Cronica di Matteo Villani, vol. 3 - 10

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CAP. LXII.
_Come messer Bruzzi cercò di tradire il signore di Bologna._
Messer Bruzzi, figliuolo non legittimo che fu di messer Luchino signore
di Milano, essendo per sospetto de’ signori di Milano cacciato di
quella, e per sue cattive operazioni stato in ribellione più tempo,
vedendosi messer Giovanni da Oleggio molto solo di confidenti nella sua
signoria, e conoscendo messer Bruzzi pro’ e ardito, e bene avvisato in
guerra e di gran consiglio, il recò a sè, parendogli potersi confidare
di lui, e assegnogli larga provvisione, e facevagli onore, e tutte le
maggiori cose di fatti d’arme li commettea; e oltre a ciò in camera
l’avea a’ suoi segreti consigli, e mostravagli tanto amore, ch’e’
Bolognesi temevano, che se messer Giovanni morisse costui non rimanesse
signore; ma l’animo tirannesco affrettando l’ambizione della signoria
li gravava d’attendere, e però cercava di fornirlo più tosto, e trattò
di torre la signoria a messer Giovanni, ma non seppe fare il trattato
sì coperto che a messer Giovanni, ch’era maestro di buona guardia e di
savia investigagione, non li venisse palese. E tornando messer Bruzzi
di fuori con molta gente d’arme in Bologna con grande pompa, messer
Giovanni mandò per lui, e avendolo in camera, li rammentò l’onore
e ’l beneficio che gli avea cominciato a fare, e l’animo ch’avea di
farlo grande; e appresso li mostrò il trattato ch’e’ tenea per torli
la signoria di Bologna sì aperto, ch’e’ non glie lo potè negare: ma
per amore della casa de’ Visconti, dond’era nato, gli disse, che li
perdonava la morte; ma per vendetta dello sconoscimento dell’onore che
gli avea fatto trovandolo traditore il fece spogliare in giubbetto, e
cacciare a piè fuori di suo distretto incontanente, e diede congio a
tutta sua famiglia, e ritenne l’arme gli arnesi e i cavalli.

CAP. LXIII.
_Come i Veneziani cercarono accordo col re d’Ungheria._
Di questo mese d’agosto del detto anno, vedendo i Veneziani essere
recati a mal partito nella guerra col re d’Ungheria, signore di così
gran potenza, e pensando che per lo cominciamento della guerra i loro
cittadini erano per le spese loro premuti dal comune infino al sangue,
pensarono ch’altro scampo non era per loro se non di procacciare la sua
pace; e però elessono parecchi de’ maggiori e de’ più savi cittadini
di Vinegia, e mandaronli al re nel campo a Trevigi con pieno mandato,
informati dell’intenzione e volontà del loro comune, e giunti al re, da
lui furono ricevuti onorevolemente; ed essendo a parlamento con lui,
gli offersono da parte del comune di Vinegia, come quando potessono
avere da lui buona pace, che ’l comune lascerebbe la città di Giara,
con patto ch’ella dovesse rimanere nel primo stato in sua libertà,
e che renderebbono liberamente certe terre nomate della Schiavonia
a sua volontà, e certe altre voleano ritenere e riconoscere da lui,
con quello convenevole censo a dare ogn’anno al re ch’a lui piacesse,
e offerendoli di ristituire per tempo ordinato quella quantità di
pecunia per suoi interessi e spese che fosse convenevole, e di che egli
giustamente si potesse contentare. Al re parve strano ch’e’ volessono
trarre Giara del suo reame e metterla in libertà, e che per patto li
convenisse lasciare le sue terre al comune di Vinegia a censo; e questo
riputava in vergogna della sua corona, e però non volle consentire
a questa pace, nè a questo accordo, se liberamente non gli fossono
restituite le terre del suo reame. Molti di questo biasimarono il re,
parendo ch’egli dovesse avere preso questo accordo con suo vantaggio,
per quello ch’appresso ne seguitò di suo poco onore, ma chi riguarderà
al fine e alla potenza reale non li darà biasimo della sua alta
risposta.

CAP. LXIV.
_Come il signore di Bologna scoperse un altro trattato contro a sè._
Messer Bernabò di Milano, avendo sopra all’altre cose cuore a’ fatti
di Bologna, come avea ordinato l’uno trattato contro al signore di
Bologna, e era scoperto, così avea ricominciato l’altro: apparve cosa
maravigliosa, che tutti si scoprivano per sè stessi per non pensati nè
provveduti modi. Avea in questi dì messer Giovanni da Oleggio fatto
podestà di san Giovanni in Percesena, e datali provvisione in altre
terre circustanti, un Milanese, in cui avea grande e antica confidanza.
Tanto seppe adoperare messer Bernabò, che corruppe questo podestà
milanese, e corruppe il suo cancelliere, il quale dovea fare lettere
da parte del signore per certo modo come volea il detto podestà; e già
ogni cosa era recata in opera per modo, ch’era mossa la cavalleria che
dovea entrare nelle castella sotto il titolo delle lettere del signore
di Bologna, e mandò messer Bernabò un suo fidato messaggere innanzi
al podestà di san Giovanni colle sue lettere. Avvenne che in quel dì,
alcune ore innanzi che ’l fante giugnesse al castello di san Giovanni,
il podestà era ito a Bologna; il fante li tenne dietro, e cominciò
infra sè a dubitare delle lettere che portava, perocchè sentiva della
cagione perch’egli andava; e giunto a Bologna, trovo che ’l podestà
era col signore, e allora li montò più il sospetto, immaginando
che ’l trattato fosse scoperto, e per campare sè, tanto fu forte la
sua immaginazione ch’e’ si mise ad andare al signore, e con grande
improntitudine fece d’avere udienza da lui, e allora li manifestò il
fatto; e per provare la verità li diè le lettere di messer Bernabò
ch’e’ portava al podestà, per le quali fu manifesto che san Giovanni,
e Nonantola e altre castella, in uno dì doveano essere date per lo
trattato del podestà alla gente di messer Bernabò, il quale era ancora
in casa del signore; messer Giovanni vedute quelle lettere e disaminato
il fante, fece ritenere il podestà e il cancelliere, è ritrovata
con loro la verità del fatto, e colpevoli, di presente provvide alla
guardia delle terre, e costoro con anche dieci di loro seguito fece
morire.

CAP. LXV.
_Di certa novità che gli Ungheri feciono nel campo a Trevigi._
La disordinata moltitudine de’ cavalieri ungheri, che a modo di
gente barbara non sanno osservare la disciplina militare, nè essere
ubbidienti a’ loro conducitori, come detto è poco addietro, aveano
scorso il Padovano, perchè la vittuaglia che di là solea venire non
venia, e la carestia montava nel campo. Per la qual cosa al primo
fallo n’arrosono uno maggiore, e presono riotta co’ cavalieri tedeschi
che v’erano con messer Currado Lupo e con gli altri conestabili
tedeschi che fedelmente servivano il loro signore, e per arroganza
li villaneggiavano; e fatto questo, corsono con furore alla camera
dove il re avea ordinato il fornimento della vittuaglia e dell’altre
cose per conservare l’oste, e rubaronla; e così in pochi dì ebbono a
tanto condotta l’oste, sconciando l’ordine che la mantenea, che per
necessità fu costretto il re di partirsi dall’assedio, come appresso
diviseremo: verificandosi quel detto del filosofo il quale disse: che
le sopragrandi cose reggere non si possono, e quelle che reggere non si
possono, lungamente durare non possono.

CAP. LXVI.
_Come il re d’Ungheria si levò da oste da Trevigi._
Il re d’Ungheria vedendo l’oste sua sconcia per la sfrenata baldanza
della moltitudine de’ suoi Ungheri, e che i difetti della vittuaglia
erano senza rimedio, si pentè di non avere presa la concordia
che potuta avea prendere con suo onore co’ Veneziani; ed essendo
naturalmente di subito movimento, senza deliberare con altro consiglio,
improvviso a tutti, a dì 23 del mese d’agosto del detto anno si
partì dall’assedio di Trevigi, ov’era con più di trecento migliaia di
cavalieri, è passò la Piave raccolta tutta sua gente a salvamento;
perocchè quelli della città nè segno nè avviso n’ebbono ch’e’ si
dovesse partire, e alcuni dì stettono innanzi che pienamente si potesse
credere la loro partita. A Colligrano fu la loro raccolta, e in quella
terra lasciò duemila cavalieri ungari alla guardia della terra per
fare guerra a Trevigi, ed egli con tutto l’altro esercito si tornò in
Ungheria con poco onore della sua impresa a questa volta.

CAP. LXVII.
_Raccoglimento di condizioni, e movimento del re._
Questo re d’Ungheria, per quella verità che sapere ne potemmo, è uomo
di gran cuore, pro’ e ardito di sua persona, e nelle prosperità di
grandi imprese molto animoso, rigido e fiero in quelle, e molto si fa
temere a’ suoi baroni, e vuole avere presti i loro debiti servigi; è
grande impigliatore senza debita provvedenza; e a sua gente in fatti
d’arme è più abbandonato e baldanzoso che provveduto, per la soperchia
fidanza, che havea in loro ed eglino in lui, perocchè molto è cortese
a tutti e di buona aria; assai volte ha mostrati esempi di subiti e
lievi movimenti nelle grandi cose, e l’avverse sa meglio abbandonare,
partendosi da esse, che stando con virtù resistere a quelle.

CAP. LXVIII.
_Come la gente della lega di Lombardia sconfisse il Biscione a Castel
Lione._
Essendo lungamente stato assediato il forte Castel Leone de’ Mantovani
dalla forza de’ signori di Milano, e recato a stretto partito, i
signori di Mantova coll’aiuto del marchese di Ferrara e del signore
di Bologna raunate subitamente, all’uscita d’agosto anno detto, mille
dugento barbute e grande popolo per soccorrere il castello, s’avviarono
molto prestamente verso il campo de’ nemici, i quali vedendosi venire
improvviso addosso i Mantovani si levarono dall’assedio, e ordinarono
una grossa schiera alla loro riscossa e innanzi che la gente de’
Mantovani giugnesse al campo, si ridussono a uno castello ivi presso
de’ loro signori di Milano; ma la schiera fatta per la riscossa fu
soppressa dalla gente de’ Mantovani e sconfitta, e morti e presi la
maggior parte, e ’l castello liberato dall’assedio; e rifornito di
nuova gente e di molta vittuaglia con vittoria si tornarono al loro
signore, avendo vituperata la gente de’ signori di Milano di quella
loro lunga impresa.

CAP. LXIX.
_Trattati de’ Ciciliani._
Detto abbiamo addietro, come certi potenti cittadini della città di
Messina nominati que’ di Cesare cacciarono della città altri cittadini
loro avversari, e rimasi i maggiori, s’accostarono co’ baroni di
Chiaramonte, i quali teneano col re Luigi del Regno. Nondimeno perchè
a loro parea essere nell’isola i maggiori, eziandio senza l’aiuto del
detto re, e’ cercarono di riducere a loro Federigo loro legittimo
signore, e trarlo delle mani de’ Catalani, e conducerlo a Messina
e farlo coronare dell’isola. E per dimostrare che eglino avessono
affezione al loro signore naturale dell’isola, messer Niccola di Cesaro
in persona, a cui il re Luigi avea accomandata la terra di Melazzo,
andò là con gente d’arme, e fece per più di combattere coloro che
per lo re guardavano la rocca, tanto che l’ebbe. Per la qual cosa i
Messinesi presono molta confidanza di messer Niccola, e don Federigo
medesimo prese speranza e diede intenzione di venire a Messina, e per
tutto si divolgò che l’accordo di Cicilia era fatto. Ma o che questo
trattato fosse fatto ad ingegno di malizia, come si credette, o che
la setta de’ Catalani non si fidasse, la cosa si ruppe tra’ Ciciliani,
e seguitonne la chiamata a Messina del re Luigi, come appresso al suo
tempo, conseguendo nostra materia, diviseremo.

CAP. LXX.
_Come la compagnia stette sopra Ravenna._
Venuta la compagnia del conte di Lando del Regno in Romagna, il
legato per tema de’ baratti di quella gente senza fede si ritrasse
dall’assedio di Cesena, e dalla cominciata guerra contro al capitano
di Forlì, pensando saviamente i pericoli che occorrere li poteano.
Il capitano a quella compagnia dava il mercato, e a’ capitani e
a’ maggiori conestabili facea doni per avere il loro aiuto: e la
moltitudine di quello esercito si stava in sul contado di Ravenna
facendo danno di prede, e minacciando di dargli il guasto, se ’l loro
signore messer Bernardino da Polenta non desse loro danari. Ma egli,
essendo molto ricco di moneta, chiamò a consiglio i Cittadini di
Ravenna; e con loro ordinò il modo dell’ammenda del guasto, e volle in
questo caso, come valoroso tiranno, innanzi sodisfare il danno a’ suoi
cittadini, che sottomettersi al tributo della compagnia. Onde molto
fu commendato da’ savi; perocchè del guasto la compagnia fa danno a sè
senza trarne alcun frutto, e il trarre danari da’ signori e da’ comuni
è un accrescere baldanza e favore a mantenere le compagnie e servaggio
de’ popoli.

CAP. LXXI.
_Come i Fiorentini ordinarono di fare balestrieri._
Sentendo i Fiorentini la gran compagnia in Romagna, e che ’l termine
promesso per quella di non gravare i Fiorentini compieva, si provvidono
d’alquanti cavalieri, e mandaronli in Mugello per contradire i passi
dell’alpe, e feciono eletta nella città e nel contado di balestrieri, e
del mese di luglio del detto anno feciono mostra di duemilacinquecento
balestrieri sperti del balestro, tutti armati a corazzine, e mandaronne
a’ passi dell’alpe, e senza arresto, ne compresono appresso fino
in quattromila, tutti con buone corazzine, della qual cosa le terre
vicine ghibelline, e guelfe di Toscana, che allora viveano in sospetto,
stavano in gelosia e in guardia, e la compagnia medesima ne cominciò a
dottare. Nondimeno il comune, per savia e segreta provvidenza, mandò
alcuni cittadini per ambasciadori alla compagnia, i quali teneano
ragionamento di trattato, e passavano tempo, e tentavano con ispesa
di trarre de’ caporali della compagnia e conducergli a soldo; e per
questo modo temporeggiando co’ conducitori di quella, tanto che il
grano e i biadi del nostro contado fu fuori de’ campi, e ’l comune
fortificato di cavalieri, e masnadieri, e balestrieri, e presi i passi
in tutta l’alpe, ove potea essere il passo alla compagnia, si ruppono
dal trattato, e tornaronsi a Firenze. La compagnia, sentendo il comune
di Firenze provveduto contro a sè, con accrescimento di sdegno perdè
la speranza d’entrare a fare la ricolta tributaria in Toscana, e però
tenne co’ Lombardi suo trattato, il quale fornì, come innanzi al suo
tempo racconteremo.

CAP. LXXII.
_L’ordine ch’e’ Fiorentini presono per mantenere i balestrieri._
Piacendo a’ Fiorentini molto il nuovo trovato de’ balestrieri, il
fermarono con ordine, e nella città n’elessono ottocento, tutti
balestrieri provati, partendoli per gonfalone, e a venticinque davano
un conestabile, e le balestra e le corazze di catuno inarcavano del
marco del comune, e per simile modo n’elessono nel contado, dandone
secondo l’estimo cotanti per cento, e appresso nel distretto ne
feciono scegliere a catuna comunanza, terra o castello quelli che si
conveniano, tanti che in tutto n’ebbono quattromila; e ordinarono
per li loro soldi certa entrata del comune, e che catuno de’ detti
balestrieri, non andando al servigio del comune, standosi a casa
sua avesse ogni mese soldi venti di provvisione dal comune, e ’l
conestabile soldi quaranta, e dovessono stare apparecchiati a ogni
richiesta del comune; e quando il comune li mandasse o tenesse in suo
servigio, dovessono avere il mese fiorini tre di soldo, e ogni capo di
tre o di quattro mesi erano tenuti a volontà degli uficiali deputati
sopra loro, ch’erano due cittadini per catuno quartiere, colle loro
balestra e colle corazze marcate del marco del comune. E oltre a ciò,
a ogni rassegnamento gli uficiali facevano fare per ogni gonfalone
un bello e nobile balestro e tre ricche ghiere, il quale poneano in
premio e in onore di quel balestriere della compagnia del gonfalone,
che tre continovi tratti saettando a berzaglio vinceva gli altri; e
ancora così faceano ne’ comuni del contado per esercitare gli uomini,
per vaghezza dell’onore, a divenire buoni balestrieri; e fu cagione di
grande esercitamento del balestro, tanto che tra sè nella città e nel
contado ogni dì di festa si ragunavano insieme i balestrieri a farne
loro giuoco e sollazzo per singulare diporto.

CAP. LXXIII.
_Come i Trevigiani furono soppresi dagli Ungheri con loro grave danno._
Tornando un poco nostra materia, a’ fatti di Trevigi, avendo veduto
coloro ch’erano per i Veneziani alla guardia di Trevigi la subita
partita del re d’Ungheria e del suo grande esercito, cominciarono a far
tornare i lavoratori nel contado, e conducervi il bestiame, e sparti
per le contrade. Gli Ungheri ch’erano rimasi a Colligrano e per le
terre vicine, sentendo il paese pieno di preda, mandarono scorrendo di
loro Ungheri fino presso a Trevigi intorno di quattrocento cavalli, i
quali raunarono d’uomini e di bestiame una grande preda; i cavalieri
e’ balestrieri ch’erano in Trevigi con loro capitani veneziani, per
risquotere la preda gagliardamente uscirono fuori più di cinquecento
cavalieri e assai masnadieri, i quali di presente s’aggiunsono con
gli Ungheri; ed eglino si cominciarono a difendere andando verso i
nemici, e voltando e appresso ritornando; e continovo si ritraevano,
ove sapevano ch’era l’aguato della loro gente, non facendone alcuno
sembiante; e così continuando, e perseguitandoli i Trevigiani, gli
ebbono condotti dov’erano riposti in aguato ottocento de’ loro Ungheri,
i quali di subito uscirono addosso a’ Trevigiani, e rinchiusi tra loro,
più di dugento n’uccisono in sul campo, e presonne più di trecento, e
menaronsene i prigioni e la preda, avendo più danno fatto a’ Veneziani
e a quelli del paese in questa giornata, che il re nell’assedio con
tutto il suo esercito; e questo fu a dì 23 del mese d’agosto anno
detto.

CAP. LXXIV.
_Come il Regno era d’ogni parte in guerra._
Essendo, come detto abbiamo poco innanzi, uscita la compagnia del
reame, il re rimaso povero d’avere e di gente d’arme non potea riparare
alla forza de’ ladroni che per tutto scorrevano il reame, ricettati da’
baroni ch’erano scorsi a mal fare, e partivano le ruberie e le prede
con loro; e di verso le parti di Campagna centocinquanta cavalieri,
ch’erano rimasi della compagnia, tribolavano tutto il paese d’intorno,
e rubavano e rompevano le strade e’ cammini, e così gli altri caporali
de’ ladroni facevano in principato e in Terra di Lavoro; e in Puglia il
paladino col favore del duca di Durazzo, faceva il simigliante, e con
ottocento barbute avea assediato Sanseverino, scorrendo e rubando tutto
il piano di Puglia; e per questo il Regno era in maggiore tempesta che
quando v’era la gran compagnia, e niuno cammino v’era rimaso sicuro;
catuna parte del Regno era corrotta a mal fare, fuori che le buone
terre, per gran colpa della mala provvedenza del re loro signore, che
fuori de’ suoi diletti poco d’altro si mostrava di curare.

CAP. LXXV.
_Come i collegati condussono la compagnia al loro soldo._
La compagnia del conte di Lando stando lungamente sopra il contado di
Ravenna, e premendo per via d’aiuto gravemente i Forlivesi, conosciuto
che per lo riparo e provvedenza del comune di Firenze a loro era
malagevole e pericoloso entrare in Toscana, s’accordarono d’andare
a servire i collegati contro a’ signori di Milano in Lombardia; e
condotti per quattro mesi per quelli della lega, promisono di stare
il detto tempo sopra le terre de’ signori di Milano guerreggiando il
paese a loro utilità; e a dì 18 del mese di settembre anni Domini 1356
si partirono di Romagna, e presono loro cammino in Lombardia, e tra
Bologna e Modena attesono l’altra forza de’ collegati e ’l capitano
ch’appresso diviseremo.

CAP. LXXVI.
_De’ fatti de’ collegati di Lombardia._
Erano in questo tempo collegati contro a’ signori di Milano il signore
di Mantova, il marchese di Ferrara e ’l signore di Bologna, nominati
caporali, avvegnachè assai degli altri tacitamente teneano con loro; e
avendo procacciato d’avere la compagnia al loro servigio, come detto è,
trattarono coll’imperadore d’avere capitano da lui a quell’impresa, e
l’imperadore avendo l’animo contro a’ signori di Milano, i quali avea
trovati molto potenti, avendo in Pisa per suo vicario messer Astorgio
Marcovaldo vescovo d’Augusta, uomo valoroso in arme e di grande
autorità, per non volersi scoprire manifestamente contro a’ tiranni,
concedette la libertà al vescovo, e in segreto l’ordinò suo vicario,
e a ciò li concedette tacitamente suoi privilegi, commettendoli che
ciò non manifestasse se non quando sopra loro si vedesse in gran
prosperità, sicchè con onore dell’imperio il potesse fare, altrimenti
nol facesse, ma mostrasse da sè fare quell’impresa. Costui chiamato
dalla lega de’ Lombardi si partì da Pisa e venne a Firenze, ove li
fu fatto grande onore; e senza soggiorno se n’andò alla compagnia, e
fu fatto loro conduttore, e dell’altra gente de’ Lombardi collegati;
il quale valentemente s’ordinò contro a’ tiranni, e fece grandi cose,
come appresso narreremo; ma richiedendoci innanzi alcune cose grandi
conviene che prima abbiano il debito della nostra penna.

CAP. LXXVII.
_Come i Brabanzoni ruppono i patti a’ Fiamminghi._
Avendo poco innanzi narrato la concordia che si prese in luogo
dell’apparecchiata battaglia tra’ Fiamminghi, e’ Brabanzoni per lo
fatto di Mellina, seguita, che gli otto albitri eletti, quattro da
catuna parte, sotto la fede del loro saramento, aveano diligentemente
vedute, e disaminate le ragioni di catuna parte; e trovando di
concordia tutti gli albitri la ragione della villa di Mellina essere
del conte di Fiandra, e così essere acconci di sentenziare per
osservare il loro saramento; il duca di Brabante, rompendo la fede
promessa, mandò per fare pigliare i quattro suoi Brabanzoni ch’erano
albitri, acciocchè non potessono dare la sentenza, e due ne presono, e
due se ne fuggirono. Per questa cosa il conte di Fiandra, e’ Fiamminghi
si tennono traditi da’ Brabanzoni e dal loro duca, e di presente
mossono guerra nel paese. Ed essendo alquanti cavalieri fiamminghi
entrati in Brabante guerreggiando, i Brabanzoni si misono con maggiore
forza contro a loro, e rupponli, e uccisono ottanta cavalieri, e più
altri ne imprigionarono. E aggiunto alla prima ingiuria il secondo
danno e vergogna de’ Fiamminghi, s’infiammarono tutti di tanto sdegno,
che per comune tutti diedono luogo a’ loro mestieri, e intesono ad
apparecchiarsi in arme per andare contro a’ Brabanzoni, onde uscirono
notabili cose come appresso racconteremo.

CAP. LXXVIII.
_Come il conte di Fiandra andò sopra Brabante._
È da sapere, per meglio intendere quello che seguita, che non per nuovo
accidente, ma per antica virtù, e continovata ambizione, il popolo
Fiammingo era più pro’ e più sperto e audace in fatti d’arme che il
popolo brabanzone, e i cavalieri brabanzoni più sperti e più atti in
fatti d’arme ch’e’ cavalieri fiamminghi. Ma recando a sè il popolo
fiammingo l’ingiuria ricevuta da’ Brabanzoni, nell’impeto del furore
del suo animo, come un uomo, s’accolsono insieme più di centocinquanta
migliaia d’uomini, tutti armati a modo di cavalieri, e con loro il
conte loro signore con quattromila cavalieri, e raccolto grandissimo
carreaggio carico di vivanda, e d’armadura a dì 9 d’agosto anno detto
presono loro cammino per entrare in Brabante, e a dì 12 del detto mese
si trovarono sopra la gran città di Borsella, presso a mezza lega, e
ivi fermarono loro campo, scorrendo il paese d’intorno, e facendo assai
danno a’ paesani.

CAP. LXXIX.
_Come il duca di Brabante si fè incontro a’ Fiamminghi._
Il duca di Brabante, il quale era Tedesco, fratello uterino di Carlo
di Boemia imperadore, avendo in animo di non volere, Mellina al conte
rendere attendendo la guerra, avea richiesto d’aiuto l’imperadore,
e molti altri principi della Magna, e a questo punto si trovò da
diecimila o più buoni cavalieri tedeschi e brabanzoni, e tutto il
popolo di Brabante si mise in arme, e trovossi il duca a questo bisogno
cento migliaia di Brabanzoni a piè bene armati. E vedendosi i nemici
all’uscio, a dì 17 del detto mese d’agosto uscirono a campo fuori della
villa di Borsella, e misonsi a campo a rimpetto de’ Fiamminghi presso
a un mezzo miglio: e cominciarono a ordinare la loro gente, e disporla
per battaglie a piè, e a cavallo; perocchè ben conosceano che l’impresa
era tale, che non riceveva altro termine che la vittoria della
battaglia a cui Iddio la concedesse. In questo ordinare stettono dalla
mattina a nona; mezzani non si poteano in questo fatto tramettere per
la fede altra volta rotta pe’ Brabanzoni, catuna parte s’acconciava di
combattere, e tanto era presso l’un’oste all’altra, che battaglia non
vi potea mancare.

CAP. LXXX.
_Come i Fiamminghi sconfissono i Brabanzoni._
I Fiamminghi, ch’erano infocati per l’ingiurie ricevute, vedendosi i
nemici così di presso, e sentendo tra loro gran romore, avvisandosi
che per discordia si dovessono partire, senza attendere che venissono
schierati al campo, valicata l’ora della nona, si misono ad assalirgli.
E cominciato un grido tutti insieme a loro costuma, che trapassava
il cielo vincendo ogni tonitruo, e giugnendo a’ nemici, i quali
aveano incominciata alcuna discordia tra’ Tedeschi e’ Brabanzoni, gli
assalirono con grande ardimento; e cominciata tra loro la battaglia,
avvenne per caso, e non per operazione de’ nemici, che l’insegna del
duca di Brabante si vide abbattuta. Veduto questo i Brabanzoni a piede
in prima si misono alla fuga, e i cavalieri appresso volsono le reni
a’ nemici senza fare alcuna resistenza, e intesonsi a salvare nella
città ch’era loro presso; i Fiamminghi affannati per la corsa al
primo assalto, e carichi d’arme, non li poterono seguire, e per questa
cagione pochi ne morirono in sul campo, ma più n’annegarono, gittandosi
a passare il fiume coll’armi indosso; ma tra tutti i morti in sul
campo e annegati nel fiume appena aggiunsono al numero di cinquecento,
che fu di così grande esercito gran maraviglia, e de’ Fiamminghi non
morì alcuno di ferro, cosa quasi, incredibile a raccontare, ma così fu
per la grazia di Dio, che non assentì tra loro maggiore effusione di
sangue.

CAP. LXXXI.
_Come il conte di Fiandra ebbe Borsella._
Il duca di Brabante fuggendo co’ suoi cavalieri tedeschi entrò in
Borsella, e tanta paura gli entrò nell’animo per la fede rotta a’
Fiamminghi, che non ebbe cuore di ritenersi in Borsella, ma di presente
senza ordinarla a difesa o a guardia se ne partì, e andossene in
Loano. Il conte, avendo vittoriosamente rotti e cacciati del campo i
suoi nemici, vedendo i suoi Fiamminghi per la vittoria baldanzosi e di
grande volontà a seguire innanzi, di presente in quel giorno se n’andò
a Borsella. I gentili uomini e i grandi borgesi di quella villa aveano
per addietro ordinato, che tutti gli artefici de’ mestieri stessono
fuori della città in grandi borghi che v’erano, per novità che v’erano
di loro riotte alcuna volta avvenute in pericolo della villa, e in
questa rotta non gli aveano lasciati rifuggire dentro. I borghi erano
grandi a maraviglia cresciuti per li mestieri, ed erano pieni e forniti
d’ogni bene. Il conte avendo in fuga i suoi nemici senza contasto
s’entrò ne’ borghi facendo alcuna uccisione, e comincionne ad affocare
uno, e disse, che tutti gli arderebbe se la terra non facesse i suoi
comandamenti. Gli artefici ch’abitavano ne’ borghi, e aveano di fuori
e nella villa di loro gente, e avendo già in loro balìa l’una delle
porte, dissono a’ borgesi, che non intendeano essere diserti colle loro
famiglie per loro, e che se di presente non facessono i comandamenti
del conte, che per forza il metterebbono nella villa. Per la qual
cosa vedendosi i borgesi dentro a mal partito, elessono di concordia
di volere innanzi essere all’ubbidienza del conte, che di lasciarsi
prendere per forza da’ Fiamminghi e da’ loro propri cittadini, e
guastare la città di sangue e di ruberia; e di presente elessono
ambasciadori, e mandaronli ne’ borghi al conte, che voleano ubbidire
a’ suoi comandamenti, promettendo salvarli d’uccisione e di ruberie,
e così fu fatto; e di presente furono aperte le porte, ed entrovvi il
conte e chi volle de’ Fiamminghi, ricevuti con grande onore da tutta
la villa, e apparecchiato loro come ad amici ciò che era di bisogno,
il conte ne prese la signoria dolcemente, e ordinovvi il reggimento e
la guardia come a lui parve; e rinfrescata la sua gente, il terzo dì
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