Cronica di Matteo Villani, vol. 3 - 02

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di consiglio, e manifestogli quello che sapea del fatto, che non sapea
però tutto. Costui menò il pellicciere al doge, il quale, non sapendo
che il doge sentisse di questo fatto, gli narrò ciò che ne sapea, e
nominogli i caporali. Il doge annullò molto il fatto, dicendo, che per
alcuno sentimento che n’avea avuto avea fatto spiare, e trovato avea
che la cosa era nulla. Il savio consigliere disse al doge, che volea
che questa cosa sentisse il consiglio; e contradiandolo il doge, costui
perseverò tanto in questo, che il savio doge divenuto per viltà fuori
del senno promise farlo raunare; commettendo fallo capitale della sua
testa, che lieve gli era ritenere costoro, e fare eseguire quello che
ordinato era, o stringerli e giudicarli a suo volere segretamente. La
mattina raunato il consiglio, e divolgata la novella, furono mandati a
prendere i caporali, e venuti dinanzi al doge e al consiglio, il doge
li chiamò traditori per dimostrarsi strano dal trattato, ma vennegli
fallato, perocchè in faccia gli dissono, che ogni cosa che ordinata era
s’era mossa da lui e proceduta dal suo consiglio. Il doge nol seppe
negare. Il consiglio incontanente il fece guardare nel suo palagio
per loro medesimi. In prima impesono quattro de’ caporali alle colonne
del palagio del doge, e il dì seguente confiscarono tutti i beni del
doge, ch’era grande ricco uomo, al comune, salvo che per grazia gli
concedettono che di duemila fiorini potesse testare a sua volontà;
e menatolo in sulla scala dov’egli avea fatto il saramento quando il
misono nella signoria, gli feciono tagliare la testa, e vilissimamente
il suo corpo messo in una barca fu mandato a seppellire a’ frati;
e l’amico suo che sturbò il patricidio de’ grandi cittadini, e il
rivolgimento dello stato di quella città, ebbe per merito condannagione
grande pecuniale, e perpetuo esilio, rilegato nell’isola di Creti.

CAP. XIV.
_Come l’imperadore tornò coronato a Siena._
L’imperadore Carlo ricevuta la corona in Roma, come detto abbiamo, se
ne tornò verso Siena, e soggiornato a Montalcino, e appresso venuto a
Montepulciano; e in catuno luogo lasciati suoi vicari con alcuna gente,
domenica a dì 19 d’aprile in sul vespero giunse alla città di Siena;
e innanzi che entrasse nella città, fattoglisi incontro i cittadini
con gran festa in sull’ora del vespero, in quest’abboccamento otto
cittadini pomposi e avari per cessare la debita spesa alla cavalleria
si feciono a lui fare cavalieri, e appresso entrato nella città glie
n’accorreano molti senza ordine o provvisione, ed egli avvisato del
vano e lieve movimento di quella gente, commise al patriarca che in suo
nome gli facesse. Il patriarca non potea resistere a farne tanti quanti
nella via glie n’erano appresentati: e vedendone così gran mercato,
assai se ne feciono che innanzi a quell’ora niuno pensiere aveano
avuto a farsi cavalieri, nè provveduto quello che richiede a volere
ricevere la cavalleria, ma con lieve movimento si faceano portare sopra
le braccia a coloro ch’erano intorno al patriarca, e quand’erano a lui
nella via il levavano alto, e traevangli il cappuccio usato, e ricevuta
la guanciata usata in segno di cavalleria gli mettevano un cappuccio
accattato col fregio dell’oro, e traevanlo della pressa, ed era fatto
cavaliere; e per questo modo se ne feciono trentaquattro in quella
sera tra grandi e popolari. E condotto l’imperadore al suo ostiere,
fu fatto sera, e catuno si tornò a casa; e’ cavalieri novelli senza
niuno apparecchiamento o spesa con la loro famiglia celebrarono quella
notte la festa della loro cavalleria. Chi considera con la mente non
sottoposta alla vile avarizia l’avvenimento d’un novello imperadore
in cotanto famosa città, e tanti nobili e ricchi cittadini promossi
all’onore della cavalleria nella patria loro, uomini di natura pomposi,
non avere fatto alcuna solennità in comune o in diviso a onore della
cavalleria, può giudicare quella gente poco essere degna del ricevuto
onore.

CAP. XV.
_Come il legato parlamentò a Siena con l’imperadore._
Messer Gilio cardinale di Spagna, a cui il papa e’ cardinali aveano
commesso il procaccio e la legazione di riacquistare la Marca, e ’l
Ducato, e la Romagna occupata per messer Malatesta da Rimini e per
gli altri tiranni Romagnuoli, avendo molto premuto e dirotto messer
Malatesta, l’avea condotto in parte, ch’e’ tentava di volere accordarsi
col cardinale per le mani dell’imperadore, e avea detto di venire
a Siena per questa cagione all’imperadore; e ’l legato per questo
fatto, e per vicitare l’imperadore, si mosse della Marca, e a Siena
giunse a dì primo di Maggio; e ivi, con l’altro cardinale d’Ostia
ch’avea coronato l’imperadore, furono a parlamentare con lui de’ fatti
d’Italia ch’apparteneano a santa Chiesa, attendendo messer Malatesta
per pigliare accordo con lui: ma il tiranno mutato consiglio, non vi
volle andare. In questo attendere, l’imperadore trattò con loro de’
fatti di Perugia, che a lui aveano proposto ch’erano immediate sotto
la giurisdizione di santa Chiesa, come del ducato di Spuleto, per
liberarsi da lui, e al legato non rispondeano in alcuna ubbidienza per
nome di santa Chiesa; e per questa cagione deliberarono tra loro, che
l’imperadore senza offendere santa Chiesa potea trattare con loro, come
con l’altre città d’Italia, e così si pensava l’imperadore di fare, ma
sopravvenendogli altre novitadi, come noi diviseremo appresso, feciono
dimenticare i fatti di Perugia, e partire il legato in animo forte
adirato contro a messer Malatesta, da cui si tenea deluso a questa
volta.

CAP. XVI.
_Come l’imperadore ebbe la seconda paga da’ Fiorentini._
Essendo l’imperadore in Siena, obbligato a molti baroni e cavalieri da
cui avea ricevuto servigio, mostrandosi povero di moneta, li nutricava
di promesse, e rimandavali nella Magna mal contenti: e volendogli i
Fiorentini fare la seconda paga, mandò a dire a’ signori di Firenze,
che glie la mandassimo segretamente. I Fiorentini innanzi al termine
promesso, all’uscita d’aprile gli mandarone contanti trentamila
fiorini: e fattogli in segreto sentire come i danari erano venuti, di
presente fece uscire dall’ostiere tutta sua famiglia, e rinchiusosi in
una camera, in sua presenza li fece contare al patriarca; e trovato
che uno di sua famiglia stava a vedere al buco dell’uscio, il punì
gravemente, temendo ch’e’ suoi baroni nol sentissono, perocchè più
amava di tenersi i danari in borsa, che l’amore de’ suoi baroni o il
loro contentamento.

CAP. XVII.
_Come il nuovo tiranno di Bologna mandò a Firenze ambasciadori a
richiedere i Fiorentini._
Messer Giovanni da Oleggio avendo novellamente tolto e rubato la
città di Bologna a’ suoi signori de’ Visconti, e trovandosi povero
d’aiuto a sostenere il fascio di quella città e de’ potenti avversari,
incontanente mandò lettere per suoi messaggi, e appresso solenni
ambasciadori al comune di Firenze, offerendo di volere essere singulare
amico de’ Fiorentini, e di governare e reggere quella città alla
volontà e piacere del comune di Firenze. E i detti ambasciadori con
molte suasioni e larghe promesse da parte di messer Giovanni pregarono,
ch’almeno in privato, se non volesse in palese, il nostro comune
il dovesse consigliare, acciocchè potesse quella città mantenere in
amore e in fratellanza, come anticamente era costumata d’essere co’
Fiorentini, e difenderla da’ tiranni di Milano, originali nemici del
comune di Firenze. I Fiorentini conobbono chiaramente, ch’essendo
Bologna in loro amistà e lega, sarebbe a modo che forte muro alla
difesa del nostro comune contro a ogni potenza tirannesca di Lombardia;
ma per osservare lealmente la promessa pace a’ Visconti signori di
Milano, per niuno vantaggio che conoscessono, o per promesse che fatte
fossono loro, poterono essere recati a fare in segreto o in palese
cosa, che sospetto potesse essere alla pace promessa a’ Visconti. E
avendo gli ambasciadori trovata ferma costanza nel comune a mantenere
sua fede, si tornarono mal contenti al loro signore a Bologna a dì 4
mese di maggio del detto anno; e questo fu chiaramente manifesto a’
signori di Milano, che molto l’ebbono a bene, e offersonsi largamente
al comune di Firenze.

CAP. XVIII.
_Come fu sconfitto, e preso messer Galeotto da Rimini da’ cavalieri del
legato._
Avendo poco addietro narrato come messer Malatesta da Rimini avea
cambiato l’animo dell’accordo con messer lo cardinale legato, seguitò,
che la sua gente d’arme capitanata e guidata per messer Galeotto suo
fratello, perocchè in pochi giorni due volte avea rotti i cavalieri
della Chiesa, avviliva tanto quella gente che poco se ne curava. E
però avendo per assedio e per forza preso un castello di Recanati,
con più di seicento barbute e gran popolo s’era posto ad assedio a un
altro, e nondimeno per buona provvidenza di guerra avea fortificato
il campo con un muro per modo, ch’entrare nè uscire per lo piano non
si potea se non per una sola entrata; e per questo stavano baldanzosi
all’assedio con minore guardia, non temendo per gente che il legato
avesse, per la qual cosa prima ebbono addosso la cavalleria del legato,
che di loro si fossono provveduti. Messer Ridolfo da Camerino capitano
della gente della Chiesa, con più d’ottocento cavalieri e con assai
buoni masnadieri, avendogli condotti al campo de’ nemici, gli fece
assalire agramente, e per due volte tolse loro l’entrata del campo,
e quelli di messer Galeotto combattendo virtuosamente catuna volta lo
racquistarono per forza d’arme. Infine avvedendosi il capitano della
Chiesa che un piccolo poggetto si guardava per lo popolo d’Ancona
ch’era sopra il campo, mosse i cavalieri e’ balestrieri contro a loro,
i quali francamente gli assalirono: e non potendo avere soccorso dal
campo, ch’erano combattuti dall’altra parte, per forza furono rotti:
e di quel poggetto senza riparo di muro cacciando e uccidendo i
nemici per forza entrarono nel campo, e l’altra parte di loro presono
l’entrata del campo e misonsi dentro. Messer Galeazzo si ristrinse
co’ suoi combattendo co’ nemici, dinanzi e di dietro assaliti, molto
vigorosamente a modo di valenti cavalieri, e per più riprese si
percosse tra’ nemici, e due volte preso fu riscosso dà suoi cavalieri.
Infine vincendo quelli della Chiesa, a messer Galeotto fu morto il
destriere sotto, e ricoverato un piccolo cavallo, volendosi salvare,
fu fedito di più fedite; e ritenuto prigione, e tutta sua gente rotta,
presa e sbarattata e morta; e liberato il castello, messer Ridolfo
detto con piena vittoria si tornò al legato: e questa fu la cagione
perchè poi messer Malatesta non potè fare retta contro al legato, come
appresso si potrà trovare.

CAP. XIX.
_Come la fama della liberazione di Lucca si sparse._
Avvenne in questi dì, all’entrante del mese di maggio del detto anno,
essendo l’imperadore libero signore di Pisa, di Lucca, di Siena, di
Sangimignano e di Volterra, e dell’altre terre loro sottoposte, e in
amore e pace co’ Fiorentini e’ Perugini, Pistoiesi e Aretini, senza
alcuno avversario in Italia, onde che la cosa muovesse, una fama corse
per tutta Italia ch’egli avea fatto accordo con gli usciti di Lucca, i
quali si dicea che gli doveano far dare in Francia centoventimigliaia
di fiorini d’oro quand’egli liberasse la città di Lucca della signoria
de’ Pisani; e questo si dicea ch’avea promesso di fare finito il
termine ch’e’ Pisani aveano promesso di liberarla; e doveala lasciare
in libertà al reggimento del popolo e rimettervi tutti gli usciti,
la quale suggezione de’ Pisani dovea seguire il secondo anno. Il
divolgamento di questa fama non si trovò ch’avesse fondamento da
trattato fatto dall’imperadore, o se fatto fu, altrove che in Toscana e
per altri che per la persona dell’imperadore ebbe movimento. Trovossi
bene, che grandi ricchi mercatanti usciti di Lucca intendeano a fare
colta di moneta. Ma come che la cosa si fosse o si spirasse, a tutti
parve che così dovesse essere, e in segno di ciò furono revoluzioni e
gravi novità ch’appresso ne seguitarono, come leggendo nostro trattato
si potrà trovare.

CAP. XX.
_Come l’imperadore diede Siena al patriarca._
Nel soggiorno che l’imperadore facea a Siena trattò di volere che
il patriarca suo fratello fosse libero signore di quella città, e’
Sanesi avendosi condotti nel reggimento non però fermo dell’ignorante
popolo vacillante nello stato, per volere accattare la benivolenza
dell’imperadore consentirono d’avere il patriarca per loro signore,
e di volontà dell’imperadore di nuovo feciono la suggezione e ’l
saramento al patriarca, e a lui furono assegnate tutte le terre e
castella della loro giurisdizione, nelle quali confermò suoi castellani
e vicari, cosa strana all’antico governamento della loro libertà, e
di matto consentimento: e l’imperadore per la sua autorità e pe’ suoi
privilegi gli confermò la libera signoria di quella terra, e del suo
contado e distretto. Il patriarca volendo confermare la sua signoria
s’accostò col minuto popolo, e di quelli fece uficiali a’ reggimenti
comuni dentro nella città, e per lo loro consiglio si reggea, essendosi
accorto che per lo favore di quella minuta gente era venuto alla
signoria, e per questo avea schiusi gli altri maggiori popolani, e
abbattuto in tutto la setta dell’ordine de’ nove per modo, che non
ardivano in palese a comparire tra gli altri cittadini,

CAP. XXI.
_Come i capi de’ ghibellini d’Italia si dolsono all’imperadore._
In questi medesimi dì, all’entrante di maggio, i caporali di
parte ghibellina ch’erano venuti alla coronazione dell’imperadore,
aspettandone la loro esaltazione e l’abbassamento di parte guelfa in
Toscana, e vedendo per opera il contradio, si raunarono insieme in
una chiesa di Siena, e ivi ricordarono tra loro tutte le persecuzioni
ricevute da’ guelfi per cagione dell’imperio, e le infamazioni de’
comuni di Toscana, e spezialmente del comune di Firenze, per le
resistenze fatte agl’imperadori; e avendo raccolta loro materia da
dire, feciono quelle cose pronunziare nel cospetto dell’imperadore
al prefetto di Vico; il quale saviamente in prima raccontò la fede,
l’amore, i servigi che i ghibellini d’Italia aveano portato e fatto
per i tempi passati di quanto avere si potea memoria agl’imperadori
alamanni, e in singularità all’imperadore Arrigo suo avolo, e come
i guelfi d’Italia aveano sempre fatto grave resistenza all’imperio,
e tra gli altri comuni più singolarmente e con maggior forza il
comune di Firenze; e come per operazione di quel comune l’imperadore
Arrigo suo avolo era morto, e le imperiali forze recate al niente;
e’ ghibellini sentendo l’avvenimento della sua signoria tutti erano
venuti in grande speranza, aspettando per lui essere esaltati, e
vedere la struzione de’ guelfi, e singolarmente del comune di Firenze
sempre ribello all’imperadore; e vedendo che per danari egli s’era
acconcio con quel comune, e a’ suoi fedeli ghibellini per sua venuta
non era seguito vendetta delle loro oppressioni e de’ danni ricevuti,
e le loro terre e castella perdute non erano racquistate, nè per suo
procaccio loro restituite, essendo perdute per volere mantenere la
parte imperiale, si maravigliavano forte, e molto più conoscendo che
il tempo era venuto che col loro aiuto, e delle città e castella di
Toscana tornate all’imperiale suggezione, e colla sua grande potenza,
e’ potea essere signore della città e de’ danari de’ Fiorentini, e per
un poco di danari avea fatto accordo con quel comune in poco onore
della maestà imperiale. L’imperadore, udite le dette cose, senza
ristrignersi ad altro consiglio o fare risponditore alcuno altro,
come signore facondioso d’intendimento e d’eloquenza, coll’animo
quieto parlando soavemente, disse: Noi sappiamo bene l’amore e la fede
ch’avete portata all’imperio, e’ servigi fatti al nostro avolo per voi
non possiamo dimenticare, perocchè scritti sono ne’ suoi annali. Appo
i nostri registri troviamo noi, che i mali consigli de’ ghibellini
d’Italia, avendo più rispetto al proprio esaltamento, e a fare le loro
proprie vendette, che all’onore e grandezza dell’imperadore Arrigo mio
avolo, il feciono male capitare, e non il comune di Firenze, nè alcuna
operazione di quel comune; e però non intendo in ciò seguitare vostro
consiglio: e frustrati della loro corrotta intenzione, mal contenti e
poco avanzati si tornarono in loro paese.

CAP. XXII.
_Come l’imperadore si partì da Siena e andò a Samminiato._
L’imperadore raccomandata la signoria e ’l reggimento della città di
Siena al patriarca, a dì 5 di maggio del detto anno si partì della
città, e vennesene da Staggia e da Poggibonizzi senza entrare nella
terra; e fatta ivi di fuori sua lieve desinea, si mise a cammino, e la
sera giunse a Samminiato del Tedesco, e da’ Samminiatesi fu ricevuto
a onore come loro signore. E com’egli prese la via di là per andare
a Pisa, molti de’ suoi baroni con grande comitiva de’ loro cavalieri
si partirono da lui, e vennonsene a Firenze per seguire loro cammino
tornandosi in Alamagna. In Firenze furono ricevuti cortesemente,
rassegnandosi i caporali per nome, e dando il numero della loro gente
al conservadore: e questo valico fu più giorni, avendo il dì e la
notte da seicento in ottocento o più cavalieri tedeschi ad albergare
in Firenze, e però niuno sospetto o movimento si fece o si prese nella
città, salvo che un pennone per gonfalone guardava la notte senza
andare la gente attorno.

CAP. XXIII.
_Come il cardinale d’Ostia fu ricevuto a Firenze._
Il cardinale d’Ostia ch’avea coronato l’imperadore, avendo volontà
di venire a Firenze per vedere la città e per procacciare alcuna cosa
dal comune, venne a Firenze a dì 6 di maggio del detto anno, ricevuto
da’ cittadini con grande onore, andandogli incontro la generale
processione, e messo sotto un ricco palio d’oro e di seta, addestrato
da’ cavalieri di Firenze e da’ maggiori popolari, sonando tutte le
campane del comune e delle chiese a Dio laudiamo mentre ch’e’ penò ad
essere albergato, con grande riverenza per onore di santa Chiesa fu
collocato nelle case degli Alberti; e fattogli per lo comune ricchi
presenti, domandatosi per lui a’ priori cose indiscretamente che non
gli poteano fare, delle quali iscusatisi onestamente, non contento
da loro per la sua ambizione, a dì 8 di maggio del detto anno, mal
contento del nostro comune per suo disonesto sdegno se ne ritornò
a Pisa, dimenticato l’onore ricevuto per lo corrotto appetito della
sconcia domanda.

CAP. XXIV.
_Come la gente del legato presono quattro castella di Malatesta._
Dopo la sconfitta e la presura di messer Galeotto narrata poco
addietro, messer Malatesta andò a Pisa all’imperadore, perchè
l’acconciasse in pace col legato e con la Chiesa; nondimeno avea alle
frontiere della gente e delle terre della Chiesa tutta la forza della
sua gente d’arme a cavallo e a piè ragunata quivi, avvisando che là
si facesse la guerra, e così dimostrava di volere fare il capitano
della gente della Chiesa; ma come uomo avvisato ne’ fatti della guerra,
avendo condotto certo trattato per le mani del conticino da Ghiaggiuolo
il quale era de’ Malatesti, ma nimico di messer Malatesta e de’ suoi
per la morte di suo padre, questi avendo ordinato il suo trattato,
fece col capitano della Chiesa che subito mandò della Marca in Romagna
cinquecento cavalieri e altrettanti e più masnadieri, i quali furono
prima in su le porte di Rimini ch’e’ terrazzani sprovveduti senza
avere gente d’arme alla guardia se n’avvedessono, e funne la città
in gran pericolo; e per questo subito avvenimento, non essendo gente
nella terra da potere soccorrere di fuori nè riparare al trattato
del conticino, presono e rubellarono a’ Malatesti il castello di
sant’Arcagnolo, e ’l Verrucchio, e due altre castella intorno e di
presso alla città di Rimini, le quali fornirono di gente da cavallo e
da piè che faceano guerra a Rimini e nel paese, ed erano come bastite
che teneano assediata la terra. Di questa cosa si conturbò tutta la
Romagna, e fu cagione di recare i Malatesti più tosto a rendersi alla
volontà del legato, come al suo tempo appresso racconteremo; e questo
fu del mese di maggio del detto anno.

CAP. XXV.
_Come morì il duca di Pollonia._
Il duca Stefano di Pollonia cugino dell’imperadore, giovane virtudioso
e di grande autorità, avendo vaghezza di venire a Firenze per suo
diporto, e lasciato l’imperadore a Pisa, venne con sua compagnia di
giovani baroni a Firenze, ove fu ricevuto a grande onore; ed essendo il
gran siniscalco del Regno messer Niccola Acciaiuoli a Firenze, gli fece
compagnia festeggiando per la città. E avendo ricevuto onore di corredi
da’ signori e dal gran siniscalco, e compiaciutosi molto co’ cavalieri
e gentili uomini, e nella cittadinanza de’ Fiorentini e a più feste,
tornato a Pisa all’imperadore si lodò molto de’ Fiorentini, e magnificò
il nome della nostra città in molte cose, e dopo pochi dì cadde malato
in Pisa, e d’una continua febbre in sette dì passò di questa vita.
Dissesi ch’avea mangiato in Pisa d’un’anguilla, e che immantinente
ammalò, ma la continua più ch’altro il trasse a fine; della cui morte
fu gran danno, perocch’era barone di grande aspetto. Della morte di
costui molto si dolse l’imperadore, ma l’imperadrice vedendolo morire
così brevemente impaurì molto, e stimolava l’imperadore di ritornare
nella Magna, e molti baroni e cavalieri per la morte del duca Stefano
abbandonarono l’imperadore e tornaronsi in Alamagna, e lasciaronlo
con poca gente. E ’l sire della Lippa, uno dei maggiori signori di
Boemia, essendo malato a Pisa si fece conducere a Firenze, e giunto
nella città, e venuto a notizia de’ signori, di presente il feciono
albergare nel vescovado con tutta sua famiglia, che non v’era il
vescovo, e fornironlo di buone letta e di tutto ciò che a bene stare
gli bisognava, e ordinarongli i migliori medici della città alla
provvisione e consiglio della sua sanità, e continovo sera e mattina
gli faceano apparecchiare delle loro dilicate vivande e de’ loro fini
vini. E tanta fede aggiunta col suo piacere ebbe il nostro comune,
che di lunga malattia e quasi incurabile, non pensando potere campare
altrove, come fu piacere di Dio prese perfetta sanità nella città
di Firenze, e guarito, fu onorato di doni e d’altre cose dal nostro
comune. Per le quali cose fatto singulare amico del nostro comune e
de’ suoi cittadini, soggiornò nella città a suo diletto infino alla...,
tanto che fu tornato nella sua fortezza: poi ebbe dal comune i danari
che i Fiorentini gli aveano promessi per l’imperadore, come innanzi
racconteremo.

CAP. XXVI.
_Come fu coronato poeta maestro Zanobi da Strada._
Era in questi dì in Pisa il maestro Zanobi, nato del maestro Giovanni
da Strada del contado di Firenze; il padre insegnò grammatica a’
giovani di Firenze e a questo suo figliuolo, il quale fu di tanto
virtuoso ingegno, che morto il padre, e rimaso egli in età di
vent’anni, ritenne in suo capo la scuola del padre; e venne in tanta
fecondità di scienza, che senza udire altro dottore ammendò e passò
in grammatica la scienza del padre, e alla sua aggiunse chiara e
speculativa rettorica; e dilettandosi negli autori ne venne tanto
copioso, che in breve tempo d’anni esercitando la sua nobile industria
divenne tanto eccellente in poesia, che mosso l’imperadore alla gran
fama della sua virtù, e da messer Niccola Acciaiuoli di Firenze gran
siniscalco del reame di Cicilia, alla cui compagnia il detto maestro
Zanobi era venuto, vedute e intese delle sue magnifiche opere fatte
come grande poeta, volle che alla virtù dell’uomo s’aggiugnesse l’onore
della dignità, e pubblicandolo in chiaro poeta in pubblico parlamento,
con solenne festa il coronò dell’ottato alloro; e fu poeta coronato
e approvato dall’imperiale maestà del mese di maggio del detto anno
nella città di Pisa; e così coronato, accompagnato da tutti i baroni
dell’imperadore e da molti altri della città di Pisa, con grand’onore
celebrò la festa della sua coronazione. E nota, che in questi tempi
erano due eccellenti poeti coronati cittadini di Firenze, amendue di
fresca età; e l’altro ch’avea nome messer Francesco di ser Petraccolo,
onorevole e antico cittadino di Firenze, il cui nome e la cui fama
coronato nella città di Roma era di maggiore eccellenza, e maggiori e
più alte materie compose, e più, perocch’e’ vivette più lungamente, e
cominciò prima; ma le loro cose nella loro vita a pochi erano note, e
quanto ch’elle fossono dilettevoli a udire, le virtù teologhe a’ nostri
dì le fanno riputare a vili nel cospetto de’ savi.

CAP. XXVII.
_Come fu morto messer Francesco Castracani da’ figliuoli di Castruccio._
Sentendo i Pisani che messer Francesco Castracani di Lucca facea
venire gente delle sue terre di Garfagnana in favore della setta de’
raspanti di Pisa per muovere novità nella città, il feciono assapere
all’imperadore. L’imperadore gli mandò comandando che di presente si
dovesse partire della città di Pisa. E sostenuti più comandamenti senza
ubbidire, sentendo che ’l maliscalco colle masnade s’armavano contro a
lui, si partì tenendo la via verso Lucca; e partito lui, fu comandato
il simile a’ figliuoli di Castruccio Castracani, i quali dolendosi di
quello ch’avvenne a loro per messer Francesco, si partirono cavalcando
per quella medesima via, e la sera si trovarono ad albergo insieme, e
ivi mostrandosi di buona voglia albergarono insieme, e dormirono in uno
letto. La mattina seguendo loro viaggio vennono a uno maniero, il quale
Castruccio essendo signore di Lucca avea fatto edificare e acconciare
a suo diletto molto nobilemente, e di pochi dì innanzi l’imperadore
l’avea restituito a’ figliuoli di Castruccio; e trovandovisi presso,
pregarono messer Francesco che con loro insieme andasse a vicitare
il luogo, e risposto di farlo volentieri, uscirono di strada, e
andarono al maniero, e giunti là, i famigli si dierono attorno per i
giardini a loro diletto. Messer Arrigo e messer Valeriano di Castruccio
rimasono con messer Francesco, e col figliuolo e con un suo genero,
ed entrarono ne’ palagi per vedere l’edificio, il quale era bello, ma
molto guasto, perchè diciassette anni era stato disabitato; e sedendo
costoro in sulla sala del palagio, messer Arrigo s’accostò al fratello,
e dissegli: Ora abbiamo tempo; e andando messer Francesco guardando
l’edificio, messer Arrigo, essendogli poco addietro, di subito trasse
la spada, e non avvedendosene messer Francesco, gli diede nella gamba
un colpo grave e pericoloso. Messer Francesco sentendosi fedito,
volendosi rivolgere, chiamando traditore messer Arrigo, non potendosi
sostenere cadde, e messere Arrigo gli diè sù la testa un altro colpo
della spada che non lo lasciò rilevare: e morto messer Francesco, i due
fratelli corsono addosso al genero, e ivi senza arresto l’uccisono, e
’l figliuolo di messer Francesco lasciarono per morto; e rimontati a
cavallo seguirono loro viaggio, e tornaronsi in Lombardia; e questo
fu a dì 18 di maggio del detto anno: cosa detestabile per lo grande
tradimento mosso da invidia; ma per divino giudicio spesso avviene che
le tirannie prendono termine e fine per simiglianti modi.

CAP. XXVIII.
_Come i Fiorentini mandarono tre cittadini all’imperadore a sua
richiesta._
L’imperadore trovando l’animo de’ Pisani male contento per la voce
corsa, come detto è, ch’egli trattava di liberare Lucca, e avvedendosi
delle novità che cominciavano ad apparire in Pisa e in Siena, cominciò
a sospettare, e avendo fidanza nel comune di Firenze, il richiese
che gli mandasse tre confidenti suoi cittadini per averli al suo
consiglio. Il comune di presente gliel mandò, e da lui furono ricevuti
graziosamente. Ma poco si potè intendere o consigliare con loro, tante
sfrenate novità occorsono l’una appresso l’altra, che voleano più
operazione subita che consiglio, come seguendo appresso diviseremo.

CAP. XXIX.
_Come i Sanesi ebbono novità._
Il popolo minuto di Siena già avea cominciato a sperare nella signoria,
e per l’appetito di quella dall’una parte, e per paura e gelosia
dall’altra non potea acquetare; e già impaziente del loro signore, a
cui di tanta concordia s’erano sottoposti, a dì 18 di maggio del detto
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