Cronica di Matteo Villani, vol. 1 - 16

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cavalieri e con pedoni del Mugello, non avendo prima presi i passi
più forti dell’alpe, nè fatto provvedere se aguato vi fosse, si mise
per la via del Rezzuolo con la salmeria e con la sua gente ad entrare
nell’alpe, e lasciossi uno degli aguati de’ nimici addietro; quando
ebbono valicato Rezzuolo furono assaliti da’ nimici dinanzi, e da lato
e didietro per modo, che piccola difesa v’ebbe, altro che di fuggire
chi potè. Rimasonvi morti cinquanta uomini tra a cavallo e a piede, e
ottanta presi con tutta la salmeria; e di questo fallo non fu altra
vendetta in Firenze, se non che chi fu morto o preso per la mala
condotta s’ebbe il danno. Il capitano fu Rosso di Ricciardo de’ Ricci
di Firenze.

CAP. LXX.
_Come s’ebbe Vertine a patti e disfecesi la rocca._
Essendo stato il castello di Vertine lungamente assediato e traboccato
da’ dificii, e non volendosi arrendere, i Fiorentini diliberarono di
farlo combattere: e a dì 20 d’Aprile, gli anni Domini 1352, con molta
baldanza e con poco ordine si strinsono al castello assalendolo da
più parti; e in alcuno luogo furono infino al rompere delle mura,
ma per non avere dificii da coprire, nè le scale che bisognavano
a assalire, condotti alle mura, con danno e con vergogna, mortine
alquanti, e fediti e magagnati assai degli assalitori, si ritrassono
della battaglia, la quale aveano mantenuta tre ore del dì. L’assedio
vi si fortificò, e strinsono il castello più di presso, e ordinavano
di combatterlo con più ordine e con maggiore forza. Que’ d’entro
vedendosi senza speranza di soccorso, per fuggire il pericolo della
battaglia trattarono di rendere la terra, salve le persone e l’armi, e
che potessono trarre tutto il grano che aveano nel castello di Vertine
di que’ della casa da Ricasoli, infra quindici dì prossimi. Il trattato
fu fermo, e il primo dì di Maggio del detto anno n’uscirono que’ da
Ricasoli con centocinquantotto masnadieri, molto bella gente d’arme; e
il comune prese la terra, e incontanente fece abbattere due fortezze
che v’erano a modo di rocche, l’una di que’ da Ricasoli, e l’altra
di que’ da Vertine, acciocchè più per quelle tenute non si potesse
rubellare.

CAP. LXXI.
_Esempio di cittadinesca varietà di fortuna._
In questo tempo avvenne una cosa notevole in Firenze, la quale per se
non era degna di memoria, ma concedelesi luogo per esempio delle cose
avvenire. Un giudice di legge di grande fama nella pratica de’ piati
criminali e civili, di assai nuova progenie, e di piccolo stato ne’
suoi principii, venne per suo guadagno in ricchezza, e con prospera
fortuna, il dì di calen di maggio del detto anno, dottorato un suo
figliuolo e menata moglie, con dote di fiorini millecinquecento d’oro,
e con eredità di patrimonio di fiorini tremilacinquecento d’oro in
possessioni a lui pervenute, celebrò solenne festa in più dì in grande
allegrezza. E verificandosi la parola detta per santo Gregorio sopra
il Giobbe, il quale disse: _Praenuntia tribulationis est laetitia
satietatis_: poco appresso avvenne, che essendo ingrati della non
debita e sformata dote e successione ereditaria della detta donna,
vollono alla madre della fanciulla per male ingegno della loro arte
sottrarre altri certi beni, la quale turbata si difendea a ragione.
I legisti ordinarono un piato tacito, e avendo avuta per altri fatti
una procura dalla detta donna, si sforzarono, non avendo avversario,
di venire alla sentenza. Ma come Iddio volle, la corte s’avvide del
baratto; e scoperto l’inganno, il figliuolo fu condannato nel fuoco
con un suo nipote; e il padre confidandosi di difendere a ragione si
rappresentò in giudicio. Ed essendo per essere arso un suo nipote
ch’avea nome Lotto del maestro Cambio de’ Salviati, uomo di buona
condizione e amato da’ cittadini, accadde essere de’ priori di Firenze,
il quale per onore della sua casa operò tanto, che fu condannato nel
fuoco per falsità, a condizione, che se infra dieci dì non pagasse
al comune lire quattromila, e stesse a Perugia un anno a’ confini;
ed essendo già stato da dieci mesi a’ confini, tanto seppe adoperare
con un altro podestà, che rivocò i suoi confini, e tornò a Firenze
innanzi al tempo, e mostrossi palese più d’un mese. Volendosi fare
cancellare del detto bando, e restituire alla matricola ov’era stato
raso, e non trovandosi modo come di ragione fare si potesse, rimase in
bando del fuoco per avere rotti i confini, i quali aveva poco tempo a
ubbidire ed era libero. Costui fu il primo che mise in pratica nella
nostra città di conducere i civili piati in criminali, e per quella
medesima cagione fu infamato e condannato egli e ’l suo figliuolo; il
quale poi dopo l’esilio di presso a otto anni morì in bando, avendo
prima il padre ricomperato dal comune per grandi riformagioni il suo
fallo d’avere rotti i confini lire milledugento. E dopo la morte del
figliuolo la donna ritrasse della casa la dote e ’l patrimonio in
grande abbassamento di quella famiglia, lasciando esempio a’ suoi
cittadini, che come la scienza convertita in pratica di male suasioni,
e le disordinate dote fanno gli uomini arricchire e montare in stato,
così quelle medesime operazioni e dote spesso sono materia e cagioni di
gravi ruine: questo ci scusi averne fatto qui la detta memoria.

CAP. LXXII.
_Come un gran re de’ Tartari venne sopra il re di Proslavia._
Avvenne in quest’anno, che un re del lignaggio de’ Tartari, avendo
avuta la sua gente briga col re di Proslavia infedele, avegnachè
suddito al re d’Ungheria, e fatto danno l’una gente all’altra, il detto
re de’ Tartari sentendosi di grande potenza, per prosunzione della sua
grandezza, ovvero per trarre la gente del suo paese che aveano a quel
tempo grandissima fame, uscì del suo reame con infinito numero di gente
a piè e a cavallo, ed entrò nel regno de’ Proslavi. Il re de’ Proslavi
colla sua gente si fece incontro a quella moltitudine per ritenerli
a certe frontiere, tanto che avesse il soccorso dal re d’Ungheria, il
quale di presente vi mandò quarantamila arceri a cavallo: e aggiuntosi
colla gente del re de’ Proslavi, di presente commisono la battaglia co’
Tartari, de’ quali tanti n’uccisono, che la lena mancò agli uomini, e
lo taglio alle spade, e le saette agli archi. Ma per la soprabbondante
moltitudine de’ Tartari, non potendoli gli Ungheri e i Proslavi più
tagliare, convenne ch’abbandonassono il campo, non senza grande danno
della loro gente. I Tartari vinti rimasono vincitori: ma per disagio
di vivande, e per la corruzione dell’aria, costretti prima a manicare
de’ corpi morti, sentendo che per li due re si faceva apparecchiamento
di ritornare in campo con maggiore e più potente esercito, per paura,
e per lo gran difetto che i Tartari aveano di vittuaglia, si tornarono
addietro in loro paese. Questa novella avemmo da più e diverse parti in
Firenze del mese d’aprile 1352.

CAP. LXXIII.
_Come in Orvieto ebbe mutamento e micidio._
Ritornando all’italiane tempeste, essendo rimasa la città d’Orvieto
con grande dissensione tra’ cittadini dopo la morte di Benedetto di
messer Bonconte loro tiranno, i cittadini da capo si cominciarono a
insanguinare insieme, e uccidea l’uno l’altro nella città e di fuori,
come s’uccidono le bestie al macello. Ed era sì corrotta la città ed
il contado, che in niuna parte si poteva andare o stare sicuro, e
i Perugini e gli altri comuni di Toscana erano sì oppressati dalla
gente del Biscione, che appena poteano intendere alla loro difesa,
sicchè de’ fatti d’Orvieto non si potevano intramettere come a quel
tempo bisognava. Avvenne che Petruccio di Peppo Monaldeschi, come
che d’animo e di nazione fosse guelfo, avendo rispetto a pigliare la
tirannia d’Orvieto, per suo trattato fece venire a condotta degli
Ubaldini a Cetona dugento cavalieri, e procacciò d’avere gente dal
prefetto da Vico: e quando si vide il bello, avendo raunato nella
terra assai fanti, levò il romore e corse la terra, e mise dentro i
dugento cavalieri ch’avea in Cetona, e uccise Bonconte suo consorto,
nipote di Benedetto, e più altri, e ridusse la città nella forza de’
ghibellini, credendo poterla tiranneggiare per se; ma in fine, come
al suo tempo racconteremo, la signoria rimase al prefetto da Vico e a
parte ghibellina, tradita la patria e i consorti per singolare invidia
de’ suoi congiunti.

CAP. LXXIV.
_Come l’armata de’ Genovesi andò a Trapenon per danneggiare i nemici._
Dopo la battaglia fatta in Romania tra’ Genovesi, Veneziani e Catalani,
avendo i Genovesi preso riposo per alcuno tempo, e ritornate le sei
galee fuggite nel Mare maggiore, riconoscerono la loro amara vittoria,
presono cuore dimenticando il danno loro per l’animosità ch’aveano
contro a’ loro nemici ch’erano rifuggiti a Trapenon, e procacciarono
aiuto da Pera, e mandarono per rinfrescamento di galee armate,
strignendo che quante più ne potessono mandare armate il facessono
senza indugio, a fine di disfare affatto l’armata de’ Veneziani e
Catalani, avendo anche speranza di vincere Costantinopoli. E racconce
le loro galee, e rifornite le ciurme e’ soprassaglienti se n’andarono a
Trapenon, ove i Veneziani e’ Catalani s’erano rifuggiti; e assai volte
tentarono d’assalirli, ma gli avversari aveano la forza della terra,
e l’avvantaggio della guardia del porto, sicchè poco li curavano;
e quando vidono un tempo al loro viaggio fatto e fermo, e che era
contradio a’ loro nemici a poterli impedire, con trentotto galee
racconce e rifornite si misono in mare, e atandosi con le vele e co’
remi, avendo il vento in poppa, a contradio de’ Genovesi valicarono in
Candia: e giunti in Candia misono in terra, e disarmarono. E stando
nell’isola, per la corruzione di loro fediti e de’ disagi sostenuti
infermarono e corruppono molto la terra, e mandarono due loro galee per
avere aiuto da Vinegia, le quali s’abbatterono in dieci galee ch’e’
Genovesi mandavano in aiuto alla loro armata, ma l’una per forza di
remi campò, l’altra diede a terra, e abbandonato il corpo della galea
salvarono le persone.

CAP. LXXV.
_Come i Genovesi assediarono Costantinopoli._
L’armata de’ Genovesi non avendo potuto impedire l’armata de’
Veneziani e Catalani che non fossono passati all’isola di Negroponte,
non attesono a seguirli, ma attesono ad assediare Costantinopoli per
mare, e fermarono di fare ogni loro podere per abbattere l’aiuto che i
Veneziani aveano dall’imperatore. E stando ivi, giunse in loro aiuto
sessanta legni armati di Turchi, e le dieci galee che il comune di
Genova avea mandate loro. Mega Domestico che allora governava l’imperio
come tiranno, vedendo i Veneziani rotti e soperchiati in quella guerra
da’ Genovesi, e che la loro forza cresceva, e sentendosi il vero
imperatore, il quale s’avea fatto a genero, nemico, per non venire
a peggio trattò pace co’ Genovesi, e fermossi la detta pace a dì 6
maggio del detto anno: e fu in patto, ch’e’ Veneziani del paese fossono
salvi in avere e in persona, e che i Genovesi non dovessono pagare
in Costantinopoli commercio, e che vi potessono fare porto, e andare
e stare come amici: e che d’allora innanzi l’imperadore non dovesse
ricettare i Veneziani nè i Catalani, nè dare loro alcuno aiuto. E ferma
la pace, i Genovesi con tutta loro armata se ne vennono in Candia per
vincere il paese; e volendo porre in terra, ebbono incontro i paesani
con trecento cavalieri, e le ciurme delle galee, e contradissono
la prima scesa. I Genovesi si provvidono di fare parate, e dietro a
quelle misono i balestrieri, e messe le scale in terra, a contradio de’
nemici presono campo; e stando in terra trovarono il paese corrotto,
e avvelenata l’aria e la terra dalla corruzione sparta dalle galee de’
Veneziani e Catalani, e anche tra loro avea de’ fediti e degl’infermi,
e per questa cagione, e per i molti disagi sostenuti lungamente,
pensarono che il soprastare era pestilenzioso e mortale, si ricolsono a
galea, e misonsi in mare per tornarsi a Genova; e innanzi pervenissono
alla patria più di mille cinquecento uomini morti gettarono in mare: e
nondimeno lasciarono nel golfo di Vinegia dieci galee per danneggiare
i Veneziani. E del mese d’agosto del detto anno con trentadue galee
tornarono a Genova col loro ammiraglio, e con settecento prigioni
veneziani, e con molta preda dell’acquisto fatto sopra i nemici e
sopra le spoglie de’ Greci. Della qual vittoria, avvengnachè molto ne
montasse in fama il comune di Genova, più tristizia che allegrezza, più
pianto e dolore che festa tornò alla loro patria; e trovossi all’ultimo
di questa maladetta guerra di queste armate, che tra morti in
battaglia, e annegati in mare, e periti di pestilenza, tra l’una parte
e l’altra vi morirono più d’ottomila Italiani in quell’anno. E questo
avvenne solo per attizzamento d’invidia di pari stato di due popoli
Genovesi e Veneziani, che catuno si volea tenere il maggiore.

CAP. LXXVI.
_Concordia fatta dall’imperadore a’ comuni di Toscana._
Tornando al lungo trattato menato in Firenze per li Fiorentini e
Perugini e Sanesi, molto segretamente con messer Arrigo proposto
d’Esdria dell’ordine di certi frieri, vececancelliere di messer Carlo
eletto imperadore re di Boemia e re de’ Romani, il quale con molto
senno e gran diligenza avendo il mandato dal suo signore, e per mezzano
tra lui e gli ambasciadori de’ sopraddetti comuni messer Ramondo l’uno
degli usciti guelfi di Parma marchese di Soraga, capitano di guerra
del comune di Firenze, scritte le convenenze e’ patti di concordia, si
sostenne la piuvicazione di quelli per lo detto vececancelliere e per
li detti comuni, tanto ch’ebbono la fermezza da corte come il papa avea
riconciliato per sentenza l’arcivescovo di Milano, e fatto la concordia
con lui, come nel principio del nostro terzo libro si potrà trovare; e
questa concordia fu ferma del detto mese d’aprile del detto anno.

CAP. LXXVII.
_Come si levò una compagnia nel Regno, e fu rotta dal re Luigi._
Avvenne non ostante che la pace fosse fatta tra il re d’Ungheria e i
reali di Puglia, e deliberato fosse per lo papa la coronazione del re
Luigi, per la baldanza che i soldati forestieri aveano presa nel Regno,
uno Beltramo della Motta nipote di fra Moriale, che ancora teneva la
città d’Aversa, fece raccolta di cavalieri di sua lingua, e di Tedeschi
e d’Italiani ch’erano nel Regno senza soldo, ed ebbe quattrocento
barbute e cinquecento masnadieri: e cominciò a correre per Terra di
Lavoro, di consiglio e consentimento di Fra Moriale, secondo il suono,
benchè secondo la vista dimostrava il contradio, e prendea i casali,
e facea rimedire la gente, e molto conturbava il paese: e i baroni e’
cavalieri regnicoli che voleano venire a Napoli alla coronazione del
re erano da costoro forte impediti, e i cammini erano rotti per loro,
e spesso assaliti, e per soperchia baldanza s’erano ridotti a Cesa, tra
la città d’Aversa e l’Acerra. E stando ivi, in gran vergogna del futuro
re Luigi, il re infiammato di questa ingiuria, subitamente e improvviso
a’ ladroni accolse de’ baroni ch’erano venuti a lui, e di Napoletani da
mille cavalieri, e montò a cavallo in persona, e seguitato da’ suoi,
a dì 28 d’aprile del detto anno occupò Beltramo della Motta e la sua
compagnia, i quali per lo subito assalto non feciono retta, ma chi potè
fuggire non attese il compagno: e così fuggendo molti ne furono morti e
presi, che pochi ne camparono. Beltramo della Motta con venti compagni
fuggì a Alife e campò. In Napoli furono giudicati a morte venticinque
paesani ch’erano in quella compagnia, gli altri rimasono prigioni: e la
detta compagnia fu al tutto consumata e spenta con onore del re Luigi,
e con più lieta festa della sua coronazione, che appresso seguitò, come
tosto diviseremo.

CAP. LXXVIII.
_Come i Perugini guastarono intorno a Cortona._
In questo mese d’aprile del detto anno, i cavalieri dell’arcivescovo
di Milano ch’erano stati lungamente al servigio del signore di
Cortona all’Orsaia, si partirono di là, e lasciarono dugentocinquanta
cavalieri. I Perugini aontati dell’ingiuria fatta loro da’ Cortonesi,
di presente, avuto trecento cavalieri da’ Fiorentini, con settecento
barbute e con gran popolo cavalcarono sopra Cortona, ardendo e
guastando le case, e le vigne e’ campi, e tagliando gli alberi,
aoperando il fuoco e il ferro, e guastarla intorno per molti giorni,
senza potere i Cortonesi difendere in niuna parte, di fuori che
dall’Orsaia a Cortona, per la guardia vi fecero i dugentocinquanta
cavalieri del Biscione: ma senza arsione, così consumarono que’
cavalieri quella parte difendendo, come i Perugini l’altre parti per
loro vendetta.

CAP. LXXIX.
_Come i Fiorentini fornirono Lozzole._
I Fiorentini poco tempo innanzi per mala condotta rotti dagli Ubaldini
nell’alpe, volendo fornire Lozzole, provvidono di fornirlo con più
avviso e provvedenza; che senza fare apparecchiamento nel Mugello,
avendo in Firenze cavalieri e pedoni, e la vittuaglia apparecchiata,
senza alcuna vista mandarono improvviso agli Ubaldini, e feciono
pigliare a buoni masnadieri i passi e i poggi dell’alpe. E presi i
passi la notte, la mattina vi mandarono cento cavalieri, e quattrocento
balestrieri eletti, e seicento buoni masnadieri di soldo e tutta la
salmeria con loro, i quali andarono senza contasto. E furono sopra
il battifolle degli Ubaldini, il quale era sopra Lozzole, innanzi
che potessono avere soccorso; e vedendosi sorprendere alla gente de’
Fiorentini, abbandonaro la bastita e l’arme, e gittaronsi per le ripe
per salvare le persone; i Fiorentini presono l’arme e la roba ch’era
nella bastita, e aggiunsonla alla loro salmeria, e misono ogni cosa nel
castello di Lozzole, e arsono il battifolle de’ nimici, e sani e salvi
senza trovare contasto si tornarono a Firenze del mese di maggio del
detto anno.
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