Cronica di Matteo Villani, vol. 1 - 14

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cavalli secondo l’usanza, e lasciaronli alla fede: e questo fu del mese
di dicembre del detto anno.

CAP. XLIV.
_D’una cometa ch’apparve in oriente._
In questo anno 1351, del detto mese di dicembre, si vide in prima in
cielo a noi verso levante una cometa, la quale per li più fu giudicata
Nigra, la quale è di natura saturnina. Il suo apparimento fu a noi
all’uscita del segno del Cancro, e alcuni dissono ch’ella entrò nel
Leone: ma innanzi che per noi si vedesse fuori del Cancro, fu fuori del
verno, sicchè approssimandosi il Sole al Cancro se ne perdè la vista.
Alcuni pronosticarono morte di grandi signori, ovvero per decollazione,
e avvenimento di signorie. Noi stemmo quell’anno a vedere le novità che
più singolari e grandi apparissono onde avere potessimo novelle, e in
Italia e nel patriarcato d’Aquilea furono molte dicollazioni di grandi
terrieri e cittadini, che lungo sarebbe a riducere qui i singulari
tagliamenti. E mortalità di comune morte in questo anno non avvenne: ma
per la guerra de’ Genovesi, e Veneziani e Catalani avvennono naufragii
grandi, e mortalità di ferro grandissima in quelle genti e ne’ loro
seguaci, e per i difetti sostenuti in mare non meno ne morirono
tornando che combattendo. Avvenne in Italia singolare accidente al
grano, vino e olio e frutti degli alberi, che essendo ogni cosa in
speranza di grande ubertà, subitamente del mese di luglio si mosse una
sformata tempesta di vento, che tutti gli alberi pericolò de’ loro
frutti, e i grani e le biade ch’erano mature battè e mise per terra
con smisurato danno. Dappoi a pochi dì fu il caldo sì disordinato, che
tutte le biade verdi inaridì e seccò. Per questo accidente avvenne,
che dove s’aspettava ricolta fertile e ubertosa, fu generalmente per
tutta Italia arida e cattiva. E avvennono in questi anni singulari
diluvi d’acque, che feciono in molte parti gran danni, e gittò per
tutta Italia generale carestia di pane e sformata di vino. In questo
medesimo mese di dicembre apparve la mattina anzi giorno, a dì 17, un
grande bordone di fuoco, il quale corse di verso tramontana in mezzodì.
E in questo medesimo anno all’entrare di dicembre morì papa Clemente
sesto, e alcuno de’ cardinali. Al nostro lieve intendimento basta di
questi segni del cielo e delle cose occorse averne raccontato parte,
lasciando agli astrolaghi l’influenza di quello che s’appartiene alla
loro scienza, e noi ritorneremo alla più rozza materia.

CAP. XLV.
_Come fu preso il castello della Badia de’ Perugini, e come si
racquistò._
Essendo i Perugini imbrigati nelle rubellioni delle loro terre per
gli assalti de’ loro vicini, con la forza dell’arcivescovo di Milano,
la quale di prima, come addietro narrammo, nel tempo che si cercò
di fare lega con la Chiesa e co’ Lombardi, dicevano che non si potea
stendere a loro, due conestabili di fanti a piè cittadini sbanditi di
Firenze, partendosi dal soldo del tiranno d’Agobbio co’ loro compagni,
di furto entrarono nel castello della Badia, grosso castello, il quale
era de’ Perugini, e cominciarono a correre e predare le villate vicine
con l’aiuto di Giovanni di Cantuccio signore d’Agobbio. I Perugini vi
mandaro certe masnade di cavalieri che aveano di Fiorentini e altra
gente a piè: costoro vi si puosono a oste del mese di gennaio. Giovanni
di Cantuccio con la cavalleria ch’avea dell’arcivescovo di Milano
e co’ suoi fanti a piè, essendo tre cotanti di cavalieri e di fanti
che quelli de’ Perugini, andarono per levarli da campo e fornire il
castello. Un conestabile tedesco delle masnade de’ Fiorentini valente
cavaliere, ch’avea nome M... si fece incontro a’ nimici a un ponte onde
conveniva ch’e’ nimici venissono, e francamente li ritenne, tanto che
l’altra cavalleria de’ Perugini ch’era alla Città di Castello venne
al soccorso del passo: e giunti, valicarono il ponte, e per forza
cacciarono l’oste di Giovanni di Cantuccio in rotta, e presono cento e
più de’ cavalieri del Biscione: e tornati al castello, i masnadieri che
’l teneano, vedendosi fuori di speranza di avere soccorso, il renderono
a’ Perugini, salvo le persone e l’arme, a dì 6 del detto mese di
gennaio.

CAP. XLVI.
_Come i Fiorentini cercarono lega co’ comuni di Toscana, e accrebbono
loro entrata._
Temendo il comune di Firenze la gran potenza del signore di Milano,
fornito della compagnia de’ ghibellini d’Italia, con suoi ambasciadori
smosse i Perugini Sanesi e Aretini a parlamento alla città di Siena,
del mese di dicembre del detto anno, e ivi composono lega e compagnia
di tremila cavalieri e di mille masnadieri, contra qualunque volesse
fare guerra a’ detti comuni o ad alcuno di quelli; e incontanente il
comune di Firenze si fornì di cavalieri e di masnadieri di più assai
che in parte della lega non li toccava. E per avere l’entrata ordinata
a mantenere la spesa elessono venti cittadini, con balìa a crescere
l’entrata e le rendite del comune, i quali commutarono il disutile
e dannoso servigio de’ contadini personale in danari, compensandoli
che pagassono per servigio di cinque pedoni per centinaio del loro
estimo per rinnovata dell’anno, a soldi dieci il dì per fante: e
questo pagassono in tre paghe l’anno, e fossono liberi dell’antico
servigio personale: o quando per necessità occorresse il bisogno del
servigio personale, scontassono di questo. E questa entrata secondo
l’estimo nuovo montò l’anno cinquantaduemila fiorini d’oro, e fu grande
contentamento de’ condannati. E a’ cherici ordinarono certa taglia
per aiuto e guardia e alla difesa della città e del contado, la quale
stribuirono e raccolsono i loro prelati, e montò fiorini ... d’oro; e
raddoppiarono e crebbono più gabelle, per le quali entrate il comune
potè spendere l’anno trecentosessantamila fiorini d’oro. E oltre a ciò
ordinarono e distribuirono tra’ cittadini la gabella de’ fumanti, la
quale nel fatto fu per modo di sega, che catuno capo di famiglia fu
tassato in certi danari il dì per modo, che raccogliendosi il numero
montava fiorini d’oro centoquaranta il dì: poi per ogni danaro che
l’uomo avea di sega, fu recato in estimo di soldi trenta; e questa
gabella montava l’anno fiorini cinquantamila d’oro: e quando il comune
aveva necessità, riscoteva questa gabella per avere i danari presti,
e assegnavali alla restituzione di certe gabelle. Per queste sformate
gravezze, avendo carestia generale delle cose da vivere, era la città
e il contado in assai disagio, forse meritevolmente per la dissoluta
vita, e’ disordinati e non leciti guadagni de’ suoi cittadini.

CAP. XLVII.
_Come i Romani feciono rettore del popolo._
In questo anno essendo per lo corso stato a Roma del general
perdono arricchito il popolo, i loro principi e gli altri gentilotti
cominciarono a ricettare i malandrini nelle loro tenute, che facevano
assai di male, rubando, e uccidendo, e conturbando tutto il paese.
Senatore fu fatto Giordano dal Monte degli Orsini, il quale reggeva
l’uficio con poco contentamento de’ Romani. E per questa cagione gli
fu mossa guerra a un suo castello, per la quale abbandonò il senato.
Il vicario del papa ch’era in Roma, messer Ponzo di Perotto vescovo
d’Orvieto, uomo di grande autorità, vedendo abbandonato il senato,
con la famiglia che aveva, in nome del papa entrò in Campidoglio per
guardare, tanto che la Chiesa provvedesse di senatore. Iacopo Savelli
della parte di quelli della Colonna accolse gente d’arme, e per forza
entrò in Campidoglio e trassene il vicario del papa, e Stefano della
Colonna occupò la torre del conte, e la città rimase senza governatore,
e catuno facea male a suo senno perocchè non v’era luogo di giustizia.
E per questo il popolo era in male stato, la città dentro piena di
malfattori, e fuori per tutto si rubava. I forestieri e i romei erano
in terra di Roma come le pecore tra’ lupi: ogni cosa in rapina e in
preda. A’ buoni uomini del popolo pareva stare male, ma l’uno s’era
accomandato all’una parte, e l’altro all’altra di loro maggiori, e però
i pensieri di mettervi consiglio erano prima rotti che cominciati:
e la cosa procedeva di male in peggio di dì in dì. Ultimamente non
trovando altro modo come a consiglio il popolo si potesse radunare,
il dì dopo la natività di Cristo, per consuetudine d’una compagnia
degli accomandati di Madonna santa Maria, s’accolsono avvisatamente
molti buoni popolani in santa Maria Maggiore, e ivi consigliarono di
volere avere capo di popolo: e di concordia in quello stante elessono
Giovanni Cerroni antico popolare de’ Cerroni di Roma, uomo pieno d’età,
e famoso di buona vita. E così fatto, tutti insieme uscirono della
chiesa e andarono per lui, e smosso parte del popolo, il menarono
al Campidoglio ov’era Luca Savelli. Il quale vedendo questo subito
movimento non ebbe ardire di contastare il popolo, ma dimandò di loro
volere: ed e’ dissono che voleano Campidoglio, il quale liberamente
diè loro; ed entrati dentro sonarono la campana: il popolo trasse al
Campidoglio d’ogni parte della città senza arme, e i principi con le
loro famiglie armati, ed essendo là, domandarono la cagione di questo
movimento e quello che ’l popolo volea: il popolo d’una voce risposono
che voleano Giovanni Cerroni per rettore, con piena balía di reggere
e governare in giustizia il popolo e comune di Roma. E consentendo
i principi all’ordinazione del popolo, di comune volontà fu fatto
rettore; e mandato per lo vicario del papa che lo confermasse, come
savio e discreto volle che prima giurasse la fede a santa Chiesa, e
d’ubbidire i comandamenti del papa, e ricevuto di volontà del popolo
il saramento dal rettore, il confermò per quell’autorità che aveva: e
tutto fu fatto in quella mattina di santo Stefano, innanzi ch’e’ Romani
andassono a desinare. E lasciato il rettore in Campidoglio, catuno si
tornò a casa con assai allegrezza di quello ch’era loro venuto fatto
così prosperamente.

CAP. XLVIII.
_Di una lettera fu trovata in concistoro di papa._
Essendo per lo papa e per i cardinali molto tratto innanzi il processo
contro al’arcivescovo di Milano, una lettera fu trovata in concistoro,
la quale non si potè sapere chi la vi recasse, ma uno de’ cardinali
la si lasciò cadere avvisatamente in occulto: la lettera venne alle
mani del papa, e la fece leggere in concistoro. La lettera era d’alto
dittato, simulata da parte del principe delle tenebre al suo vicario
papa Clemente e a’ suoi consiglieri cardinali: ricordando i privati e
comuni peccati di catuno, ne’ quali li commendava altamente nel suo
cospetto, e confortavali in quelle operazioni, acciocchè pienamente
meritassono la grazia del suo regno: avvilendo e vituperando la vita
povera e la dottrina apostolica, la quale come suoi fedeli vicari
eglino aveano in odio e ripugnavano, ma non ferventemente ne’ loro
ammaestramenti come nell’opere, per la qual cosa li riprendeva e
ammoniva che se ne correggessono, acciocchè li ponesse per loro
merito in maggiore stato nel suo regno. La lettera toccò molto e bene
i vizi de’ nostri pastori di santa Chiesa, e per questo molte copie
se ne sparsono tra’ cristiani. Per molti fu tenuto fosse operazione
dell’arcivescovo di Milano allora ribello di santa Chiesa, potentissimo
tiranno, acciocchè manifestati i vizi de’ pastori si dovessono più
tollerare i suoi difetti, manifesti a tutti i cristiani. Ma il papa
e i cardinali poco se ne curarono, come per innanzi l’operazioni si
dimostreranno.

CAP. XLIX.
_Come il re d’Inghilterra essendo in tregua col re di Francia acquistò
la contea di Guinisi._
Avvenne in questo anno, che un Inghilese prigione nella forte rocca
di Guinisi, la quale era del re di Francia, essendo per ricomperarsi,
avea larghezza d’andare per la rocca, e così andando, provvide l’ordine
delle guardie e l’altezza d’alcuna parte della rocca ond’ella si
potesse furare. E pagati i danari della sua taglia, fu lasciato; e
trovatosi con alquanti sergenti d’arme, suoi confidenti, disse ove
potesse avere il loro aiuto gli farebbe ricchi. E presa fede da loro
manifestò come intendea furare la rocca di Guinisi, e avea provveduto
come fare il poteva, i quali arditi e volonterosi di guadagnare
promisono il servigio: ed essendo tra tutti cinquanta sergenti bene
armati, avendo scale fatte alla misura del primo procinto, una notte in
su l’ora che l’Inghilese sapea che la guardia della mastra fortezza vi
si rinchiudea dentro, condotte le scale al muro chetamente montarono
sopra il primo procinto: e sorprese le guardie, per non lasciarsi
uccidere si lasciarono legare, e così legati gli faceano rispondere
all’altre guardie della rocca. Quando venne in sul fare del dì
gl’Inghilesi feciono alle guardie muovere riotta, e fare romore tra
loro in modo di mischia. Il castellano sentendo questo tra le guardie,
mostrando non avere sospetto scese della rocca, e aprendo l’uscio per
venire a correggere le guardie, gl’Inghilesi apparecchiati nell’aguato,
immantinente con l’armi ignude in mano furono sopra lui, e presono
l’uscio ed entrarono nella rocca, e presono il castello e le guardie.
E incontanente mandarono al re d’Inghilterra come aveano presa la
forte rocca di Guinisi, la quale il re molto desiderava. E di presente
vi mandò gente d’arme e fecela prendere e guardare, e commendata
la valenza e l’industria del suo fedele e degli altri scudieri fece
loro onore e provvidegli magnificamente. E per questa rocca fu il re
d’Inghilterra in tutto signore della contea di Guinisi, e il re di
Francia forte conturbato. E avvegnachè questa presura andasse per la
forma che è detto, e’ si trovò poi che il castellano avea consentito
al tradimento, e tornato di prigione, essendo lasciato, in Francia fu
squartato.

CAP. L.
_Il piato fu in corte tra’ due re per la contea di Guinisi._
Essendo furata la contea di Guinisi al re di Francia sotto la
confidanza delle triegue, trasse in giudicio il re d’Inghilterra a
corte di Roma per suoi ambasciadori, dicendo che sotto la fede delle
triegue prestata il re d’Inghilterra gli avea tolto per furto la rocca,
e la contea occupata per forza. Per la parte del re d’Inghilterra fu
risposto, che avendo per suo prigione il conte di Guinisi conestabile
di Francia preso in battaglia, e dovendosi riscattare per lo patto
fatto della sua taglia scudi ottantamila d’oro, o in luogo di danari
la detta contea di Guinisi, e lasciato alla fede acciocchè procacciare
potesse la moneta, il re di Francia appellandolo traditore, per non
averlo a ricomperare, o acconsentirgli la contea di Guinisi il fece
dicollare: e così contro a giustizia privò il re d’Inghilterra delle
sue ragioni, le quali giustamente avea racquistate. La quistione fu
grande in concistoro, e pendeva la causa in favore del re di Francia,
e però innanzi che sentenza se ne desse, il re fece restituire la terra
di Guinisi a quell’Inghilese che data glie l’avea; e seguendo la morte
di papa Clemente non ne seguì altra sentenza.

CAP. LI.
_Come l’arcivescovo di Milano ragunò i suoi soldati per rifare guerra
a’ Fiorentini._
In questo tempo del verno, avendo l’arcivescovo di Milano fatte
rivedere e rassegnare le sue masnade tornate da Firenze, trovò ch’aveva
a fare ammenda di bene milledugento cavalli. E turbato forte nel suo
furore, propose di fare al primo tempo maggiore e più aspra guerra
a’ Fiorentini. E trovando che avea consumato senza acquisto grande
tesoro, volendolo rifare senza mancare la sua generale entrata, fece
nuova colta in Milano e in tutte le sue terre per sì grave modo, che
tutti i mercatanti si ritrassono delle loro mercatanzie nelle sue
terre: nondimeno a catuno convenne portare la soma che gli fu imposta;
per la quale gravezza accrebbe cinquecento migliaia di fiorini d’oro
sopra le sue rendite ordinarie in piccolo tempo. In queste oppressioni
molti parlavano biasimando l’impresa contro al comune di Firenze, e
rimproveravano quello che avea fatto loro il vile castelletto della
Scarperia per provvisione del comune di Firenze, essendovi intorno la
forza de’ Lombardi e de’ ghibellini di Toscana. E in tra gli altri
un cavaliere bresciano di grande età, amico e fedele alla casa de’
Visconti, biasimò l’impresa, dicendo semplicemente il vero, come
aveva ricordo di lungo tempo, che qualunque signore avea impreso
di far guerra al comune di Firenze n’era mal capitato, però per
amore che aveva al suo signore non lodava l’impresa. Le parole del
cavaliere furono rapportate all’arcivescovo; il tiranno inacerbito,
non considerando la fede dell’antico cavaliere, seguitando l’impetuoso
furore del suo animo, mandò per lui. E venuto nella sua presenza, il
domandò s’egli aveva usate quelle parole. Il cavaliere disse, che dette
l’avea per grande amore e fede ch’avea alla sua signoria, ricordandosi
dell’imperadore Arrigo, e dell’impresa di messer Cane della Scala e
degli altri che non erano bene capitati. Il tiranno infiammato nel
suo disordinato appetito, di presente fece armare un suo conestibile
con la sua masnada, e accomandogli il cavaliere, e disse il rimenasse
in Brescia, e in su l’uscio della sua casa gli facesse tagliare la
testa, e così fu fatto. Costui per la sua fede degno di premio e per
l’utile consiglio ricevette pena, la quale soddisfece colla sua testa
all’appetito del turbato tiranno.

CAP. LII.
_Come i Fiorentini, e’ Perugini, e’ Sanesi mandarono ambasciadori a
corte._
Stando le città di Toscana in gran tema di futura guerra, i comuni
della lega di parte guelfa mandarono al papa e a’ cardinali solenne
ambasciata, a inducere la Chiesa contro alla grande tirannia
dell’arcivescovo di Milano per aggravare il processo che contro a lui
si faceva, e procurare l’aiuto e il favore di santa Chiesa alla loro
difesa. Gli ambasciadori furono ricevuti dal papa e da’ cardinali
graziosamente. Ma innanzi che questi ambasciadori fossono a corte,
l’arcivescovo v’avea mandati i suoi, per riconciliarsi colla Chiesa, e
fare annullare il processo fatto contro a lui per l’impresa di Bologna,
i quali ambasciadori erano forniti di molti danari contanti per
spendere e donare largamente; e facendolo con molta larghezza aveano
il favore del re di Francia, che faceva parlare per lui, e quello di
molti cardinali, e de’ parenti del papa e della contessa di Torenna,
per cui il papa si movea molto alle gran cose. E il papa medesimo avea
già l’ingiuria fatta a santa Chiesa per l’arcivescovo della tolta di
Bologna temperata, ed era disposto a prendere accordo coll’arcivescovo:
e per questo fu molto più contento della venuta degli ambasciadori
de’ tre comuni di Toscana, credendo fare l’accordo dell’arcivescovo di
loro volontà; perocchè nel primo parlamento disse agli ambasciadori:
eleggete delle tre cose che io vi proporrò l’una, quale più vi piace, o
volete pace coll’arcivescovo, o volete lega colla Chiesa, o volete la
venuta dell’imperadore in Italia per vostra difesa. L’offerte furono
larghe per conchiudere alla pace che parea più abile e migliore. Gli
ambasciadori savi e discreti di concordia rimisono la detta elezione
nel papa, a fine di farlo più pensare nel fatto dandoli gravezza,
dimostrando grande confidanza nella deliberazione. E così cominciata
la cosa a praticare ebbono tempo e cagione gli ambasciadori d’avvisare
i loro comuni, e in questo si soggiornò la maggior parte del verno
senza uscirne alcun frutto. Lasceremo alquanto gli ambasciadori e ’l
processo del papa, e torneremo agli altri fatti che occorsono in questo
soggiorno, rendendo a catuno suo diritto.

CAP. LIII.
_Come l’ammiraglio di Damasco fece novità a’ cristiani._
In questo tempo l’ammiraglio del soldano che reggeva la gran città di
Damasco si pensò di trarre un gran tesoro da’ cristiani di Damasco per
sua malizia, e una notte fece segretamente mettere fuoco in due parti
della città, il quale fece in Damasco grave danno. Spento il fuoco,
l’ammiraglio fece apporre che questo era stato avvistatamente messo
pe’ cristiani, e richiese i più ricchi cristiani della città, che ve
n’avea assai, e feceli martoriare, e per martorio confessarono che
fatto l’aveano a fine di cacciare i saracini: e coloro che di questo
pericolo vollono campare la vita gli dierono danari assai; e tanti
furono coloro che si ricomperarono, che l’ammiraglio ne trasse gran
tesoro: agli altri diede partito o che rinnegassono la fede di Cristo
o che morissono in croce. Una gran parte di loro per corrotta fede
rinnegò per campare; rimasonne ventidue, i quali diliberarono di morire
in croce, innanzi che la perfetta fede di Cristo volessono rinnegare. E
però il crudele ammiraglio li fece mettere in sulle croci, e ordinolli
in suso i cammelli che li conducessono per la terra, e in questo
tormento vivettono tre dì. Ed era menato il padre crocifisso innanzi
al figliuolo, e il figliuolo innanzi al padre rinnegato; e i rinnegati
con pianto e con preghiere pregavano i crocifissi che volessono campare
la crudele morte e tornare alla fede di Maometto; ma i costanti
fedeli, il padre spregiava il figliuolo rinnegato, dicendo che non
era suo figliuolo, e il figliuolo il padre rinnegato, dicendo che non
era suo padre, ma del nimico che ’l volea tentare e torli i beni di
vita eterna: e molto biasimavano a’ rinnegati la loro incostanza per
la paura della pena temporale, dicendo che a loro era diletto e gran
grazia potere seguitare Cristo loro redentore. E così consumate le
loro temporali vite in grave tormento e in grandissima costanza, nella
veduta per tre dì de’ saracini e de’ cristiani, renderono l’anime
a Dio. Il soldano sentì il movimento reo del suo ammiraglio, mandò
incontanente per lui, e fecelo tagliare per mezzo.

CAP. LIV.
_Come i Fiorentini disfeciono terre di Mugello._
In questo medesimo tempo, di verno, i Fiorentini mandarono certi loro
cittadini per lo contado a provvedere le loro castella e terre, a fine
di afforzare le parti deboli, e fornire le terre di ciò ch’alla difesa
mancasse per averle guernite, sopravvenendo la guerra che s’aspettava
del Biscione. Avvenne, come è usanza del nostro comune, acciocchè il
buon consiglio non fosse senza difetto di singolare ovvero cittadinesco
odio, che nel Mugello furono per loro fatte disfare alquante tenute
forti e utili alla difesa di quello contado per modo, che dove state
non vi fossono, era utile consiglio a porlevi di nuovo. E feciono
abbattere Barberino, Latera, Gagliano e Marcoiano, ch’erano al Mugello
mura contra i nimici di verso Montecarelli, e di Montevivagni e delle
terre degli Ubaldini, ove in que’ tempi si faceva capo pe’ nimici
a fare guerra al nostro comune, le quali tenute con piccola spesa
d’afforzamento erano gran sicurtà a tutto il Mugello, per le cui
rovine s’accrebbe campo a’ nimici senza contasto di più di sei miglia
di nostro contado, il quale tutto s’abbandonò, a danno e vergogna del
nostro comune. Riprensione comune ne seguitò a coloro che così mala
provvisione feciono, altro gastigamento no, per la corrotta usanza
del comune di Firenze di non punire le cose mal fatte, nè meritare le
buone.

CAP. LV.
_Come la Scarperia fu furata e racquistata._
Facendo il comune di Firenze con molta sollecitudine afforzare il
castello della Scarperia di grandi fossi e di forti palancati, il
tiranno e gli Ubaldini con ogni sottigliezza d’inganno tentavano di
procacciare ridotto nel Mugello, e sopra tutto di levarsi l’onta della
Scarperia, e continovo cercavano come la potessono furare: per la qual
cosa corruppono più loro fedeli mandandoli per essere manovali, come
se fossono Mugellesi, e alcuno maestro. E messi al lavorio del votare
il fosso, del quale si portava la terra al palancato per alzare la
parte dentro, costoro provvidono la via onde la terra si portava: e
segretamente tra le due terre segarono alcuni legni del palancato, e
dierono la posta agli Ubaldini: i quali di presente feciono scendere
gente a cavallo e a piè a Montecarelli, e alla Sambuca, e a Pietramala,
e nell’alpe e nel Podere, per dare diversi riguardi a’ Fiorentini, e
seppono come pochi dì innanzi i soldati che guardavano la Scarperia
aveano fatto mischia co’ terrazzani, e mortine parecchi, onde tra’
terrazzani e’ forestieri era sconfidanza grande. La notte che ordinata
fu a questo servigio scesono dell’alpe e da Montecarelli nel piano
di Mugello duemilacinquecento fanti, e quattro bandiere di cento
cavalieri a guida degli Ubaldini. Costoro elessono dugentocinquanta
i più pregiati briganti di tutta quella gente con dieci bandiere, e
conestabili molto famosi d’arme, e lasciati gli altri fanti e cavalieri
riposti ivi presso per loro soccorso, chetamente guidati per la via
provveduta del fosso dalla parte di Sant’Agata, e senza esser sentiti,
entrarono tutti nella Scarperia a dì 17 di gennaio del detto anno:
e stretti insieme si condussono in su la piazza, gridando, muoiano i
forestieri, e vivano i terrazzani. E in quella notte non avea nella
Scarperia tra forestieri e terrazzani centocinquanta uomini d’arme,
sicchè al tutto n’erano signori i nimici. Sentendo questo romore
nella scurità della notte i soldati forestieri, credettono che i
terrazzani li volessono offendere, e non ardivano d’uscire delle
case, e i terrazzani temeano de’ soldati, pensando che fosse in su
la piazza inganno, e non voleano uscire fuori, e così i nimici non
aveano contasto; e dove Iddio per singolar grazia non avesse liberato
quella terra, senza speranza di soccorso umano era perduta. Ma la
volontà di Dio fu, che la grande potenza del tiranno non avesse quello
ridotto a consumazione del nostro paese; onde a coloro ch’aveano presa
la terra, e che aveano presso a un miglio tutta la loro gente tolse
l’accorgimento, che non lasciassono guardia al passo ond’erano entrati,
e non feciono il segno ordinato a quelli di fuori; e diede Iddio
baldanza manifesta a que’ d’entro e accorgimento, perocchè per la vista
scura i terrazzani conobbono all’insegne che coloro dalla piazza erano
nemici: e incontanente assicurarono i conestabili de’ forestieri che
v’erano, per paura che quella gente nè quelle grida non erano per loro
fattura, ma de’ nimici ch’erano nella terra. Come i valenti masnadieri
sentirono la verità del fatto, ragunati insieme meno di cinquanta tra
terrazzani e forestieri, gridando alla morte alla morte, sì fedirono
tra’ nimici, che lungamente erano stati ammassati in su la piazza, e
nel primo assalto senza fare resistenza li ruppono, cacciandoli come
se fossono stati altrettanti montoni; e senza attendere l’uno l’altro,
affrettando d’uscire per lo luogo stretto ond’erano entrati, e’ cadeano
nel fosso, e voltolavansi per quelle ripe. Que’ d’entro erano pochi, e
però non ve ne poterono uccidere più di cinque, e dodici ne ritennono
a prigioni, tra’ quali furono conestabili di pregio, che ’l signore
avrebbe ricomperati molti danari, ma tutti furono impiccati. Que’ di
fuori che attendeano il segno per entrare dentro sentendo la tornata
in rotta, senza attendere il giorno chiaro, innanzi che la novella si
spandesse per il Mugello, si ricolsono nell’alpe a salvamento; e così
in una notte fu presa e liberata la Scarperia con dubbia e maravigliosa
fortuna.

CAP. LVI.
_Come messer Piero Sacconi cavalcò con mille barbute infino in su le
porte di Perugia._
Del mese di febbraio del detto anno, cresciuta gente d’arme a messer
Piero Sacconi de’ Tarlati dall’arcivescovo di Milano, trovandosi
baldanzoso per la presa del Borgo a san Sepolcro e delle terre vicine,
e trovando i signori di Cortona ch’aveano rotta pace a’ Perugini, ed
eransi collegati col Biscione, se n’andò a Cortona con mille cavalieri,
e da’ Cortonesi ebbono il mercato e gente d’arme, con la quale cavalcò
sopra il contado di Perugia, ardendo e predando le ville d’intorno
al lago; e per forza presono Vagliano e arsonlo, e combatterono
Castiglione del Lago e non lo poterono avere; e partiti di là se
n’andarono fino presso a Perugia facendo grandissimi danni. E non
essendo i Perugini in concio da potere riparare a’ nemici, fatta grande
preda, senza contasto si ritornarono a Cortona sani e salvi, e di là
al Borgo a san Sepolcro, onde partirono e venderono la loro preda.
Per questa cagione grande sdegno presono i Perugini contro a’ signori
di Cortona, ma la baldanza dell’arcivescovo gli aveva sì gonfiati di
superbia, che non si curavano rompere pace nè fare ingiuria a’ loro
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