Cronica di Matteo Villani, vol. 3 - 11

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coll’empito della sua prospera fortuna si mosse da Borsella co’ suoi
Fiamminghi, e andò a Villaforte, la quale come che molto fosse forte e
difendevole a battaglia, sentendo che Borsella s’era renduta, e che il
loro signore si fuggiva e non facea riparo, per non tentare maggiore
fortuna s’arrendè a’ comandamenti del conte, il quale la ricevette
benignamente. E la villa di Mellina, per cui era stato la cagione della
guerra, senza attendere che l’oste v’andasse s’arrenderono al conte,
e ricevettonlo per loro signore, e ordinaronsi per tutto a fare i suoi
comandamenti.

CAP. LXXXII.
_Come il conte di Fiandra ebbe tutto Brabante a suo comandamento._
Il duca di Brabante, vilmente abbattuto per la sua corrotta fede,
e poco amato perchè era Tedesco, avendo sentito come Borsella e
Villaforte aveano fatto i comandamenti del conte, non si fidò in
Loana nè in alcuna terra di Brabante, ma colla moglie, e colla sua
famiglia, e co’ suoi arnesi s’uscì di tutta la provincia di Brabante
e ridussesi in Alamagna, abbandonando così ricco e nobile paese per
sua codardia. Il conte sentendo partito il duca, crebbe in ardire
co’ suoi Fiamminghi, e dirizzossi verso Anversa: quelli d’Anversa
feciono vista di volersi difendere: il conte non volle quivi fare sua
pruova, e lasciata Anversa, se n’andò a Loano, affrettandosi prima che
potessono mettere consiglio alla loro difesa. Quelli di Loano vedendosi
abbandonati dal duca loro signore, e male provveduti alla subita
guerra, e che l’altre buone ville di Brabante s’erano arrendute al
conte, e che da lui erano bene trattati, per non ricevere il guasto nè
maggiore danno s’arrenderono al conte, e con pace il misono nella città
con gran festa ed onore; ed entrato in Loano, incontanente Anversa,
e tutte le buone ville e castella della provincia di Brabante, si
misono all’ubbidienza del conte e feciono i suoi comandamenti; e così
in pochi giorni del rimanente del mese d’agosto del detto anno, dopo
la sconfitta de’ Brabanzoni, fu il conte di Fiandra messer Lodovico
signore a cheto di tutta la ducea di Brabante; e dato ordine a loro
reggimento, e fatti uficiali in tutte le terre, e messovi quella
guardia ch’a lui parve a conservagione del paese, e fornito Mellina con
più sua fermezza e guardia, perchè era propria villa di suo dominio,
con allegra e piena vittoria, di letizia e non di sangue, co’ suoi
Fiamminghi si tornò in Fiandra, accresciuto altamente il suo onore e la
fama de’ suoi Fiamminghi.

CAP. LXXXIII.
_Perchè si mosse guerra dagli Spagnuoli a’ Catalani._
Era in questi dì il re Petro di Castella giovane, e più pieno di
dissolute volontà che d’oneste virtù, e molto era stemperato nella
concupiscenza delle femmine; e dilettandosi con una sopra l’altre, non
bastandogli le grandi camere e’ nobili verzieri a suo diletto, si mise
a diporto con lei in mare in su un legno armato non di gran difesa;
e andandosi sollazzando in alto mare, una galea armata di Catalani
passava per quella marina, e vedendo il legno armato, si dirizzò a lui,
e domandava di cui fosse il legno e la mercatanzia che su v’era carica:
il re per isdegno non volea che risposta si facesse; per la qual cosa
i Catalani più si sforzavano di volerlo sapere, e non potendone avere
risposta, s’appressarono al legno, e cominciarono a saettare; e vedendo
da presso che gli uomini erano Spagnuoli, senza mettersi più innanzi si
partirono, e seguirono loro viaggio. Il re rimase di questo con grande
sdegno; e poco appresso avvenne, che in Sibilia arrivarono galee armate
di Catalani, i quali aveano guerra co’ Genovesi, e trovando nel porto
alquanti mercatanti di Genova, li presono, e raddomandandoli il re di
Spagna, non li vollono rendere. E questa cagione più giusta infiammò
più l’animo del re per modo, che immantinente per mare e per terra
cominciò a’ Catalani nuova guerra; e incontanente fece armare dodici
galee, e mandò scorrendo le marine fino nel porto di Maiolica, ardendo
e mettendo in fuoco quanti legni di Catalani poterono trovare per tutta
la riviera di Catalogna. E in questi dì, le quindici galee bandeggiate
di Genova per la presura di Tripoli, avendo per uscire di bando a
guerreggiare tre mesi i Catalani, feciono in Catalogna e nell’isola
di Maiolica danno assai. E ’l re di Castella per terra con gran forza
di suoi cavalieri venuto alle frontiere di Catalogna improvviso a’
Catalani, fece loro d’arsioni e di prede danno grande. Per la qual
cosa d’ogni parte s’apparecchiò grande sforzo di gente d’arme, e catuno
richiese gli amici per conducersi a battaglia, come seguendo appresso
nel suo tempo racconteremo.

CAP. LXXXIV.
_Di gran tremuoti furono in Ispagna._
In questo anno 1356 all’uscita del mese di settembre, e alquanti dì
all’entrata d’ottobre, furono in Ispagna grandissimi terremuoti, i
quali lasciarono in Cordova e in Sibilia grandi e gravi ruine di molti
dificii in quelle due grandi città, e nelle loro circustanze, nelle
quali perirono uomini, e femmine, e fanciulli in grandissimo numero,
facendo sepoltura delle loro case. E questi medesimi tremuoti feciono
nella Magna grandi fracassi, che quasi tutta Basola, e un’altra città
feciono rovinare con grande mortalità de’ loro abitanti. In Toscana in
questi medesimi dì si sentirono, ma piccoli e senza alcuno danno.


LIBRO SETTIMO

CAPITOLO PRIMO.
_Il Prologo._
Chi potrebbe con intera mente nel futuro ricordare i falli, e gli
orribili peccati che si commettono per la sfrenata licenza de’ principi
e de’ signori mondani (lasciando le minori e le mezzane cose che
per loro spesso senza giustizia si fanno) se la brevità del tempo
dell’umana vita non togliesse l’esperienza, che per giustizia si
dimostra nel mondo? Si maravigliano eziandio i savi quando avvenire
veggono traboccamenti di potentissimi re e d’altri grandi signori,
de’ quali avendo memoria de’ commessi mali non ammendati per tempo
conceduto dalla divina grazia, ma piuttosto aggravati da que’ medesimi
signori e da’ loro successori per disordinata presunzione, non
recherebbono a maraviglia quello ch’avviene, ma a misericordievole
gastigamento dalla divina mansuetudine e giustizia, che per non perdere
l’anime eternalmente, temporalmente percuote e flagella, acciocchè
per le loro rovine, e pe’ loro trabocchevoli casi si riconoscano,
e correggano e ammendino. E apparecchiandosi al nostro trattato
il cominciamento del settimo libro, alcuna particella di quello
torneremo addietro, per dimostrare esempio delle cose qui narrate,
per la successione che seguita a raccontare del grave caso occorso al
re Filippo di Francia e al suo reame, e appresso al re Giovanni suo
figliuolo.

CAP. II.
_Come il re di Francia prese la croce per fare il passaggio._
Non è nascoso in antica memoria a’ viventi del nostro tempo, che per
l’operazioni inique e crudeli, nate da invidia e da somma avarizia de’
reali di Francia dello stocco anticato nella successione reale, onde
fu il re Filippo dinominato il Bello, coll’aggiunta della sfrenata
libidine delle loro donne, che a Dio piacque di porre termine a
quello lignaggio. Rimasene sola la reina d’Inghilterra madre del
valoroso re Adoardo di quell’isola, per la cui successione il detto
re d’Inghilterra fece la guerra co’ Franceschi, come per lo nostro
anticessore nella sua cronica, e appresso per noi in questa è in gran
parte raccontato. Essendo venuti meno tutti i reali, messer Filippo,
figliuolo che fu di messer Carlo di Valois detto Carlo Senza terra,
prese la signoria, e fecesi coronare re di Francia. E trovandosi re
di così grande ricco e potentissimo reame, e senza alcuna guerra, e
trovandosi in grande amore del sommo pontefice e de’ cardinali di santa
Chiesa, il detto re Filippo, simulando singulare affezione di volere
imprendere e fare il santo passaggio d’oltremare per acquistare la
terra santa, di suo movimento prese con molti baroni di suo reame la
croce in pubblico parlamento, e sommosse a pigliarla altri re, prenzi,
duchi e baroni, conti e gran signori, e per esempio di loro molti
altri fedeli cristiani presono la croce con animo di seguire il detto
re; e per tutta la cristianità, ed eziandio tra’ saracini, si divolgò
la novella di questo passaggio; e dando vista il detto re di grande
apparecchiamento, avvenne, che negli anni 1334 il detto re di Francia
mandò a corte di Roma a Avignone per suoi ambasciadori l’arcivescovo di
Ruen con altri grandi baroni a papa Giovanni di Caorsa vigesimosecondo
e a’ suoi cardinali, il quale arcivescovo fu poi papa Clemente sesto,
e in pubblico concestoro avendo fatto l’arcivescovo predetto un bello
e alto sermone sopra la materia del santo passaggio, e confortato
il sommo pontefice, e’ prelati di santa Chiesa, e tutto il popolo
cristiano che si manifestassono a dare consiglio e aiuto al serenissimo
re di Francia, il quale si movea per zelo della fede di Cristo a così
alta impresa, per seguire e fare e per accrescere la sicurtà a’ fedeli
cristiani, giurò nell’udienza di tutti nella maestà divina, al santo
padre, e alla Chiesa di Roma, e a tutta la cristianità, nell’anima
del detto re di Francia, che l’agosto prossimamente seguente, gli anni
1335, e’ sarebbe uscito fuori del suo reame in via colla sua potenza,
e con gli altri principi del suo reame crociati per andare oltremare al
santo passaggio; e per questo impetrò da santa Chiesa le decime del suo
reame per molti anni, e altre promissioni del tesoro di santa Chiesa, e
quante altre cose domandò per parte del detto re al papa di tutte ebbe
da lui piena grazia; e io scrittore, fui presente nel detto consistoro,
e udii fare il saramento, come detto a verno.

CAP. III.
_Le parole disse frate Andrea d’Antiochia al re di Francia._
Essendo divolgata la novella di questo passaggio in Egitto e in Soria,
i cristiani del paese che sono sottoposti al giogo de’ saracini,
ed eziandio i viandanti mercatanti ch’allora erano in quelli paesi,
ricevettono gravi oppressioni e diversi tormenti, e molti ne furono
morti da’ signori saracini, e tolto il loro avere sotto false cagioni
d’essere trattatori del passaggio; per la qual cosa un valente
religioso italiano, il quale era chiamato frate Andrea d’Antiochia,
in fervore del suo animo dolendosi dell’ingiuria che riceveano
gl’innocenti cristiani, si mosse di Soria e venne a corte di Roma a
Avignone; e là giunse, quando il re Filippo di Francia era tornato
di pellegrinaggio da Marsilia a Avignone, passato di lungo il termine
della sua promessa, e non essendo di ciò nè dal papa nè da’ cardinali
ripreso; e già avea presa la licenza dal santo padre, e avea valicato
il Rodano, e desinato nel nobile ostiere di sant’Andrea, il quale
avea fatto edificare messer Napoleone degli Orsini di Roma a fine di
ricevervi il re di Francia e gli altri reali, il re era già montato
a cavallo per prendere suo cammino verso Parigi, il valoroso frate
Andrea, avendo accattato dagli scudieri de’ cardinali che l’atassono
conducere al freno del cavallo del re, com’egli uscì dell’ostiere così
li fu condotto al freno. Il religioso avea la barba lunga e canuta, e
parea di santo aspetto, e per la reverenza di lui il re si sostenne,
e frate Andrea disse: Se’ tu quello Filippo re di Francia, c’hai
promesso a Dio e a santa Chiesa d’andare colla tua potenza a trarre
delle mani de’ perfidi saracini la terra, dove Cristo nostro salvatore
volle spandere il suo immaculato sangue per la nostra redenzione? Il
re rispuose di sì; allora il venerabile religioso gli disse: Se tu
questo hai mosso, e intendi di seguitare con pura intenzione e fede,
io prego quel Cristo benedetto che per noi volle in quella terra
santa ricevere passione, che dirizzi i tuoi andamenti al fine di piena
vittoria, e intera prosperità di te e del tuo esercito, e che ti presti
in tutte le cose il suo aiuto e la sua benedizione, e t’accresca ne’
beni spirituali e temporali colla sua grazia, sicchè tu sii colui,
che colla tua vittoria levi l’obbrobrio del popolo cristiano, e
abbatti l’errore dell’iniquo e perfido Maometto, e purghi e mondi il
venerabile luogo di tutte l’abominazioni degl’infedeli, in tua per
Cristo sempiterna gloria. Ma se tu questo hai cominciato e pubblicato,
la qual cosa resulta in grave tormento e morte de’ cristiani che in
quel paese conversano, e non hai l’animo perfetto con Dio a questa
impresa seguitare, e la santa Chiesa cattolica da te è ingannata, sopra
te e sopra la tua casa, e i tuoi discendenti e ’l tuo reame venga l’ira
della divina indegnazione, e dimostri contro a te e’ tuoi successori,
e in evidenza de’ cristiani, il flagello della divina giustizia, e
contro a te gridi a Dio il sangue degl’innocenti cristiani, già sparto
perla boce di questo passaggio. Il re turbato nell’animo di questa
maladizione disse al religioso: Venite appresso di noi; e frate Andrea
rispose: Se voi andaste verso la terra di promissione in levante, io
v’anderei davanti; ma perchè vostro viaggio è in ponente, vi lascerò
andare, e io tornerò a fare penitenza de’ miei peccati in quella terra,
che voi avete promesso a Dio di trarre delle mani de’ cani saracini.

CAP. IV.
_Molte laide cose fece il re di Francia._
Da questo tempo innanzi cominciarono le commozioni del re d’Inghilterra
già narrate per lo nostro antecessore; e prima il detto re di Francia
vedendo sommuovere gl’Inghilesi contro a sè, con grande armata si mise
in arme contro a loro, e di trentadue migliaia d’uomini che reggeano
il suo navilio, perduto il navilio, ventotto migliaia d’uomini di
sua gente furono morti dagl’Inghilesi. E poi appresso venuto il
re d’Inghilterra in Francia con piccolo numero di gente, rispetto
della moltitudine de’ cavalieri e di sergenti ch’avea seco il re di
Francia a seguitarlo, fu sconfitto, come narrato abbiamo addietro; e
campata la sua persona con pochi per grazia della notte, e tornato a
Parigi, avendosi veduto nel giudicio di Dio, non ricorse alla virtù
dell’umiltà, ma aggiugnendo male a male, per avere moneta assai, in
cui era la sua fidanza, licenziò e sicurò tutti gli usurai del suo
reame, dando loro licenza di prestare pubblicamente, pagando alla
corte cinque per cento di quello che catuno era tassato dagli uficiali
del re ogni anno. E aggiugnendo alla sua avarizia, fece battere nuova
moneta d’oro e d’argento per tutto suo reame di molto meno valuta che
quella che prima correa, e subitamente la fece correre per buona, e
la buona fece disfare, in gran danno e confusione de’ suoi baroni, e
di tutti i paesani e de’ mercatanti ch’aveano a ricevere mercatanzie
nel suo reame; e dopo questo, con ordine dato a’ suoi ministri, per
tutto il reame in una notte fece prendere in persona e arrestare
l’avere a tutti gli usurieri del reame; e aggiugnendo male a male,
fece gridare per tutto, che chi avesse accattato sopra pegno l’andasse
a riscuotere per lo capitale, stando del capitale al suo saramento,
e così dell’accattato a carta; per la qual cosa coloro ch’aveano
accattato, per la larga licenza, vinti da avarizia, si spergiurarono,
e pochi furono secondo la fama che stessono in fede; e tutto ciò che
pagavano di capitale s’appropriò alla corte, che fu grandissimo tesoro,
in disertagione di molte famiglie, ch’ogni cosa s’appropriò alla corte,
dicendo, ch’aveano forfatto di aver messi più danari a usura che
non doveano. Appresso, dopo la sua affrettata morte per disordinata
lussuria, essendo di tempo, e dilettandosi nella sua giovane e bella
donna, seguitarono più gravi persecuzioni di guerra nel suo reame, in
fine il re Giovanni suo figliuolo e uno de’ suoi figliuoli furono presi
nella grande battaglia ch’appresso racconteremo; conchiudendo, che
come a inganno fu presa la croce, e promesso il santo passaggio per lo
re di Francia, così nel suo reame fu passato per divino giudicio da’
suoi nemici, e com’egli volle arricchire il suo reame indebitamente
de’ beni di santa Chiesa, e degli altri stranieri mercatanti e usurieri
del suo reame, così per giusta retribuzione impoverì il re, e il reame
consumato da’ soldi e dalle prede; e volendosi per ambizione esaltare
sopra gli altri signori della cristianità, veduti furono entrare in
servaggio di prigione, vinti maravigliosamente da più impotenti di
loro, secondo la forza e ’l numero della gente.

CAP. V.
_Come il re di Francia uscì di Parigi con suo sforzo, e andò in
Normandia._
Seguita, tornando a nostra materia, che ’l re di Francia vedendo
assalire il suo reame ora dal conte di Lancastro con quelli di Navarra,
ora dal duca di Guales coll’aiuto de’ Guasconi, e che per soperchia
baldanza aveano preso sopra lui e sopra la gente francesca; vedendo
al presente il conte di Lancastro e messer Filippo di Navarra ridotti
in Normandia a Bertoglio, come poco innanzi abbiamo narrato, si
propose in animo di perseguitarli, e di tutto il reame raunò a Parigi
i suoi baroni e tutto il fiore della sua cavalleria, ed eziandio i
ricchi borgesi di Parigi e dell’altre buone ville, i quali tutti si
sforzarono di comparire bene in arme per accompagnare la persona del
re; il quale era già ito in Normandia, e fatto fuggire di notte il
conte di Lancastro e messer Filippo di Navarra ch’erano in Normandia a
Bertoglio, e il re, come detto è poco addietro, avea vinto il castello,
e cacciati i nemici del paese. E stando in Normandia, i baroni, e’
cavalieri e’ borgesi del reame che smossi erano traevano d’ogni parte a
lui, e all’entrata del mese di settembre si trovò più di quindicimila
armadure di ferro ben montati e bene acconci a’ servigi del re, e
con esso gran novero di sergenti in arme. E vedendosi aver vinto il
castello, e avviliti i nemici, e cresciuta la sua forza, prese speranza
di cacciare gl’Inghilesi al tutto del suo reame innanzi che ritornasse
a Parigi. E con tutta questa cavalleria stava alle frontiere de’ suoi
nemici per non lasciarli scorrere per tutte le sue terre al modo usato,
e per prendere sopra loro suo vantaggio, stando apparecchiato alla
fronte de’ suoi avversari.

CAP. VI.
_Quello faceva il prenze di Guales._
Il valente duca di Cornovaglia prenze di Guales, primogenito del re
d’Inghilterra, il quale avea in sua parte per guereggiare tremila buoni
cavalieri bene montati, tra Inghilesi e Guasconi, e da duemila arceri
inghilesi a cavallo, e altri masnadieri a piè da quattromila tra con
archi e altre armadure, tutti bene capitanati; avendo sentito che ’l
conte di Lancastro colla sua parte di gente d’arme avea cavalcata
la Normandia ed entrato nel reame presso a Parigi a sedici leghe,
parendogli avere vergogna se non facesse dalla sua parte, si mosse di
Guascogna e vennesene in Berrì, ardendo e divorando con ferro e con
fuoco ciò che innanzi gli si parava. E già avea fatta smisurata preda,
perocchè assai ville di cinquecento e di mille fuocora, e di più e di
meno, avea vinte, e rubate e arse senza trovare contasto; seguitando
appresso avea costeggiato il fiume dell’Era infino ad Orliens, e
fattole intorno grave danno, passò a Pettieri; e trovandosi presso alla
grande oste del re di Francia, fu costretto di fermarsi ivi tra le due
fiumora coll’oste e colla preda che raccolta avea, che di quel luogo,
avendo di presso la gente del re di Francia ch’andava contro a lui, a
salvamento non si potea partire nè con suo onore.

CAP. VII.
_Come il re di Francia pose il campo presso al prenze._
Il re Giovanni di Francia, ch’era presso colla sua grande oste, e
baldanzoso per lo duca di Lancastro che l’avea fuggito, e per la
vittoria del castello, sentendo il duca ristretto tra le due fiumare,
che l’una tramezzava a volere andare a lui, di presente si mosse con
tutta la sua gente e appressossi a’ nemici, e pose il campo suo di
costa a Berrì, e’ nemici erano dall’altra parte, la fiumara in mezzo,
e’ ponti erano i più rotti, e alcuno ve n’avea rimaso in guardia
de’ Franceschi: il duca non potea passare innanzi a prendere suo
vantaggio di terreno, e ’l tornare addietro di lungo viaggio, per
lo stretto de’ loro nemici, e avendo chi gli perseguitasse, non se
ne potea pensare alcuna salute, e però la necessità gli accrescea in
quel luogo l’ardire. Il coraggioso duca di Guales vedendosi a questo
stretto partito, non dimostrò a’ suoi segno d’alcuna paura nè viltà,
ma francamente provvide il suo campo, e mostrossi a tutta sua gente,
confortandoli che non dovessono temere di quella gente cui eglino tante
volte avevano fatta ricredente, e ammaestrandoli di buona e sollecita
guardia il dì e la notte, dicendo, come tosto avrebbono in loro aiuto
il valente conte di Lancastro con tutta la sua gran forza. Gl’Inghilesi
e’ Guasconi presono gran conforto della valentria e buona voglia del
loro signore, e intesono a fortificare loro campo, e a fare buona e
sollecita guardia il dì e la notte. E questo fu a dì 17 di settembre
anno detto.

CAP. VIII.
_Due conti del re di Francia rimasono presi da un aguato._
Saputo che ’l re ebbe la condizione de’ suoi nemici, e come il loro
campo stava, segretamente con alquanti de’ più confidenti baroni prese
consiglio di valicare alla mezza notte, venendo il sabato, per un ponte
della riviera, che gli dava più certo il cammino ad aggiugnersi co’
nemici, e più atto il cammino alla gran gente che l’avea a seguitare.
Il duca di Guales, o che sapesse il segreto del re, o che per avviso
di guerra avesse che così dovesse seguire, la notte medesima venne
con sua gente eletta, e misesi in un bosco presso al cammino che ’l re
dovea fare, e veniagli fatto d’avere il re con buona parte della sua
compagnia per lo presto avviso. Il re si mosse con duemila cavalieri,
e con quelli baroni a cui s’era manifestato: e appressandosi al passo
del bosco, mandò innanzi dieci cavalieri sperti e bene montati a
provvedere se aguato vi fosse. I detti cavalieri scopersono il guato,
e di presente ritornarono al re, il quale conoscendo il pericolo prese
una volta, e dilungossi da quel passo, e girò verso Pittieri, e valicò
a salvamento con tutta sua cavalleria: ma addietro non mandò all’altra
sua gente che ’l seguiva ad avvisarli di quello aguato, onde avvenne,
che seguitandolo il conte d’Alzurro, e quello di Clugnì con altri
baroni e cavalieri, avendo sentita la sua subita partita, non però con
tutta l’oste, ma colle loro masnade facendo la via che dovea fare il re
del bosco, credendo che per quella fosse andato, gl’Inghilesi maestri
di baratti avendo mandati cavalieri de’ loro a ingegno che tornassono
la notte per quel cammino, e dimostrandosi essere de’ Franceschi che
seguissono il re, come se per quel cammino fosse passato, e scorgendo i
conti questi cavalieri, e facendoli domandare, risposono in Francesco
che seguivano monsignor lo re, e però con più sicurtà si misono a
cammino; ed entrati nell’aguato senza ordine, essendo d’ogni parte
assaliti, non v’ebbe resistenza altro che del fuggire e del campare chi
potea; il conte d’Alzurro valente barone, e quello di Clugnì rimasono
presi con quattrocento compagni di buona gente, e menati prigioni nel
campo, il duca e tutta la sua oste ne presono assai conforto: e questo
fu il sabato a dì 17 di settembre del detto anno.

CAP. IX.
_Puose il re di Francia il campo suo presso agl’Inghilesi._
Valicato il re di Francia con duemila cavalieri a Pettieri, e scoperto
l’aguato degl’Inghilesi, come detto abbiamo, di presente tutta l’altra
oste de’ Franceschi seguirono il loro re per lo sicuro cammino, e
giunti a lui, si trovarono più di quattordicimila cavalieri e molti
sergenti, e non v’era però tutta la sua forza, che al continovo vi
crescea gente a cavallo e a piè, sperando avere degl’Inghilesi buon
mercato; e misonsi a campo presso al campo del duca a meno di due leghe
parigine, in parte che gl’Inghilesi non si poteano allargare; ed erano
per venire in pochi dì in gran soffratta di vittuaglia, e ancora erano
condotti in parte, che ’l conte di Lancastro non li potea venire a
soccorrere per lo campo preso per i Franceschi, avvegnachè troppo era
di lungi a quel paese; per la qual cosa al re di Francia pareva avere
la vittoria in mano, e così era per ragione di guerra, ove fortuna
e mala provvedenza non avesse mutata la condizione del fatto, come
seguendo immantinente racconteremo.

CAP. X.
_I legati cercarono accordo tra’ due signori._
Come addietro avemo narrato, in questa guerra la Chiesa di Roma
continovo tenea suoi legati che trattassono la concordia e la pace
tra’ due re, e al presente era nella compagnia del re il cardinale
di Bologna suo confidente, e il cardinale di Pelagorga confidente
del duca e degl’Inghilesi, i quali continovo cercavano di recarli a
pace; e vedendo la cosa a questo stremo condotta e ultimo partito,
acciocchè tra questi due signori de’ maggiori della cristianità non
si venisse a mortale battaglia, di concordia furono con lo re di
Francia, mostrandoli quanto erano vari e non sicuri gli uscimenti
delle battaglie, pregandolo, che dove con suo onore potesse venire a
buona pace, non volesse ricercare per vantaggio ch’avere li paresse
il dubbioso fine delle battaglie. Il re diede udienza al savio
consiglio; e però incontanente il cardinale di Pelagorga cavalcò al
duca nel suo campo; e ricevuto da lui graziosamente, con savie parole
gli mostrò il pericolo dov’era egli e tutta la sua oste, e ricordogli
le grandi ingiurie per lo suo padre, e per lo suo zio, e per lui
fatte alla corona di Francia, e conchiudendo disse, che acciocchè Dio
non giudicasse la sua causa per disordinata presunzione e superbia
in cotanto pericolo quanto egli era di sè e di tutta la sua gente,
ch’e’ volea ch’e’ si dichinasse a volere restituire e rendere al
re di Francia il suo onore e le terre ch’avea occupate delle sue, e
l’ammenda del danno che fatto gli avea nel suo reame, acciocchè buona
e ferma pace si fermasse tra loro. Il giovane duca, conoscendo il
forte caso dove la fortuna l’avea condotto, e avendo reverenza a santa
Chiesa, avvegnaché ’l suo animo fosse fermo e sicuro di grande sdegno,
acconsentì innanzi di pigliare concordia, che tentare la pericolosa
parte della battaglia; e data speranza al legato, il fece ritornare al
re di Francia, per ordinare i patti e le convenenze della concordia.

CAP. XI.
_I patti che si trattarono e quasi conchiusono._
Tornato il cardinale al re di Francia, il re fece raunare il suo
consiglio, per fare assentire a tutte l’offerte che ’l cardinale avea
portate al re da parte del duca per avere buona pace; e l’offerta
era, ch’e’ volea restituire al re di Francia tutte le terre prese per
gl’Inghilesi e’ Guasconi nel suo reame ne’ tre anni prossimi passati,
e che renderebbe liberi tutti i prigioni, e che per ammenda de’ danni
fatti darebbe al re di Francia dugento migliaia di nobili, che valeano
cinquecento migliaia di fiorini d’oro; e domandava per fermezza di
buona pace per moglie la figliuola del re di Francia, quando a lui
piacesse, e per dote la duchea d’Anghiemem facendosi suo uomo, e a
questo non si fermava oltre alla volontà del detto re; e in preghiera
domandava, che ’l re di Navarra fosse lasciato e restituito nel suo
reame. A queste cose il re e il consiglio s’acconciavano assai bene,
e conosceano senza pericolo il loro vantaggio. È vero che queste cose
non si poteano fermare senza la volontà del re Adoardo d’Inghilterra
suo padre, ma il duca impromettea in termine di pochi dì fargliele
attenere e confermare; e andato e rivenuto più volte il cardinali per
recare a fine di buona pace questo trattato, e avendo ogni libertà dal
duca che domandare si seppe, e che per lui si potea fare, avendo che la
concordia fosse fatta, ritornò al re di Francia; ma la cosa ebbe tutto
altro fine che non si sperava, come incontanente racconteremo.

CAP. XII.
_Come il vescovo di Celona sturbò la pace._
Essendo venuto con pieno mandato il cardinale al re di Francia, il re
avendo veduto per esperienza i pericoli della battaglia, e parendogli
venire a convenevole ammenda dell’ingiuria ricevuta, si disponea alla
pace, e per darle compimento, fece raunare i baroni e ’l suo consiglio:
tra gli altri quegli in cui il consiglio del re più si posava per piena
confidanza era il vescovo di Celona; costui udite le convenenze e’
patti della pace raccontati per lo cardinale di Pelagorga, e come il
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