Cronica di Matteo Villani, vol. 1 - 15

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vicini, per la qual cosa poco appresso ricevettono quello che aveano
meritato per la loro follia, come ne’ suoi tempi racconteremo.

CAP. LVII.
_Come i Chiaravallesi di Todi vollono ribellare la terra e furono
cacciati._
Questa sfrenata baldanza de’ ghibellini di Toscana e della Marca per la
forza del Biscione facea gravi movimenti, tra’ quali, mentre che messer
Piero Sacconi guastava e predava il contado di Perugia, i Chiaravallesi
grandi cittadini di Todi, d’animo ghibellino, feciono venire il
prefetto di Vico con trecento cavalieri subitamente per metterlo in
Todi, e cacciarne i caporali guelfi che s’intendeano co’ Perugini; ed
essendo il prefetto con la detta cavalleria già presso alla città di
Todi, il popolo e’ guelfi scoperto il trattato de’ Chiaravallesi, di
subito presono l’arme e corsono sopra i traditori: i quali essendosi
più fidati alla venuta del prefetto che provveduti d’aiuto dentro
all’assalto del popolo, non ebbono forza a ributtarlo, ma francamente
sostennono la battaglia, consumando il rimanente del dì nella loro
difensione. I Perugini che tosto sentirono la novella vi cavalcarono
prestamente, sicchè la notte furono alla porta. Il popolo per metterli
nella terra spezzarono una porta, che già non erano signori d’aprirla,
ed entrati i Perugini in Todi, e fatto giorno, i Chiaravallesi furono
costretti d’uscire della città co’ loro seguaci, e fuggendo trovarono
assai di presso il prefetto colla sua gente che veniva a loro stanza, i
quali co’ cacciati insieme vituperosamente si tornarono indietro, e la
città rimase a più fermo stato di popolo e di parte guelfa col favore
de’ Perugini in suo riposo.

CAP. LVIII.
_Come que’ da Ricasoli rubellarono Vertine a’ Fiorentini._
Era in questi dì questione non piccola tra’ consorti della casa da
Ricasoli per cagione della pieve di san Polo di Chianti, che essendo
il piovano in decrepita età ammalato, temendo i figliuoli d’Arrigo e
il Roba da Ricasoli, che per maggioranza dello stato messer Bindaccio
da Ricasoli e’ figliuoli non occupassono la detta pieve, pervennono
ad accuparla contro la riformagione del comune di Firenze, onde
furono condannati nella persona a condizione; il Roba ubbidì, e fu
prosciolto: i figliuoli d’Arrigo, avvegnachè restituissono al comune
la possessione, non essendo loro attenuto quello che però fu loro
promesso dal comune, rimasono in bando; e sdegnati di questa ingiuria,
sapendo che molta roba de’ loro consorti era ridotta nel castello di
Vertine, accolsono centocinquanta fanti masnadieri, ed entrarono nel
castello, che non si guardava, e di presente l’afforzarono: e corsono
per le villate d’attorno, e misono nel castello molta roba, e gli
abituri e case de’ loro consorti arsono e guastarono. Il comune di
Firenze vi feciono cavalcare il podestà con certe masnade di cavalieri
e di pedoni, stimando che contro al comune non facessono resistenza:
ma i giovani trovandosi in luogo forte e bene guerniti, e la forza del
Biscione di presso, di cui il comune forte temeva, e favoreggiati da
Giovanni d’Ottolino Bottoni de’ Salimbeni di Siena, pensarono di tenere
il castello per forza, tanto che il comune di Firenze per riaverlo
farebbono la loro volontà: e però si misono a ribellione. E alla loro
follia aggiunse il tempo aiuto, che all’entrata di febbraio caddono
nevi grandissime l’una dopo l’altra, che stettono sopra la terra oltre
all’usato modo tutto il detto mese per tale maniera, che tale era a
cavalcare il contado di Firenze come le più serrate alpi. Lasceremo
Vertine tra le nevi nella sua ribellione, traendoci altra maggiore
materia in prima a raccontare.

CAP. LIX.
_Come i Veneziani e’ Catalani furono sconfitti in Romania da’ Genovesi._
Avendo in parte narrato lo sboglientamento delle guerre e delle
seduzioni italiane, benchè ci partiamo del paese, ci accade a
raccontare le marine battaglie che gl’Italiani medesimi feciono in
Romania tra loro. Era l’armata de’ Genovesi di sessantaquattro galee
presso a Pera sopra il passo di Turchia, e ivi stavano per riguardo
che l’armata de’ Veneziani e Catalani non passassono in Costantinopoli,
acciocchè non si aggiugnessono forza dall’imperadore ch’era in lega con
loro. I Veneziani e’ Catalani avendo soggiornato gran parte del verno
a Modone e Corone in Turchia, e riparate loro galee, si trovarono con
sessantasette galee bene armate, e con aiuto di molti legni e barche
armate di loro sudditi e di certi Turchi, avendo volontà d’essere a
Costantinopoli, dove s’accrescerebbe la loro forza e per mare e per
terra, senza attendere che il verno valicasse si misono a navicare
verso Costantinopoli, a intenzione di combattere co’ Genovesi se
impedire gli volessono. I Genovesi con le sessantaquattro galee armate,
avendo per ammiraglio messer Paganino Doria, e stando solleciti alla
guardia per attendere i loro nemici, mandarono a dì 7 di febbraio due
galee a Gallipoli per avere lingua di loro nemici, e quel dì trovarono
che l’armata de’ Veneziani e Catalani entravano all’isola de’ Principi.
Come i Genovesi ebbono questa novella si mossono per andare loro
incontro, e per forza d’impetuoso vento furono portati indietro al
porto di san Dimitrum verso Peschiera, dove stettono fino al lunedì,
a dì 13 di febbraio. E partiti di là con grande fatica, tornarono al
passo di Turchia. In questo mezzo tornarono le due galee con festa
ch’aveano seguita una galea de’ Veneziani e aveanla fatta dare in
terra, e campati gli uomini, la galea aveano arsa e profondata; allora
tutte le galee insieme si misono da capo per andare contro a’ nemici,
e poco avanzato di mare per lo contrario tempo, scopersono alla uscita
di Principi l’armata de’ Veneziani e Catalani che facevano la via verso
Grecia con grosso mare e molto vento in poppa. I Catalani e’ Veneziani
com’ebbono scoperti i loro nimici genovesi, si dirizzarono verso loro
colle vele piene per combattere, conoscendo il vantaggio che aveano
per l’aiuto del vento e del mare, e passare in Costantinopoli a loro
contradio. I Genovesi veggendosi venire addosso i nimici con le vele
piene si ristrinsono insieme sopra la Turchia, e ritennonsi da parte a
modo d’una schiera, per cessare e lasciare passare l’impeto de’ nimici,
temendo della percossa delle loro galee aiutate dalla forza del vento
e del mare. E come le galee veneziane e catalane passando vennono al
pari delle poppe delle galee de’ Genovesi, i Genovesi si sforzarono
per ingegni e per forza d’arme traversarne e ritenerne alcuna, ma non
ebbono podere, tanto era forte il corso di quelle. E così i Veneziani
e’ Catalani con le loro galee e co’ loro navili armati valicarono a
Valanca lasciandosi addietro l’armata de’ Genovesi, e aggiuntosi otto
galee armate di gente greca dell’imperadore di Costantinopoli, si
trovarono settantacinque galee e molti legni armati. Le sessantaquattro
galee de’ Genovesi per lo traversare che aveano voluto fare, avendo
i marosi e ’l vento contrario, erano scerrate e sparte, e vedendosi
disordinati, e con gli avversari passati, intendeano a raccogliersi
insieme senza seguire i nimici per riducersi nel porto di san
Dimitrum. I Veneziani e’ Catalani che si trovarono valicati per
forza, e accresciuta la loro potenza, vedendo che i Genovesi non
veniano verso di loro, e ch’aveano le galee sparte e male ordinate a
potere sostenere la battaglia, presono subitamente partito di tornare
loro addosso sperando avere piena vittoria. E dato il segno a tutta
l’oste, si dirizzarono per forza di remi, avendo il mare contradio, a
venire sopra le galee de’ Genovesi, le quali non erano ancora potute
raccogliersi insieme. Ma vedendo che tutto lo stuolo de’ Veneziani, e
Catalani e Greci erano rivolti per venire loro addosso, catuna parte
della loro armata, secondo che le galee genovesi si trovarono insieme,
non potendosi ristrignere nè raccozzarsi al loro ammiraglio, come
uomini di grande cuore e ardire s’ordinarono alla loro difesa, sempre
avendo riguardo e dando opera d’accostarsi al loro capitano, ma la
traversa del mare e la fortuna forte l’impediva. L’ammiraglio a tutte
le galee che avea appresso di se fece trarre l’ancore, e ritrarsi
alquanto fuori delle grosse maree, e dirizzossi contro a’ suoi nimici
con la sua galea grossa e con sette altre che avea in sua compagnia;
e date le prode contro a’ nimici, feciono testa. Il capitano delle
galee veneziane e quello delle catalane, con seguito di gran parte
della loro armata, si trassono innanzi, avendo contrario il mare, per
assalire i loro nimici. I Genovesi vedendoli venire, mandarono loro
incontro due delle loro galee sottili per assaggiarle con le loro
balestra, e cominciare lo stormo a modo di badalucco. Il capitano
de’ Catalani s’avanzò innanzi, e quello de’ Veneziani appresso, per
investire la galea dell’ammiraglio de’ Genovesi, ma trovandole serrate
e bene in concio, non le investirono, e non si afferrarono con loro, o
per codardia, o per maestria di tramezzare l’altre galee de’ Genovesi
innanzi che si raccogliessono al loro ammiraglio: ma dietro a loro tre
grosse de’ Veneziani si misono a combattere la galea dell’ammiraglio
di Genova, e l’altre galee contro quelle ch’erano in diverse parti del
mare; e cominciata da ogni parte l’aspra battaglia tra l’una armata
e l’altra, le due grosse de’ Veneziani si misono per proda e una per
banda a combattere la sopra galea dell’ammiraglio de’ Genovesi. Quivi
fu lunga e aspra e grande battaglia, perocchè d’ogni parte s’aggiunsono
galee a quello stormo, e quivi furono molti fediti e morti da catuna
parte; e valicato l’ora del vespero, per lo grande aiuto delle galee
de’ Genovesi che soccorsono il loro ammiraglio, le tre de’ Veneziani
che s’erano afferrate con quella rimasono sbarattate e prese; e
l’altre galee de’ Veneziani e Catalani, ch’erano passate e divise tra
l’ammiraglio e l’altre galee genovesi, combattendo in diverse parti
cacciarono delle galee de’ Genovesi: in prima dieci galee, che per
campare le persone diedono in terra verso sant’Agnolo, abbandonati i
corpi delle galee a’ nimici, morti e perduti assai de’ compagni, il
rimanente si fuggì a Pera; e dopo queste altre tre galee de’ Genovesi
fuggendo innanzi a’ Veneziani feciono il simigliante, e abbandonati i
corpi delle galee si fuggirono a Pera. I Veneziani e’ Catalani misono
fuoco in quelle galee, e tutte le profondarono; e oltre a queste altre
sei galee de’ Genovesi si fuggirono nel Mare maggiore per campare.
Dall’altra parte i Genovesi combattendo per forza d’arme delle galee
de’ Veneziani e Catalani e Greci in diversi abboccamenti, con grande
uccisione di catuna parte, ne vinsono e presono assai: ma però non
sapea l’uno dell’altro chi avesse il migliore. La tempesta del mare era
grande, e non lasciava riconoscere nè raccogliere insieme alcuna delle
parti. E avendo per questo modo disordinato e fortunoso combattuto
fino alla notte senza sapere chi avesse vinto o perduto, l’uno residuo
dell’armata e l’altro si ridussono a terra alle Colonne al porto di
Sanfoca; e dividendoli la notte, dilungata l’una parte dall’altra il
più che si potè, nel detto porto cercarono per quella notte alcuno
sollevamento dalle fatiche agli affannati corpi.

CAP. LX.
_Di quello medesimo._
La mattina vegnente, a dì 14 di febbraio, i Veneziani, Catalani e Greci
che si conobbono essere maltrattati in quella battaglia da’ Genovesi,
innanzi che ’l sole alzasse sopra la terra, per paura che i Genovesi,
ravveduti del danno che aveano fatto loro, non li sorprendessono
in quel luogo, si partirono, e andarsene a un porto che si chiama
Trapenon, ch’è nella forza de’ Greci, ove poterono stare più sicuri. I
Genovesi venuto il giorno, ricercarono la loro armata, e trovarono meno
le tredici galee profondate, e le sei ch’erano andate fuggendo i nimici
nel Mare maggiore: e della loro gente si trovarono molto scemati, tra
morti e annegati e fuggiti. Dall’altra parte trovarono, che aveano
prese quattordici galee de’ Veneziani, e dieci de’ Catalani e due de’
Greci, e allora conobbono che i nimici come rotti s’erano partiti e
fuggiti a Trapenon. E trovandosi avere morti di loro nimici intorno
di duemila, e presine milleottocento, ebbono certezza della loro poco
allegra vittoria, e incontanente de’ loro prigioni fediti e magagnati
lasciarono quattrocento, acciocchè non corrompessono la loro gente, e
per fare alcuna misericordia della loro vittoria. Ma tanto fu il loro
danno de’ morti e fediti, e d’avere perdute le loro galee, che della
detta vittoria non poterono far festa. Questa battaglia non ebbe ordine
nè modo, anzi fu avviluppata e sparta come la tempesta marina: e però
com’ella fu varia e non potuta bene cernere nè vedere, non l’abbiamo
potuta con più certo e chiaro ordine recitare.

CAP. LXI.
_Come per le discordie de’ paesani la Sicilia era in grave stato._
Partendoci dalle battaglie fatte per gl’Italiani negli strani paesi,
ci occorre l’intestino male dell’isola di Sicilia: la quale non avendo
nemico strano, tanto mortalmente crebbe il furore delle loro parti, che
senza alcuna misericordia, come salvatiche fiere, ovunque s’abboccavano
s’uccidevano, per aguati, per tradimenti, e per furti di loro tenute
continovo adoperavano il fuoco e il ferro, onde molti gentiluomini,
e altre genti del paese perderono la materia delle paesane divisioni
per le loro violenti morti; e ancora per questo tanto si disusarono i
campi della cultura, tanto si consumarono i frutti ricolti, che l’isola
per addietro fontana d’ogni vittuaglia, per inopia e per fame faceva
le famiglie de’ suoi popoli in grande numero pellegrinare negli altri
paesi. E per partirci un poco da tanta crudele infamia, la seguente
ferina crudelezza, con vergogna degli uomini di quella lingua, sia
per ora termine a questa materia. Un Catalano, il quale teneva una
rocca nella Valle di... fece a’ suoi compagni tenere trattato col
conte di Ventimiglia, il quale avendo voglia d’avere quella rocca,
con troppa baldanzosa fidanza sotto il trattato entrò nel castello
con centoquattro compagni, benchè più ve ne credesse mettere: ma come
con questi fu dentro, per l’ordine preso pe’ traditori furono chiuse
le porti, e ’l conte e i compagni presi; e avendovi uomini i quali si
volevano ricomperare grande moneta, ed erano da riserbare per i casi
fortunevoli della guerra, tanto incrudelì l’animo feroce de’ Catalani,
che senza arresto spogliati ignudi i miseri prigioni, e legati colle
mani di dietro, l’uno dopo l’altro posto a’ merli della maggiore torre
della rocca, sopra uno dirupinato grandissimo furono dirupinati senza
niuna misericordia, lacerando i miseri corpi con l’impeto della loro
caduta a’ crudeli sassi. Il conte solo fu riserbato, non per movimento
d’alcuna umanità, ma per cupidigia di avere per la sua testa alcuno suo
castello vicino a’ crudi nemici. Chi crederebbe questa sevizia trovare
tra’ fieri popoli delle barbare nazioni, la quale tra i cristiani, tra
i consorti d’uno reame, tra i vicini passò le crudeltà de’ tigri, e la
fierezza de’ più salvatichi animali che la terra produca? E perocchè
trovare non si potrebbe maggiore, trapassiamo a un’altra di minore
numero, ma forse non di minore infamia.

CAP. LXII.
_Come fu in Firenze tagliate le teste a più de’ Guazzalotri di Prato._
Avendo narrata la grande crudeltà de’ Catalani, un’altra sotto ombra
di non vera scusa, non senza biasimo dell’abbandonata mansuetudine
del nostro comune, ci s’offera a raccontare. I Guazzalotri di Prato,
come è detto addietro, innanzi che il comune il comperasse, usando la
tirannia di quello tirannescamente, ne furono abbattuti: per questo
l’animo di Iacopo di Zarino caporale di quella casa era mal contento,
avvegnachè assai onestamente sel comportasse. Avvenne che alquanti
cittadini di Firenze, animosi di setta, calunniarono lui e alquanti
cittadini di Firenze di trattato contro al comune, della qual cosa
convenne che in giudicio si scusassono, e non trovandosi colpevoli, fu
infamia a quella gente che quello aveano loro apposto, ed egli con gli
altri infamati furono prosciolti. Avvenne appresso, o per fuggire il
pericolo degl’infamatori, o per sdegno conceputo, andando per podestà a
Ferrara, fu ritenuto dal tiranno di Bologna e poi lasciato, rimanendo
per stadico il figliuolo; e tornato a Firenze, e preso sospetto di
lui, fu confinato a Montepulciano: i quali confini, qual che si fosse
la cagione, e’ non seppe comportare, e fece suo trattato col signore
di Bologna per ritornare in Prato; per la qual cosa venne a Vaiano in
Valdibisenzio, e fece richiedere de’ suoi amici, e da Siena vennono
lettere al comune di Firenze di questo fatto: per le quali il nostro
comune di presente vi mise gente d’arme alla guardia, per modo che
non se ne potea dottare. Nondimeno i cittadini che reggevano allora il
comune, animosi per setta, volendo aggravare l’infamia, in su la mezza
notte feciono chiamare delle letta e armare i cittadini, e trarre fuori
i gonfaloni, come se i nimici fossono alle porti, di che i reggenti
ne furono forte biasimati. Nondimeno seguendo loro intendimento,
aveano fatto venire da Prato tutti gli uomini di casa i Guazzalotri,
i quali per numero furono sette; e incontanente, come uomini guelfi
e innocenti, e che dell’imprese di Iacopo di Zarino erano ignoranti,
vennono a Firenze: ed essendo tutti in su la porta del palagio de’
priori, un fante giunse il dì medesimo, che le guardie erano rinforzate
in Prato, il quale disse loro da parte di Iacopo, com’egli intendea
d’essere quella notte in Prato. Costoro di presente furono a’ signori
e a’ loro collegi, e dissono quello che in quell’ora Iacopo avea loro
mandato a dire, scusando la loro innocenza. I priori co’ loro collegi
non dimostrando di loro alcuno sospetto, gli licenziarono per quel
giorno: l’altra mattina gli feciono chiamare, e tutti senza sospetto
andarono a’ signori, fuori d’un giovane, il quale quanto che non
fosse colpevole, temette di venire in esaminazione; gli altri furono
ritenuti, e messi nelle mani del capitano del popolo, uomo di poca
virtù, e fatti pigliare certi Pratesi, e un Fiorentino de’ Galigai,
e due fabbri di contado, tutti per gravi martori confessarono, come
coloro che questo feciono fare vollono, e subitamente, improvviso
agli altri cittadini, il detto capitano, del mese di marzo 1351,
fece decapitare i nove, e i fabbri impiccare; la qual cosa fu tenuta
crudele e ingiusta sentenza, e molto dispiacque a’ cittadini, perocchè
manifesto fu che non erano colpevoli. Abbiamone detto steso per due
cagioni, l’una per manifestare di quanto pericolo sono le sette
cittadinesche, che i giusti spesso com’e’ colpevoli involgono in
capitale sentenza; la seconda per dimostrare quanto a Dio dispiace
quando si spande l’innocente sangue: che per quello che i Guazzalotri
poco innanzi sparsero per tirannia nella loro terra, il loro per
simigliante modo fu sparto nella città di Firenze.

CAP. LXIII.
_Come il tiranno d’Orvieto fu morto._
In questo anno, del mese di marzo, essendo tiranno d’Orvieto Benedetto
di messer Bonconte de’ Monaldeschi, il quale poco dinanzi aveva morti
due suoi consorti per venire alla tirannia, e stando in quella per
operazione de’ suoi consorti, da uno fante nel suo palagio fu morto.
Per la morte di costui la città fu in grave divisione; ma coll’aiuto
di gente e d’ambasciadori perugini s’acquetò alquanto il popolo
con alcuno lieve e non fermo stato, perocchè tutta la terra era
insanguinata per la divisione della casa de’ Monaldeschi, e avendo
dentro poca concordia, e di fuori sparti per lo contado e distretto
i cittadini cacciati, rimase lo stato dubbioso a potere sostenere; e
per la cavalleria che l’arcivescovo di Milano aveva in Toscana e nella
Marca, i comuni di parte guelfa poco consiglio vi misono, onde ne
seguì la rivoltura che appresso seguendo nostro trattato nel suo tempo
racconteremo.

CAP. LXIV.
_Come i Fiorentini assediarono Vertine._
Nel predetto mese di marzo i Fiorentini feciono porre l’oste al
castello di Vertine, e strignerlo con due campi al trarre delle
balestra, e rizzaronvi due mangani che tutto dì gittavano, abbattendo
e guastando le case della terra. Nell’oste avea seicento cavalieri,
e millecinquecento masnadieri di soldo, i quali deliberarono di
combattere il castello e vincerlo per battaglia: ma avvenne mirabile
cosa, che quasi pareva fatta per arte magica, che il tempo si corruppe
all’acqua, che dì e notte non ristò infino alla Pasqua; e impedì tanto
l’oste, che alla battaglia non si potè venire per niun modo, e quelli
del castello ebbono agio di farlo più forte alla difesa; e per questa
cagione, e perchè dentro avea franca masnada di buoni briganti, poco
parea si curassono de’ Fiorentini, e minacciavano di darlo al Biscione;
e così francamente il tennono in fino all’uscita d’aprile, come
appresso diviseremo.

CAP. LXV.
_Come in corte fu fermata la pace dal re d’Ungheria a’ reali di Puglia._
Essendo per lungo tempo trattata in corte di Roma a Vignone la pace
tra il re d’Ungheria e i reali del regno di Cicilia di qua dal Faro,
papa Clemente essendo guarito della sua infermità, nella quale aveva
avuta grave riprensione di coscienza, perchè aveva sostenuta la detta
causa in contumacia, potendola acconciare, con singulare sollecitudine
mise opera che la pace si facesse. Ed essendo il re d’Ungheria con un
solo fratello re di Pollonia, senza avere altri consorti fuori de’
reali del regno di Cicilia, e già soddisfatto in parte non piccola
della vendetta del fratello, agevolmente si dispose a volere la pace,
gradendola al papa e a’ cardinali che con istanza ne pregavano, e però
mandò a corte suoi ambasciadori con pieno mandato, informati di sua
intenzione, lo eletto di cinque chiese, e un vescovo d’Ungheria, e
Gulforte Tedesco fratello di messer Currado Lupo vicario nel Regno del
detto re; e del mese di gennaio 1351, i detti ambasciadori in presenza
del papa e de’ cardinali, come ordinato fu per lo detto papa, si fece
la pace con gli ambasciadori del re Luigi e della reina Giovanna in
nome di tutti i reali di quella casa. E per parte del re Luigi e della
reina furono fatte l’obbliganze, per le quali, secondo che ’l papa e i
cardinali aveano trattato, il re e la reina doveano dare e restituire
al re d’Ungheria trecentomila fiorini d’oro in diversi termini,
per sodisfacimento delle spese che il re d’Ungheria avea fatte in
quell’impresa del Regno. E fatte le dette cautele e la detta pace, il
papa per l’autorità sua e del consiglio de’ suoi cardinali per decreto
confermò ogni cosa, confermando la pace, e consentendo all’obbligagione
pecuniaria del reame. E fornito ogni cosa solennemente, innanzi che
della casa si partissono le parti, gli ambasciadori del re d’Ungheria,
improvviso a tutti, seguendo il mandato segreto che aveano dal
loro signore, di grazia spontaneamente, per propria volontà del re
d’Ungheria, finirono e quetarono al re, e alla reina, e a’ reali di
Puglia, e al Regno, e alla Chiesa di Roma, di cui è il detto reame,
i detti trecentomila fiorini d’oro, dicendo, come il loro signore non
avea fatta quell’impresa per avarizia, ma per vendicare la morte del
suo fratello. E incontanente si partì Gulforte, e tornò in Ungheria a
fare assapere al re come fatto era quanto egli avea comandato, a grande
grado e piacere di santa Chiesa. E i sopraddetti prelati andarono
nel Regno a trarne gli Ungheri che v’erano salvamente, e a fare per
comandamento del loro signore restituire al re Luigi e alla reina tutte
le città, e terre e castella che la sua gente vi tenea. E fatto questo
accordo, quale che si fosse la cagione, il re d’Ungheria non lasciò
incontanente i reali ch’aveva prigioni in Ungheria, anzi gli tenne
insino al settembre prossimo, come al suo tempo si dirà, occorrendoci
altre cose che prima richieggono il debito alla nostra penna.

CAP. LXVI.
_Come l’arcivescovo trattava pace colla Chiesa._
In questo tempo, del verno, l’arcivescovo di Milano continovo mantenea
a corte solenni ambasciadori a procurare la sua riconciliazione con
santa Chiesa, e a ciò movea il re di Francia con forza di grandi doni
che gli faceva, e al continovo pregava per sue lettere il papa e’
cardinali che perdonassono all’arcivescovo, ed egli per essere più
favoreggiato domandava pace. I parenti del papa e certi cardinali
erano sì altamente provveduti, e sì spesso, che continovo pregavano per
lui il papa, e la contessa di Torenna non finava, per la qual cosa il
papa dimenticava l’onore e l’ingiurie di santa Chiesa. E non ostante
che tenesse sospesi gli ambasciatori de’ comuni di Toscana delle cose
che aveano proposto loro, gli ambasciadori continovo ricordavano in
concistoro l’offese fatte per l’arcivescovo e pe’ suoi antecessori,
e l’ingiurie e violenze che fatte avea, e continovo faceva a’ comuni
di Toscana fedeli e divoti di santa Chiesa. Il papa non ostante ciò
favoreggiava oltre al modo onesto la causa del tiranno, onde per alcuno
cardinale ne fu cortesemente ripreso; a costui e agli altri cardinali
che mostravano in concistoro di essere zelanti dell’onore di santa
Chiesa, procedendo il tempo, coll’ingegno e coll’arte e co’ doni del
tiranno furono racchiuse le bocche, e aperte le lingue in suo favore,
sicchè ultimamente pervenne alla sua intenzione, come seguendo al suo
tempo dimostreremo.

CAP. LXVII.
_Della gran fame ch’ebbono i barbari di Morocco._
Avvenne in quest’anno nel reame di Morocco e nel reame della Bella
Marina un’inopinata fame per sterilità del paese, la qual fame gittò
gran carestia in Granata e nella Spagna, e stesesi per la Navarra,
e appresso in Francia infino a Parigi: che per portare il grano a’
barbari, per disordinato guadagno che se ne facea, venne lo staio di
libbre cinquanta di peso in Parigi in valuta di due fiorini d’oro,
e per lo paese non molto meno. E i barbari saracini per sostentare
la vita s’ordinarono continovo digiuno, il quale sodisfacevano con
tre once di pane dato loro, e con un poco d’olio quanto teneva la
palma della mano, nel quale intignevano il detto pane, e con questo
mantenevano la loro vita: nondimeno gran quantità ne morirono di fame
in quell’anno.

CAP. LXVIII.
_Come i rettori di Firenze cominciarono segretamente a trattare accordo
con l’eletto imperadore._
Mentre che il comune di Firenze e di Siena aveano gli ambasciadori
a corte di papa contro all’arcivescovo di Milano, avvedendosi che
la Chiesa per le preghiere del re di Francia e d’altri baroni, e per
la grande quantità di moneta che il tiranno spendea in corte, colla
quale avea recato in suo favore tutta la corte, ed era per essere
riconciliato e fatto assai maggiore che non era in prima, diffidandosi
di non potere per loro resistere alla sua potenza, ordinarono molto
segretamente di volere far muovere della Magna messer Carlo re de’
Romani eletto imperadore, e però mandarono e feciono venire d’Alemagna
a Firenze segretamente un suo cancelliere con grande mandato: il quale
fu collocato e stette tutto il verno racchiuso in san Lorenzo per modo,
che i Fiorentini non sapeano chi si fosse, e di notte andavano a lui
segretari del comune, i quali trattavano il modo della venuta del detto
eletto, col favore e aiuto grande del detto comune, per abbattere la
tirannia dell’arcivescovo: e in fine vennono col detto cancelliere a
piena concordia, tanto che, nonostante l’antico odio del nome imperiale
a’ detti comuni, fu loro lecito di piuvicare la detta concordia accetta
a’ detti popoli, come a suo tempo racconteremo.

CAP. LXIX.
_Come la gente de’ Fiorentini che andavano a fornire Lozzole furono
rotti dagli Ubaldini._
Entrando nel mese d’aprile 1352, essendo commesso per lo comune di
Firenze al capitano del Mugello che fornisse Lozzole che i Fiorentini
tenevano nel Podere, acciocchè più chiusamente si facesse, si mise
a farlo con sì poca provvisione, che più dì innanzi fu palese agli
Ubaldini la cavalcata che fare si doveva. I quali in que’ dì aveano
colla gente dell’arcivescovo di Milano preso il Monte della Fine a’
confini di Romagna, il quale era stato accomandato, ma non difeso da’
Fiorentini. E avendo la gente apparecchiata, si misono in più aguati
nell’alpe, ove stettono più dì aspettando la scorta de’ Fiorentini
per fornire Lozzole. Il folle capitano di Mugello con quattrocento
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