavia, del
mese di maggio del detto anno, uscirono cavalieri della terra, e
cominciarono giostre e badalucchi con quelli del campo; e venendo
a poco a poco crescendo l’assalto e la gente da catuna parte, vi
s’allignò un’aspra battaglia di più di mille cavalieri di catuna
gente, tutti i più pro’ e i più arditi, che di grande volontà per
fare d’arme si metteano in quello stormo. Infine per lo superchio de’
cavalieri che messer Galeazzo sollecitava di mandarvi, quelli di Pavia
non poterono sostenere, e per forza convenne che dessono le reni, e
fuggendo, alquanti ne furono presi; gli altri per campare si tornarono
nel borgo della città, ed essendo fortemente incalciati da’ nemici
che li seguivano, con loro insieme si misono follemente nel borgo, ove
racchiusi, si trovarono prigioni per troppa sicura gagliardia, e ben
quattrocento se ne rassegnarono a bottino, per li quali quelli di Pavia
riebbono tutti i loro prigioni; e guadagnati i cavalli e l’arme, tutti
gli lasciarono andare alla fede, secondo l’usanza de’ Tedeschi.

CAP. XXVII.
_Come i Visconti assediarono Borgoforte._
Di questo mese di maggio, i signori di Milano, non ostante ch’avessono
l’oste a Pavia, e mandata gran gente in Piemonte contro al marchese di
Monferrato, mandarono duemila cavalieri e gran popolo con molto navilio
ad assediare Borgoforte in sul Mantovano, e ivi si posono ad assedio
per acqua e per terra, facendo nel Pò grandi palizzati, acciocchè
levassono al castello ogni fornimento e soccorso che venire gli potesse
per lo fiume del Po, e con bertesche, e con guardie, e con navili il
chiusono, e per acqua e per terra l’assediarono strettamente.

CAP. XXVIII.
_Come i Visconti feciono contro a’ prelati di santa Chiesa._
Avvenne in questi dì, che ’l papa mandò un valente prete in Lombardia
a predicare la croce, guardandosi i maggiori prelati di non volere la
grazia di quell’uficio. E la croce si bandiva e predicava, come detto
è, contro al capitano di Forlì e al signore di Faenza. Il valente
sacerdote se n’andò a Milano, e ivi favoreggiato dal vescovo di Parma,
cominciò sollicitamente a fare l’uficio che commesso gli era dalla
santa Chiesa. Come messer Bernabò ebbe notizia di questo servigio,
senza vietarglielo, o ammonirlo che questo fosse contro alla sua
volontà, il fece pigliare, e ordinata per lui una graticola di ferro
tonda a modo d’una botte, là dentro vi fece mettere il sacerdote, e
accesovi sotto il fuoco come si fa a uno arrosto, e facendolo volgere,
crudelmente il fece morire a grande vitupero, non tanto per la sua
persona ch’era prete sagrato, quanto per lo dispregio e irreverenza
che per lui si mostrò fatto a santa Chiesa che l’avea mandato. E per
arrogere al mal fatto aggiunse, che al vescovo di Parma fece torre
il vescovado, e delle rendite di quello investì altrui, e contradiò
alla predica della croce. E acciocchè il capitano si potesse difendere
dal legato li mandò subitamente dieci bandiere di cavalieri, dandogli
speranza di maggiore aiuto, e avendoli presso il castello di Luco, che
tenea tra Bologna e la Romagna, senza contasto li vi mise dentro.

CAP. XXIX.
_Come i Visconti feciono tre bastite a Pavia._
Del mese di maggio 1356, i signori di Milano volendo vincere per
assedio la città di Pavia, feciono edificare attorno alla terra tre
grandi bastite, le quali feciono armate di bertesche e di steccati, e
molto afforzare con buoni e larghi fossi, e l’una strinsono alla città
di là dal Tesino, e l’altra di verso Milano, il Tesino in mezzo; e
in sul fiume feciono un largo ponte di legname per lo quale l’un’oste
potea soccorrere all’altra, e l’altra bastita posono dall’altra parte
della terra. E per non tenervi tanta gente impedita a tenervi campo
aperto, misono in queste bastite cavalieri e pedoni assai, i quali
faceano aspra guerra, e teneano la città sì stretta, che vittuaglia
niuna o gente non grossa vi poteva entrare, e grande speranza aveano
di vincere la città, se fortuna l’avesse conceduto alla loro volontà:
ma non sempre agli appetiti de’ potenti tiranni acconsente la divina
disposizione, come leggendo innanzi si potrà trovare.

CAP. XXX.
_Come i Turchi con loro legni feciono gran danno in Romania._
In questi medesimi tempi, i Turchi avendo settanta legni armati, e
molte barche imborbottate, valicarono in Romania, ricettati da un
barone di quelli che rimase nel paese dell’antica compagnia, uomo di
perversa condizione; e per far male a’ suoi paesani, dava a’ Turchi
rinfrescamento e porto a’ loro navili, ed eglino quando per mare
quando per terra correvano il paese predando uomini e bestiame e roba
senza trovare da’ paesani contasto, e al barone, che gli ritenea e
favoreggiava, di tutta la preda davano la decima parte. E così seguendo
tutta la state feciono in Grecia grandissimi danni, e poi senza
contasto si tornarono in Turchia carichi di servi greci e di molta
roba.

CAP. XXXI.
_Come gl’Inghilesi guerreggiarono, il reame di Francia._
Non essendo per li legati di santa Chiesa potuto trovare in tutto
il verno passato pace o tregua tra il re di Francia e quello
d’Inghilterra, ma piuttosto aggravato l’animo del re di Francia
e de’ suoi Franceschi per l’ingiurie ricevute dagl’Inghilesi; e
gl’Inghilesi montati in maggiore audacia e baldanza aveano tanto a
vile i Franceschi, che non pensavano potere perdere abboccandosi con
loro: e però essendo tornato il re d’Inghilterra nell’isola per lo
fatto degli Scotti, come detto è, da capo s’apparecchiarono il valente
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