Cronica di Matteo Villani, vol. 3 - 15

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innanzi che la compagnia si partisse, per dare speranza agli amici,
e raffrenare le imprese del legato, mandò in sul Modenese duemila
barbute della sua propria cavalleria, e ivi si stavano senza fare
guerra, tenendo in sospetto i Lombardi e ’l legato. In questo tempo il
legato si studiava di strignere e forte quelli della murata di Cesena,
dando loro il dì e la notte gravi assalti, e rittivi più trabocchi,
gli fracassava d’ogni parte; e oltre a ciò, tentava con trattati e con
spendio d’avere la murata innanzi che la compagnia venisse. Di questo
nacque, che madonna Già avendo alcuno sentore, che senza sua saputa
l’antico amico del capitano, il quale era in sua compagnia, Sgariglino,
trattava alcuno accordo col legato per salvezza di tutti gli assediati,
di presente il fece prendere e tagliargli la testa, del mese di maggio
anno detto. Ella sola rimase guidatore della guerra e capitana de’
soldati, e il dì e la notte coll’arme indosso difendea la murata dagli
assalti della gente del legato sì virtuosamente, e con così ardito e
fiero animo, che gli amici e’ nemici fortemente la ridottavano, non
meno che se la persona del capitano fosse presente.

CAP. LXV.
_Come il conte d’Armignacca da Tolasana per gravezze fu cacciato._
Di questo mese di maggio, essendo venuto il conte d’Armignacca capitano
di quelli dei reame di Francia di Linguadoca, ed essendo venuto alla
città di Tolosa, e trattando di fare gravezze per accogliere danari
per la comune bisogna della guerra, il popolo si levò a romore e furore
contro al conte, dicendo, ch’egli era sturbatore della pace, e voleali
mettere in disusate gravezze; e corsono al palagio ov’egli abitava,
e non potendovi entrare per forza, l’assediarono, e cominciarono
ad affocare le porte. E soprastando la difesa, i gentili uomini di
Tolosana si misono in mezzo, e feciono promettere e giurare al conte,
che non renderebbe mal merito al popolo di Tolosa di ciò ch’aveva fatto
contro a lui, e che non farebbe alcuna gravezza alla villa. E fatti i
patti, il conte s’assicurò nelle mani de’ gentili uomini: e quetato il
popolo, sano e salvo il condussono in suo paese colla sua gente.

CAP. LXVI.
_Conta dell’onore fatto al re di Francia in Inghilterra._
Avendo il duca di Guales e gli altri baroni d’Inghilterra condotto
il re di Francia, e ’l figliuolo, e gli altri baroni presi nella
battaglia, nell’isola d’Inghilterra, feciono assapere al re Adoardo
la loro venuta. Il re di presente fece assembrare in Londra di tutta
l’isola baroni, e cavalieri d’arme, e gran borgesi per volere fare
singulare festa in onore del re di Francia per la sua venuta; e fece
ch’e’ cavalieri si vestissono d’assisa, e li scudieri e’ borgesi,
e per piacere al loro re catuno si sforzò di comparire orrevole e
bello; e ordinato fu che tutti andassono incontro al re di Francia,
e facessongli reverenza, e onore, e compagnia, e ’l re Adoardo in
persona vestito d’assisa, con alquanti de’ suoi più alti baroni, avendo
ordinata sua caccia a una foresta in sul cammino fuori di Londra,
si mise là co’ detti suoi baroni; e mandato innanzi incontro al re
di Francia tutta la sopraddetta cavalleria, com’egli s’approssimò
alla foresta, il re d’Inghilterra uscito dalla foresta per traverso
s’aggiunse col re di Francia in sul cammino, e avvallato il cappuccio,
inchinatolo con reverenza, gli disse salutandolo: Bel caro cugino,
voi siate il ben venuto nell’isola d’Inghilterra. E ’l re avvallato il
suo cappuccio gli rispose, che ben foss’egli trovato. E appresso il re
d’Inghilterra l’invitò alla caccia, ed egli lo merciò dicendo che non
era tempo: e ’l re disse a lui: Voi potete e a caccia e riviera ogni
vostro diporto prendere nell’isola. Il re di Francia glie ne rendè
grazie. E detto, addio bel cugino, si ritornò nella foresta alla sua
caccia, e ’l re di Francia con tutta la compagnia degl’Inghilesi con
gran festa fu condotto nella città di Londra, essendo montato in sul
maggiore destriere dell’isola spagnuolo adorno realmente, e guidato
da’ baroni al freno e alla sella, con dimostramento di grande onore fu
guidato per tutte le buone vie della città, ordinate e parate a quello
reale servigio, acciocchè tutti gl’Inghilesi piccoli e grandi, donne
e fanciulli il potessono vedere. E con questa solennità fu condotto
fuori della terra all’abitazione reale; e ivi apparecchiata la desinea
con magnifico paramento d’oro, e d’arnesi, e di argento, e di nobili
vivande, fu ricevuto e servito alla mensa realmente, e tutti gli
altri baroni, e il figliuolo del re, ch’erano prigioni, furono onorati
conseguentemente in questa giornata, che fu a dì 24 di maggio del detto
anno. Per questa singolare allegrezza e festa si diede più piena fede
che la pace fosse ferma e fatta; ma chi vuole riguardare la verità del
fatto, conoscerà in questo processo accresciuta la miseria dell’uno re
e esaltata la pompa dell’altro, e quello che si nascose nella simulata
festa si manifestò appresso ne’ fatti che ne seguirono, come seguendo,
ne’ tempi racconteremo.

CAP. LXVII.
_Trattato tenuto per li Fiorentini in accordare il capitano di Forlì
con il legato._
In questi medesimi dì, vedendo i Fiorentini la durezza del capitano
di Forlì, e temendo che l’avvenimento della compagnia e d’altra nuova
gente d’arme in Romagna non rimbalzasse in loro dannaggio, mandarono
ambasciadori allegato, i quali voleano essere mezzani a trovare accordo
e pace intra lui e ’l capitano di Forlì; e intesisi col legato, il
trovarono grazioso per amore de’ Fiorentini alla concordia, e con
buona speranza andarono al capitano di Forlì, il quale li ricevette
onorevolmente; e udita l’ambasciata, ringraziò gli ambasciadori, e
disse ch’era contento d’avere pace col legato e con santa Chiesa,
rimanendo egli signore di Forlì, e di Cesena, e di tutte le terre che
tenea, volendole riconoscere da santa Chiesa, e per omaggio pagare ogni
anno quel censo alla Chiesa che fosse convenevole; per altro modo non
voleva che se ne parlasse, e a questo era fermo; e per questo modo si
tornarono a Firenze senza frutto alcuno.

CAP. LXVIII.
_Come il legato ebbe la murata di Cesena._
Trapassate le parole del trattato, il legato, ch’avea l’animo sollecito
a vincere sua punga, innanzi che ’l soccorso giugnesse a’ nemici,
a dì 28 di maggio anno detto, ordinata sua gente e molti dificii da
combattere la murata, fece d’ogni parte cominciare la battaglia aspra
e forte, e avendo provveduto alcuna parte del muro si poteva per cave
abbattere, il fece rovinare, e que’ dentro subitamente ripararono
con steccati; e aggravando la battaglia d’ogni parte, rinfrescandosi
spesso per quelli di fuori nuovi combattitori, e dove il muro era
caduto, quivi senza arresto si continova va sì aspra battaglia, che
quelli ch’erano alla difesa, per lo soperchio affanno di loro corpi,
senza potere avere rinfrescamento, conobbono di non potere sostenere, e
l’altre parti erano ancora sì strette da’ combattitori che non poteano
soccorrere alle più deboli parti; e vedendosi non potere più resistere,
benchè assai avessono morti e fediti e magagnati de’ loro avversari,
diedono segno tra loro, e abbandonarono la murata, e ridussonsi nella
rocca, e la gente del legato di presente vittoriosamente la si prese.
Madonna Cia avendo fatto maravigliosamente d’arme e di capitaneria alla
difesa, si ridusse con quattrocento tra cavalieri e masnadieri nella
rocca, acconci a’ comandamenti della donna per singulare amore infino
alla morte.

CAP. LXIX.
_De’ fatti di madonna Cia donna del capitano di Forlì._
Racchiusa madonna Cia nella rocca con Sinibaldo suo giovane figliuolo,
e con due suoi nipoti piccoli fanciulli, e con una fanciulla grande da
marito, e con due figliuole di Gentile da Mogliano e cinque damigelle,
ed essendo cinta stretta d’assedio, e combattuta da otto dificii che
continovo gittavano dentro maravigliose pietre, non avendo sentimento
d’alcuno soccorso, e sapendo che le mura della rocca e delle torri
di quella per li nemici si cavavano, maravigliosamente si teneva,
atando e confortando i suoi alla difesa. E stando in questa durezza,
Vanni da Susinana degli Ubaldini suo padre, conoscendo il pericolo a
che la donna si conducea, andò al legato, e impetrò grazia d’andare a
parlare colla figliuola, per farla arrendere al legato con salvezza
di lei e della sua gente. E venuto a lei, essendo padre, e uomo di
grande autorità, e maestro di guerra, le disse: Cara figliuola, tu dei
credere ch’io non sono venuto qui per ingannarti, nè per tradirti del
tuo onore. Io conosco e veggo, che tu e la tua compagnia siete agli
stremi d’irremediabile pericolo, e non ci conosco alcuno rimedio, altro
che di trarre vantaggio di te e della tua compagnia, e di rendere la
rocca al legato. E sopra ciò l’assegnò molte ragioni perch’ella il
dovea fare, mostrando, ch’al più valente capitano del mondo non sarebbe
vergogna trovandosi in così fatto caso. La donna rispose al padre,
dicendo: Padre mio, quando voi mi deste al mio signore, mi comandaste,
che sopra tutte le cose io gli fossi ubbidiente, e così ho fatto
infino a qui, e intendo di fare infino alla morte. Egli m’accomandò,
questa terra, e disse, che per niuna cagione io l’abbandonassi, o ne
facessi alcuna cosa senza la sua presenza, o d’alcuno segreto seguo
che m’ha dato. La morte, e ogni altra cosa curo poco, ov’io ubbidisca
a’ suoi comandamenti. L’autorità del padre, le minacce degl’imminenti
pericoli, nè altri manifesti esempli di cotanto uomo poterono smuovere
la fermezza della donna: e preso comiato dal padre, intese con
sollicitudine a provvedere la difesa e la guardia di quella rocca che
rimasa l’era a guardare, non senza ammirazione del padre, e di chi udì
la fortezza virile dell’animo di quella donna. Io penso, che se questo
fosse avvenuto al tempo de’ Romani, i grandi autori non l’avrebbono
lasciata senza onore di chiara fama, tra l’altre che raccontano degne
di singulari lode per la loro costanza.

CAP. LXX.
_Novità fatte in Ravenna._
Essendo venuta in Ravenna la novella, come la gente del legato aveano
per forza vinta la murata di Cesena, il signore di Ravenna, ch’allora
era all’ubbidienza del legato, comandò che i cittadini ne facessono
festa di fuoco e di luminaria. E però domenica, a dì 28 di maggio,
i cittadini si radunarono insieme per le contrade e per le piazze,
e festeggiavano: e nelle loro radunanze cominciarono a mormorare
contro a messer Bernardino da Polenta loro signore per le gravezze che
faceva, perocchè in breve tempo avea fatto pagare dell’estimo loro
in tre paghe libbre sette soldi dieci per libbra, onde generalmente
i cittadini erano mal contenti. E cominciato il bollore negli animi,
riscaldato col fuoco della festa, e facendosi alcuno caporale,
cominciò a gridare: Viva il popolo, e muoia l’estimo, e le gabelle. E
crescendo la boce, e multiplicando la gente al romore, il popolo corse
all’arme, e cominciossi a riducere in sulla piazza, e multiplicare le
grida. Il signore sentendo le grida mandò là due suoi famigli, l’uno
appresso l’altro, i quali giunti alla piazza furono morti dal popolo.
Il tiranno sentendo procedere la cosa da mala parte s’armò con sua
famiglia, e montato a cavallo corse alla piazza. Il popolo si rivolse
coll’arme contro a lui per modo, che per campare la persona si ritornò
nel castello; e accolto maggiore aiuto, da capo tornò alla piazza per
modo di volere acquetare il popolo: ma crescendo più il furore, fu
costretto per altra via ritornare a una postierla del castello; ma i
vili servi di quello popolazzo, avendo la libertà nelle proprie mani,
non la seppono per propria pigrizia seguitare, che al tutto erano
signori. E però, come si venne facendo notte, senza ordine e senza
capo cominciarono ad abbandonare la piazza, e tornarsi a casa, come
si tornassono da uno giuoco, e pochi furono quelli che vi rimasono,
e male provveduti. Per la qual cosa nella mezza notte uno fratello
bastardo del signore con venticinque masnadieri sì fedì di subito in
quel popolo stordito, e il signore con pochi a cavallo stava alla porta
del castello per riscuotere i suoi; ma i vili popolari, essendo ancora
in grande numero, senza fare resistenza si lasciarono percuotere, e
uccidere, e cacciare da que’ pochi assalitori, e abbandonata la piazza,
si tornarono a casa. La mattina vegnente il signore mandò per certi
cittadini, i quali come usciti d’ebrietà, e assicurati v’andarono; e
avendo i primi, mandò per anche, e raunonne in sua forza, centoventi e
più, i quali messi in prigione corse la terra; e appresso per diversi
modi gran parte ne fece morire, e degli altri fece danari. E da indi
innanzi fu più fortemente dal suo popolo ubbidito, temuto, e ridottato.

CAP. LXXI.
_Novità di Grecia, e presura di loro signori._
In questo medesimo tempo, Orcam grande signore de’ Turchi, avea
lasciato in Gallipoli un suo figliuolo primogenito per guardare le
terre dell’imperio di Costantinopoli, ch’egli avea acquistate quando
furono i grandi tremuoti nel paese. Il giovane prendendo vaghezza di
vedere pescare, follemente si mise in una barca, e valicando legni
armati di Greci, presono la barca; e conosciuto il figliuolo d’Orcam,
il condussono a Foglia vecchia, una terra che l’imperadore avea data a
un suo barone, e ’l figliuolo l’avea tolta al padre; capitando questi
Greci a lui, e sapendo cui eglino aveano preso, il ritenne a se, e a’
marinai diede cinquemila perperi. L’imperadore volle il prigione, e
non lo potè avere. E però prese accordo col Cerabì, uno de’ signori
de’ Turchi, che ’l verno appresso venisse per terra con sua forza ad
assediare la città di Foglia, ed egli vi verrebbe per mare, con patto,
che racquistata la terra l’imperadore farebbe rendere a Orcam il suo
figliuolo che ivi era preso. Il Cerabì vi venne con grande oste, e
l’imperadore con sei galee e con assai legni armati. E stati lungamente
all’assedio, e non potendo vincere la terra, l’imperadore per consiglio
di messer Francesco di.... di Genova suo cognato, a cui egli avea dato
in dota l’isola di Metelino, stando l’imperadore in un’isoletta che
fa porto a Foglia, invitò il Cerabì ed egli fidandosi dell’imperadore
andò a lui; e trovandosi tradito, innanzi che altra novità gli fosse
fatta, disse all’imperadore: Io so ch’io sono prigione, ma tu non fai
quello che fare ti credi se tu non seguiti il mio consiglio. Se questo
s’intende tra’ miei Turchi, uno mio fratello prenderà la signoria, e
sarà contento ch’io sia prigione, e troppo più ch’io fossi morto; ed
io so che tu hai bisogno di moneta, e per questo modo non avresti mai
una dobla. Ma fa’ com’io ti dirò, e arai la tua intenzione. Fa’ palese
ch’io abbi tolta la tua sirocchia per moglie, e facciamo di ciò festa;
e io manderò per lo mio fratello e per otto miei grandi baroni, i quali
si sforzeranno di venire alla festa per farmi onore, e come ci saranno,
terrai loro tanto ch’io ti mandi i danari di che saremo in accordo. E
fatta la convegna della moneta, l’imperadore conoscendo ch’e’ diceva
il vero, fece come il Cerabì il consigliò, ed ebbe di presente gli
stadichi venuti sotto il titolo della festa del parentado, e lasciato
il Cerabì, come fu nelle terre della sua signoria di presente mandò la
moneta promessa, e liberò il fratello e’ suoi baroni dall’imperadore,
e per savio provvedimento liberò se dal fortunevole caso di perdere la
sua signoria, e per lo poco senno della sua confidanza, aggravando però
nondimeno la vergogna dell’infedele imperadore.

CAP. LXXII.
_Come il re Luigi assediò Catania in Cicilia._
Essendo il re Luigi a Messina, per attrarre a sè gli animi de’
paesani, diede loro intendimento di dimorare nell’isola sei anni, e
di tenervi la corte di tutto il Regno; e per dimostrare, coll’opera
quello che promettea colla bocca, richiese i baroni del Regno per
volere assediare il figliuolo di don Petro, ch’era in Catania, per
riducere tutta l’isola in sua signoria, e prenderne la corona. I
baroni furono ubbidienti per modo, che del mese di maggio detto col
debito servigio de’ suoi baroni si trovò nell’isola millecinquecento
cavalieri, e commise la bisogna a messer Niccola Acciaiuoli di Firenze
suo grande siniscalco; il quale co’ cavalieri e col popolo cavalcò
a Catania e misesi ad assedio, strignendola fortemente per modo, che
senza gran forze non potevano gli assediati per terra avere entrata o
uscita d’alcuna gente, e per mare fece stare nel porto quattro galee
armate e due legni le quali assediavano la città per mare, e nondimeno
recavano ogni dì rinfrescamento all’oste, perocchè, per, terra non
v’era modo d’andarvi la vittuaglia per lo cammino ch’era lungo, e’
passi malagevoli e stretti. Nella terra avea centocinquanta cavalieri
catalani di buona gente d’arme, i quali bene apparecchiati si stavano
nella città senza fare alcuna vista o sentore a’ loro nemici di
fuori. La gente del re Luigi non trovando contasto, baldanzosamente
cavalcavano il paese, e mantenevano loro assedio.

CAP. LXXIII.
_Della materia medesima._
Stando l’assedio di Catania in questo modo, occorse per caso non
provveduto che due galee di Catalani ch’andavano in corso arrivarono
a Saragozza in Cicilia, e sentendo ivi come quattro galee e due legni
del re Luigi erano nel porto di Catania, come valenti uomini, e grandi
maestri de’ baratti del mare, innanzi che lingua venisse di loro
a quelli dell’oste, di subito feciono armare due legni ch’erano in
quel porto, e fornirli di trombe, e di trombette, e nacchere e altri
stromenti più che di gente da combattere, e fatta la notte si mossono,
e improvviso con gran baldanza le due galee de’ Catalani, lasciatosi
dietro i due legni che facessono gran rumore e grande stormeggiata,
entrarono nel porto, e con molto romore cominciarono ad assalire le
galee del re: le due ch’erano del Regno, temendo del romore di fuori
che non fossono assai galee, senza intendere alla difesa uscirono
del porto, e andaronsene a Messina, e l’altre due ch’erano genovesi
stettono alla difesa; ma perocch’e’ non erano provveduti nel subito
assalto furono vinte, e presi le galee e’ legni; e questo fu la notte
della Pentecoste, a dì 29 di maggio del detto anno.

CAP. LXXIV.
_Come l’oste del re Luigi si levò da Catania in isconfitta._
L’oste del re Luigi più baldanzosa che provveduta, sentendo prese le
due galee e’ legni, e l’altre fuggite, per le quali veniva loro il
fornimento della vittuaglia, ed essendo di lungi da Messina quaranta
miglia per terra, e i passi stretti in forza de’ nemici, sbigottirono
forte, e conobbono che se’ soprastessono quivi tanto che i nemici
mandassono gente a’ passi elli erano senza rimedio tutti perduti; e
vivanda non aveano da mantenere il campo, tanto che il re li potesse
soccorrere, e però diliberarono d’abbandonare il campo e gli arnesi,
e di campare le persone; e a dì 30 del detto mese si misono a cammino
senza ardere il campo, a fine di non essere da’ cavalieri incalciati.
I centocinquanta cavalieri catalani di presente uscirono fuori, e
avvrebbono avuto de’ nemici ogni derrata, ma la cupidigia della preda
del campo li ritenne alquanto. I nemici che fuggivano avanzavano
loro cammino per quella via ond’erano venuti, nondimeno i Catalani
li danneggiarono alquanto alla codazza. Ma quello che peggio fece
loro furono i villani ridotti a’ passi colle pietre, ch’altr’arme non
aveano. In questa caccia fu morto il figliuolo del conte di Sinopoli,
che per l’antichità del padre si dicea conte, e preso il conte
camarlingo, e morti da quaranta a cavallo e assai di quelli da piè.
Il gran siniscalco campò per lunga fuga sopra di un buono destriere,
perduto grande tesoro di suoi gioielli e arnesi, e così tutti gli
altri baroni e cavalieri, che molto v’erano pomposi. E nota, come
un’oste reale di più di millecinquecento cavalieri e gran popolo,
con quattro galee in mare e due legni armati, per troppa baldanza, e
mala provvedenza intorno alle cose che si richieggono a un’oste, dal
provveduto scalterimento di due corsali con due galee furono sconfitti
e rotti, abbandonando il campo a’ nemici vituperevolmente.

CAP. LXXV.
_Come la compagnia venne sul Bolognese._
La compagnia del conte di Lando mossa di Lombardia co’ danari di
messer Bernabò Visconti e con quelli del capitano di Forlì, per venire
al soccorso di Cesena, a dì 18 di giugno del detto anno venne in sul
Bolognese con licenza del signore di Bologna, senza far danno al paese
di ruberie o di prede, ma prendeano derrata per danaio, e accampati al
Borgo a Panicale, intendeano più a’ loro propri fatti che ad andare a
soccorrere la rocca di Cesena, perocchè vi sentivano il legato forte
da non potere vincere la punga; e stando quivi, accrescevano la loro
brigata, che secondo l’usanza d’ogni parte vi veniano uomini d’arme a
mettersi in quella per vaghezza della preda, e non di trovare nemici
in campo, che quasi tutti i soldati d’Italia v’aveano parte; e stando
coperti di loro movimenti, feceano paura a tutti i popoli di Toscana e
dell’altre provincie circustanti, e attraevano a loro ambasciadori da
quelli per prendere accordo; e così sospesi usavano la loro mercatanzia
molto sagacemente. E bench’e’ tiranni e’ popoli d’Italia avessono
la compagnia in odio, tant’era la divisione delle parti e la gelosia
de’ popoli contro a’ tiranni, che catuno volea piuttosto ubbidire al
servigio della compagnia co’ suoi danari che contastare con quella, e
però ora era condotta per l’uno ora per l’altro, rimanendo continovo
l’ordine della compagnia. E in questi dì era già durata più di quindici
anni questa tempesta in Italia.

CAP. LXXVI.
_Come il comune di Firenze afforzò lo Stale._
I Fiorentini vedendo che la compagnia era in parte che in un dì potea
valicare l’alpe ed entrare nel Mugello, per certa piaggia dell’alpe
assai aperta che si chiama la via dello Stale, richiesono gli
Ubaldini, i quali s’impromisono d’essere co’ Fiorentini alla guardia
del passo; il comune vi mandò di presente tremila balestrieri, e bene
altrettanti fanti e ottocento cavalieri, e gli Ubaldini vi vennono
con millecinquecento fanti di loro fedeli, e diedono il mercato
abbondantemente a tutta l’oste, e co’ capitani insieme de’ Fiorentini
feciono fare una tagliata che comprendea i passi di quello Stale per
spazio d’un miglio e mezzo tra’ due poggi, e sopra la tagliata feciono
barre di grandi e grossi faggi a modo di steccato, e vi feciono loro
abitazioni, e stettonvi alla guardia de’ passi mentre che la compagnia
dimorò sul Bolognese, desiderando ch’ella si mettesse nell’alpe per
volere passare, com’erano le loro minacce, ma sentendo la provvisione
de’ Fiorentini, conceputo maggiore sdegno tennono altro cammino.

CAP. LXXVII.
_Come s’arrendè la rocca di Cesena al legato._
Sentendo il legato la compagnia soggiornare in sul Bolognese,
abbandonato ogni altra cosa, con sommo studio si diè a volere vincere
la rocca di Cesena, facendola cavare per abbattere le mura e le
torri, e traboccarvi dentro grandi pietre con otto trabocchi, e
oltre a ciò spesso la faceva assaggiare di battaglia; ma tanto era
la severità di madonna Cia, e la sua sollecitudine di dì e di notte
alla difesa, che per cosa che si facesse quell’animo non si cambiava;
e già essendo per le cave caduto parte delle mura e l’una delle
torri, la donna in persona facea riparare con isteccati e con fossi,
oltre alla considerazione de’ più fieri e de’ più valenti uomini
del mondo, non dimostrando alcuna paura. Ma i valenti conestabili
ch’erano con lei, sapendo che la mastra torre della rocca si mettea in
puntelli, e vedendo la pertinace costanza della donna, ebbono madonna
Cia a consiglio, e dissono: Madonna, e’ si può sapere e conoscere
manifestamente che per voi è mantenuta la difesa della murata e della
rocca infino agli ultimi stremi, e di noi avete potuto conoscere intera
e pura fede, mentre che alcuna speranza s’è per voi e per noi potuta
conoscere, ma ora non ne resta via da potere campare la sepultura de’
nostri corpi sotto la ruina di questa rocca. E perocchè questo non
dobbiamo comportare per alcuna ragione, siamo disposti, o di vostra
volontà, o contro al vostro volere, rendere la rocca per salvare le
nostre persone. La valente donna per questo non cambiò faccia, nè
perdè di sua virtù, e conobbe ch’e’ soldati aveano ragione di così
fare, e però disse a’ conestabili: Io voglio che lasciate fare a me
questo accordo; e i conestabili conoscendo il grande animo della donna,
dissono che di ciò erano contenti; e mandato al legato, e avuti da lui
uditori con pieno mandato secondo la sua volontà, trattò che tutti
i conestabili colle loro masnade, e tutti gli altri soldati fossono
franchi e liberi, e potessonne portare ciò che volessono in su’ loro
colli: ed ella rimanesse prigione del legato col figliuolo, e con una
sua figliuola, e con due suoi nipoti madornali e uno bastardo, e con
due figliuole di Gentile da Mogliano, e cinque sue damigelle. Per sè
e per la sua famiglia non cercò grazia, potendo salvare i soldati che
lealmente l’aveano atata. E fatti e fermi i patti, a dì 21 di giugno
gli anni domini 1357 rendè la rocca al legato, e fu signore di tutto
con gran gloria della sua punga, ma non con mancamento di chiara fama
del forte animo di quella donna: la quale per alcuno caso avverso,
per alcuna intollerabile fatica, mentre ch’era in sua libertà, mai non
cambiò faccia, o mancò di consiglio o d’ardire. E menata in prigione
dov’era il legato nel castello d’Ancona, così contenne il suo animo non
vinto e non corrotto, e in aspetto continente come se la vittoria fosse
stata sua. E il legato maravigliandosi della costanza di questa donna,
benchè la ritenesse prigione a fine di piuttosto domare l’alterezza del
capitano, assai la fece stare onestamente, e bene servire.

CAP. LXXVIII.
_De’ fatti di Costantinopoli._
L’imperadore di Costantinopoli avendo perduta la speranza di vincere
la città di Foglia vecchia, mutò consiglio, e trattò con quello Greco
che la tenea, e confermogliele in feudo, e aggiunseli alla baronia,
e diegli sessantamila perperi; e la primavera vegnente ebbe da lui
il figliuolo d’Orcam signore de’ Turchi, il quale egli avea prigione,
come addietro abbiamo contato. E per costui l’imperadore riebbe tutte
le terre che Orcam gli avea tolte, e oltre a ciò molti danari, e
stadichi per mantenere la pace che feciono insieme quando gli rendè il
figliuolo.

CAP. LXXIX.
_Come il legato prese Castelnuovo e Brettinoro._
Vinta la punga di Cesena, i cavalieri del legato baldanzosi per la
vittoria di subito cavalcarono a Castelnuovo di Cesena, e trovandolo
male provveduto alla difesa, vi s’entrarono dentro. E appresso si
dirizzarono al nobile castello di Brettinoro, il quale era fornito
di suoi terrazzani, e d’assai soldati a cavallo e a piè, e di
molta vittuaglia, sicchè poco se ne potea sperare o per forza o per
assedio. Nondimeno la gente del legato vi s’accampò intorno: e poco
stante vi si cominciò un badalucco tra quelli della terra e la gente
della Chiesa, della quale messer Galeotto Malatesta era capitano; il
badalucco durò molto, e per questo s’ingrossò da ogni parte, e per
lo soperchio della gente della Chiesa, quella del castello fu rotta.
Messer Galeotto, ch’era in ordine co’ suoi cavalieri, perseguitò
quelli che fuggivano verso la terra, e mescolossi con loro per modo,
che giunti alle porte, entrarono con quelli del castello insieme,
combattendo continovamente; e avendo seguito presso de’ loro cavalieri
e masnadieri, presono la porta e le guardie di quella, per la qual
cosa la loro gente vi s’ingrossò di subito, e venne bene a bisogno,
perocchè tutti i terrazzani e’ soldati che v’erano francamente li
combatteano, e colle pietre delle case per difendere la terra. Ma il
soperchio che vince ogni cosa, dopo la lunga e aspra battaglia, essendo
multiplicata la gente della Chiesa, e molti morti dall’una parte e
dall’altra, i terrazzani e i loro soldati furono costretti a fuggire
nella rocca; e la gente del legato presa la terra e rubata, la tennero
vittoriosamente, essendo tenuta grande maraviglia per la fortezza del
castello. Alcuni dissono, che tra’ terrazzani ebbe divisione, che
se fossono stati interi alla difesa non si potea perdere. E questo
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