Cronica di Matteo Villani, vol. 1 - 02

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dimenticando le cose passate come state non fossono, si dierono alla
più sconcia e disonesta vita che prima non aveano usata. Perocchè
vacando in ozio, usavano dissolutamente il peccato della gola, i
conviti, taverne e delizie con dilicate vivande, e’ giuochi, scorrendo
senza freno alla lussuria, trovando nei vestimenti strane e disusate
fogge e disoneste maniere, mutando nuove forme a tutti gli arredi. E
il minuto popolo, uomini e femmine, per la soperchia abbondanza che
si trovarono delle cose, non voleano lavorare agli usati mestieri; e
le più care e dilicate vivande voleano per loro vita, e allibito si
maritavano, vestendo le fanti e le vili femmine tutte le belle e care
robe delle orrevoli donne morte. E senza alcuno ritegno quasi tutta
la nostra città scorse alla disonesta vita; e così, e peggio, l’altre
città e provincie del mondo. E secondo le novelle che sentire potemmo,
niuna parte fu, in cui vivente in continenzia si riserbasse, campati
dal divino furore, stimando la mano di Dio essere stanca. Ma secondo
il profeta Isaia, non è abbreviato il furore d’Iddio, nè la sua mano
stanca, ma molto si compiace nella sua misericordia, e però lavora
sostenendo, per ritrarre i peccatori a conversione e penitenzia, e
punisce temperatamente.

CAP. V.
_Come si stimò dovizia, e seguì carestia._
Stimossi per il mancamento della gente dovere essere dovizia di tutte
le cose che la terra produce, e in contradio per l’ingratitudine degli
uomini ogni cosa venne in disusata carestia, e continovò lungo tempo:
ma in certi paesi, come narreremo, furono gravi e disusate fami. E
ancora si pensò essere dovizia e abbondanza di vestimenti, e di tutte
l’altre cose che al corpo umano sono di bisogno oltre alla vita, e il
contrario apparve in fatto lungamente; che due cotanti o più valsono
la maggior parte delle cose che valere non soleano innanzi alla detta
mortalità. E il lavorio, e le manifatture d’ogni arte e mestiero
montò oltre al doppio consueto disordinatamente. Piati, quistioni,
contraversie e riotte sursono da ogni parte tra’ cittadini di catuna
terra, per cagione dell’eredità e successioni. E la nostra città
di Firenze lungamente ne riempiè le sue corti con grandi spendii e
disusate gravezze. Guerre, e diversi scandali si mossono per tutto
l’universo, contro alle opinioni degli uomini.

CAP. VI.
_Come nacque in Prato un fanciullo mostruoso._
In questo anno, del mese d’agosto, nacque in Prato uno fanciullo
mostruoso di maravigliosa figura, perocchè a uno capo e a uno collo
furono partiti e stesi due imbusti umani con tutte le membra distinte
e partite dal collo in giuso, senza niuna diminuzione che natura dia
a corpo umano: e catuno imbusto fu colle membra e natura masculina. Ma
l’uno corpo era maggiore che l’altro: e vivette questo corpo mostruoso
e maraviglioso quindici giorni, dando pronosticazione forse di loro
futuri danni, come leggendo appresso si potrà trovare.

CAP. VII.
_Come alla compagnia d’Orto san Michele fu lasciato gran tesoro._
Nella nostra città di Firenze, l’anno della detta mortalità, avvenne
mirabile cosa: che venendo a morte gli uomini, per la fede che i
cittadini di Firenze aveano all’ordine e all’esperienza che veduta era
della chiara, e buona e ordinata limosina che s’era fatta lungo tempo,
e facea per li capitani della compagnia di Madonna santa Maria d’Orto
san Michele, senza alcuno umano procaccio, si trovò per testamenti
fatti (i quali testamenti nella mortalità, e poco appresso, si poterono
trovare e avere) che i cittadini di Firenze lasciarono a stribuire a’
poveri per li capitani di quella compagnia più di trecentocinquanta
migliaia di fiorini d’oro. Che vedendosi la gente morire, e morire
i loro figliuoli e i loro congiunti, ordinavano i testamenti, e chi
avea reda che vivesse, legava la reda, e se la reda morisse, volea la
detta compagnia fosse reda; e molti che non avevano alcuna reda, per
divozione dell’usata e santa limosina che questa compagnia solea fare,
acciocchè il suo si stribuisse a’ poveri com’era usato, lasciavano di
ciò ch’aveano reda la detta compagnia: e molti altri non volendo che
per successione il suo venisse a’ suoi congiunti, o a’ suoi consorti,
legavano alla detta compagnia tutti i loro beni. Per questa cagione,
restata la mortalità in Firenze, si trovò improvviso quella compagnia
in sì grande tesoro, senza quello che ancora non potea sapere. E i
mendichi poveri erano quasi tutti morti, e ogni femminella era piena
e abbondevole delle cose, sicchè non cercavano limosina. Sentendosi
questo fatto per cittadini, procacciarono molti con sollecitudine
d’essere capitani per potere amministrare questo tesoro, e cominciarono
a ragunare le masserizie e’ danari; ch’avendo a vendere le masserizie
nobili de’ grandi cittadini e mercatanti, tutte le migliori e le più
belle voleano per loro a grande mercato, e l’altre più vili faceano
vendere in pubblico, e i danari cominciarono a serbare, e chi ne tenea
una parte, e chi un’altra a loro utilità. E non essendo in quel tempo
poveri bisognosi, facevano le limosine grandi ciascuno capitano ove più
gli piaceva, poco a grado a Dio e alla sua madre. E per questo indebito
modo si consumò in poco tempo molto tesoro. E quando veniva il tempo di
rifare i nuovi capitani, i cittadini amici de’ vecchi si facevano fare
capitani nuovi da loro che avevano la balía, con molte preghiere, e
altre promessioni, intendendosi insieme per poco onesta intenzione. Le
possessioni della compagnia allogavano per amistà e buon mercato, e le
vendite faceano disonestamente. I cittadini ch’erano avviluppati nelle
mani de’ detti capitani per li lasci, e per le dote, e per li debiti,
e per le participazioni di quelli beni, e per l’altre successioni non
si poteano per lunghi tempi spacciare da loro: e ogni cosa sosteneano
in lunga contumacia senza sciogliere, se per speziale servigio non si
facea. E fu tre anni continovi più grande la loro corte che quella del
nostro comune. E avvedendosi i cittadini della ipocrisia de’ capitani,
acciocchè più non seguitasse la elezione, che l’uno facesse l’altro,
ordinarono che i capitani si chiamassono per lo consiglio. In processo
di tempo il comune prese de’ danari del mobile della detta compagnia
alcuna parte, vedendo che male si stribuivano per li capitani. E per le
dette cagioni la fede di quella compagnia tra’ cittadini e’ contadini
cominciò molto a mancare, avvelenata per lo disordinato tesoro, e per
gli avari guidatori di quello. E per lo simigliante modo fu lasciato
a una nuova compagnia chiamata la compagnia della Misericordia,
tra in mobile e in possessioni, il valore di più di venticinquemila
fiorini d’oro, i quali si stribuirono poco bene per lo difetto de’
capitani che gli aveano a stribuire. E allo spedale di santa Maria
Nuova di san Gilio fu anche lasciato in quella mortalità il valore
di venticinquemila fiorini d’oro. Questi lasci di questo spedale si
stribuirono assai bene, perocchè lo spedale è di grande elemosina, e
sempre abbonda di molti infermi uomini e femmine, i quali sono serviti
e curati con molta diligenza e abbondanza di buone cose da vivere, e da
sovvenire a’ malati, governandosi per uomini e femmine di santa vita.

CAP. VIII.
_Come in Firenze da prima si cominciò lo Studio._
Rallentata la mortalità, e assicurati alquanto i cittadini che
aveano a governare il comune di Firenze, volendo attrarre gente alla
nostra città, e dilatarla in fama e in onore, e dare materia a’ suoi
cittadini d’essere scienziati e virtudiosi, con buono consiglio, il
comune provvide e mise in opera che in Firenze fosse generale studio
di catuna scienzia, e in legge canonica e civile, e di teologia. E a
ciò fare ordinarono uficiali, e la moneta che bisognava per avere i
dottori delle scienze: stanziò si pagassono annualmente dalla camera
del comune; e feciono acconciare i luoghi dello Studio in su la via
che traversa da casa i Donati a casa i Visdomini, in su i casolari
de’ Tedaldini. E piuvicarono lo studio per tutta Italia; e avuti
dottori assai famosi in tutte le facultà delle leggi e dell’altre
scienze, cominciarono a leggere a dì 6 del mese di novembre, gli
anni di Cristo 1348. E mandato il comune al papa e a’ cardinali a
impetrare privilegio di potere conventare in Firenze in catuna facultà
di scienza, ed avere le immunità e onori che hanno gli altri studi
generali di santa Chiesa, papa Clemente sesto, con suoi cardinali,
ricevuta graziosamente la domanda del nostro comune, e considerando
che la città di Firenze era braccio destro in favore di santa Chiesa,
e copiosa d’ogni arte e mestiere, e che questo che s’addomandava era
onore virtudioso, acciocchè ’l buono cominciamento potesse crescere
successivamente in frutto di virtudi, di comune concordia di tutto il
collegio, e del papa, concedettono al nostro comune privilegio, che
nella città di Firenze si potesse dottorare, e ammaestrare in teologia,
e in tutte l’altre facultadi delle scienze generalmente. E attribuì
tutte le franchigie e onori al detto Studio che più pienamente avesse
da santa Chiesa Parigi o Bologna, o alcuna altra città de’ cristiani.
Il privilegio bollato della papale bolla venne a Firenze, dato in
Avignone dì 31 di maggio, gli anni _Domini_ 1349, l’ottavo anno del suo
pontificato.

CAP. IX.
_Raggiugnimento di principii che furono cagione di grandi novitadi nel
Regno._
Avvegnachè nella cronica del nostro anticessore sia trattato della
novità sopravvenuta nel regno di Cicilia e di qua dal faro, insino
al tempo vicino alla nominata mortalità, nondimeno la nostra materia
richiede (acciocchè meglio s’intendano le cose che nel nostro tempo poi
seguiranno) che qui s’accolgano alquanti principii che furono materia e
cagioni di gravi movimenti. Il re Ruberto rimorso da buona coscienza,
avendo con Carlo Umberto di suo lignaggio re d’Ungheria trattato la
restituzione del suo reame dopo la sua morte a’ figliuoli del detto
Carlo, nipoti di Carlo Martello primogenito di Carlo secondo, a cui
di ragione succedea il detto reame di Cicilia, e fermata la detta
restituzione con promissione di matrimonio, sotto certe condizioni de’
figliuoli del detto Carlo Umberto, e delle due figliuole di M. Carlo
duca di Calavra, figliuolo che fu del detto re Ruberto. E avendo già
accresciuto appresso di se il re Ruberto Andreasso figliuolo di Carlo
Umberto, e fattolo duca di Calavra, a cui si dovea dare per moglie
Giovanna primagenita del detto Carlo, nipote del re Ruberto, acciocchè
fosse successore del reame dopo la sua morte; e la detta Giovanna
reina, con condizioni ordinate per li casi che avvenire poteano,
che l’una succedesse all’altra in caso di mancamento di figliuoli,
acciocchè la successione del Regno non uscisse delle nipoti. Vedendosi
appressare alla morte, tanto fu stretto dallo amore della propria
carne, ch’egli commise errori i quali furono cagione di molti mali.
Perocchè innanzi la sua morte fece consumare il matrimonio del detto
duca Andreasso alla detta Giovanna sua nipote, e lei intolò reina. E
a tutti i baroni, reali, e feudatari e uficiali del Regno fece fare
il saramento alla detta reina Giovanna, lasciando per testamento, che
quando Andreasso duca di Calavra, e marito della detta reina Giovanna,
fosse in età di ventidue anni, dovesse essere coronato re del suo reame
di Cicilia. Onde avvenne che ’l senno di cotanto principe accecato
del proprio amore della carne, morendo lasciò la giovane reina ricca
di grande tesoro, e governatora del suo reame, e povera di maturo
consiglio, e maestra e donna del suo barone, il quale come marito dovea
essere suo signore. E così verificando la parola di Salomone, il quale
disse, se la moglie avrà il principato, diventerà contraria al suo
marito. La detta Giovanna vedendosi nel dominio, avendo giovanile e
vano consiglio, rendeva poco onore al suo marito, e reggeva e governava
tutto il Regno con più lasciva e vana che virtudiosa larghezza: e
l’amore matrimoniale per l’ambizione della signoria, e per inzigamento
di perversi e malvagi consigli, non conseguiva le sue ragioni, ma
piuttosto declinava nell’altra parte. E però si disse che per fattura
malefica la reina parea strana dall’amore del suo marito. Per la qual
cagione de’ reali e assai giovani baroni presono sozza baldanza, e poco
onoravano colui che attendevano per loro signore. Onde l’animo nobile
del giovane, vedendosi offendere, e tenere a vile a’ suoi sudditi,
lievemente prendeva sdegni. E moltiplicando le ingiurie per diversi
modi, dalla parte della sua donna e de’ suoi baroni, per giovanile
incostanza, alcuna volta con la reina, alcuna volta con i baroni usò
parole di minacce, per le quali, coll’altra materia che qui abbiamo
detta, appressandosi il tempo della sua coronazione, s’avacciò la
crudele e violente sua morte. Onde avvenne, che per fare la vendetta
Lodovico re d’Ungheria, fratello anzinato del detto Andreasso, con
forte braccio venne nel Regno non contastato da niuno de’ reali, o
da altro barone, se non solo da M. Luigi di Taranto, il quale dopo la
morte del duca Andreasso, per operazione della imperadrice sua madre,
di M. Niccola Acciaiuoli di Firenze suo balio, avea tolta la detta
reina Giovanna per sua moglie. E innanzi la dispensagione, ch’era sua
nipote in terzo grado, temendo il giovane d’entrare nella camera alla
reina, confortatolo, e presolo per lo braccio dal detto suo balio,
in segreto sposò la detta donna: e in palese fu dispensato il detto
matrimonio da santa Chiesa. Il quale M. Luigi si mise a contastare
alcuno tempo alla gente del detto re d’Ungheria, venuta innanzi che
la persona del detto re. Ma sopravvenendo il re, la reina Giovanna
in prima, e appresso M. Luigi, con certe galee in fretta, e male
provveduti fuori che dello scampo delle persone, fuggirono in Toscana,
e poi passarono in Proenza.

CAP. X.
_Come il re d’Ungheria fece ad Aversa uccidere il duca di Durazzo._
Lodovico re d’Ungheria giunto ad Aversa, fece suo dimoro in quel luogo
ove fu morto il fratello. E ivi tutti i baroni del Regno l’andarono a
vicitare, e fare la reverenza come zio, e governatore di Carlo Martello
infante, figliuolo del detto duca Andreasso, e della reina Giovanna,
a cui succedeva il reame. I reali, ciò furono M. Ruberto prenze di
Taranto, M. Filippo suo fratello, M. Carlo duca di Durazzo, che avea
per moglie donna Maria sirocchia della reina Giovanna, e M. Luigi e
M. Ruberto suoi fratelli andarono ad Aversa confidentemente a fare
la reverenza al detto re d’Ungheria; e ricevuti da lui con infinta e
simulata festa, stettono con lui infino al quarto giorno. E mosso per
andare da Aversa a Napoli con grande comitiva, oltre alla sua gente,
di quella de’ reali e del Regno, rimaso addietro, e cavalcando con
lui il duca di Durazzo, il re gli disse: menatemi dove fu morto mio
fratello. E senza accettare scusa condotto al luogo, il detto duca di
Durazzo sceso del palafreno, già conoscendo il suo mortale caso, disse
il re: traditore del sangue tuo, che farai? E tirato per forza, come
era ordinato, infino ove fu strangolato il duca Andreasso, tagliatali
la testa da un infedele Cumino, in sul sabbione dal Gafo fu in due
pezzi gittato, in quell’orto e in quello luogo dove fu gittato il duca
Andreasso. E in quello stante furono presi gli altri reali, e ordinata
la condotta sotto buona guardia, e con loro il piccolo infante Carlo
Martello, furono mandati in Ungheria. Il quale Carlo poco appresso
giunto in Ungheria morì. E M. Ruberto prenze di Taranto, e ’l fratello
e’ cugini furono messi in prigione, e insieme ritenuti sotto buona
guardia.

CAP. XI.
_La cagione della morte del duca di Durazzo._
Questo duca di Durazzo non si trovò che fosse autore della morte del
duca Andreasso, ma però ch’egli come molto astuto, avea, non senza
alcuna espettazione di speranza del Regno, coll’aiuto del zio cardinale
di Pelagorga, procacciato dispensazione dal papa, colla quale ruppe
quattro grandi misteri. Ciò furono, violando il testamento e l’ordine
e la concordia presa dal re Ruberto, e Umberto Martello re d’Ungheria,
ove era disposto che il matrimonio di dama Maria sirocchia della
reina Giovanna si dovesse fare, a conservagione della successione
del regno colla casa di Carlo Umberto, discendenti di Carlo Martello,
in certo caso di morte, o di mancamento di figliuoli alla reina. La
quale Maria il detto duca si prese per moglie. E il saramento di
ciò prestato per lo detto duca, e per altri reali in sul corpo di
Cristo; e la dispensagione di potere prendere la nipote per moglie,
la quale si prese e menò di quaresima. E bene che col duca Andreasso
si ritenesse mostrandoli amore, nondimeno lungo tempo segretamente
fece impedire a corte la diliberazione della sua coronazione. Onde
per questo soprastare fu fatto l’ordine e messo a esecuzione il
detestabile e patricida della sua morte: e questa fu la cagione perchè
il re d’Ungheria il fece morire. Di questa morte, e della carceragione
de’ reali nacque grande tremore a tutto il regno. E fu il re reputato
crudele non meno per la carceragione degl’innocenti giovani reali, che
per la morte del duca di Durazzo.

CAP. XII.
_Come il re d’Ungheria entrò in Napoli._
Fatta il re d’Ungheria parte della sua vendetta, e ricevuto in Napoli
come signore, e ordinato i magistrati, e comandato giustizia per tutto
il regno, cominciò ad andare vicitando le città e le provincie. E
da tutti i baroni prese saramento per Carlo Martello suo nipote. E
nell’anno 1348 quasi tutto il regno l’ubbidia, salvo che in Puglia
era contra lui il forte castello d’Amalfi della montagna, il quale si
teneva per la reina, e per M. Luigi di Taranto. E questo guardavano
masnade italiane con cento cavalieri tedeschi, capitano della gente
e del castello M. Lorenzo figliuolo di M. Niccola degli Acciaiuoli di
Firenze, giovane cavaliere, e di grande cuore, e di buono aspetto. Non
avendo ancora mandato il detto re in terra d’Otranto, nè in Calavra,
i giustizieri che v’erano per la reina faceano l’uficio per lei, e non
ubbidivano al re d’Ungheria, ed egli non strignea il paese, e però non
vi si mostrava ribellione.

CAP. XIII.
_Come il re d’Ungheria vicitava il regno di Puglia._
In questi dì essendo la mortalità già cominciata nel Regno per tutto,
nondimeno il re cavalcava vicitando le terre del Regno. Ed essendo
stato in Abruzzi, in Puglia, e in Principato, tornò a Napoli del mese
d’aprile del detto anno: e trovati già morti alquanti de’ suoi baroni,
sentì che certi conti e baroni del Regno faceano cospirazione contro
a lui. E impaurito in se medesimo per la morte de’ suoi, e per la
generale mortalità, avegnachè fosse di molto franco cuore, non gli
parve tempo da ricercare quelle cose con alcuno sospetto: anzi con
savia continenza mostrava a’ baroni piena confidenza. E copertamente
(eziandio al suo privato consiglio) intendea a fornire tutte le buone
terre e castella del Regno di gente d’arme e di vittuaglia. E con seco
aveva uno barone della Magna che avea nome Currado Lupo. Costui aveva
il re provato fedele e ardito in molti suoi servigi, e a lui accomandò
milledugento cavalieri tedeschi che aveva nel Regno. E un suo fratello,
ch’avea nome Guelforte, mise nel castello nuovo di Napoli dove era
l’abitazione reale, con buona compagnia, e bene fornito d’ogni cosa
da vivere, e d’arme e di vestimento e calzamento, e gli accomandò la
guardia di quello castello; e fornì il castello di Capovana, e quello
di Santermo sopra la città di Napoli, e il castello dell’Uovo. E
tratto del Regno il doge Guernieri Tedesco, cui egli avea soldato con
millecinquecento barbute quando entrò nel Regno, non fidandosi di lui,
lasciò suo vicario alla guardia del detto reame il detto Currado Lupo;
e ’l doge Guernieri malcontento del re, con sue masnade di Tedeschi si
ridusse in Campagna.

CAP. XIV.
_Come il re d’Ungheria partitosi del Regno tornò in Ungheria._
Avendo il detto re ordinata la sua gente e le sue terre in tutte le
parti del Regno, le quali e’ possedeva: e ammaestrati in segreto i
suoi vicari e castellani di buona guardia, non mostrando a’ baroni
del Regno, nè eziandio a’ suoi, che del Regno si dovesse partire, si
mosse da Napoli, dove avea fatto poco dimoro, e andonne in Puglia; e
ordinata la guardia delle terre e delle castella di là in mano di suoi
Ungheri, avendo fatto armare nel porto di Barletta una sottile galea,
subitamente, improvviso a tutti quelli del Regno, all’uscita di Maggio
l’anno 1348, vi montò suso con poca compagnia, e fece dare de’ remi in
acqua, e senza arresto valicò sano e salvo in Ischiavonia, e di là con
pochi compagni a cavallo se n’andò in Ungheria. Questa subita partita
di cotanto re fu tenuta follemente fatta da molti, e da lieve e non
savio movimento d’animo, e molti il ne biasimarono. Altri dissono che
provvedutamente e con molto senno l’avea fatto, avendo diliberato il
partire nell’animo suo per tema della mortalità, e non vedendo tempo
da potersi scoprire contra i baroni, i quali sentiva male disposti
alla sua fede, come detto è, e commendaronlo di segreto e provveduto
partimento.

CAP. XV.
_Novità del reame di Tunisi, e più rivolgimenti di quello._
In questo mese di maggio avendo Balase re del Garbo e della Bella
Marina prima conquistato il reame di Trenusi, e montatone in superbia
ambizione, trattò con Alesbi fratello del re di Tunisi: e fatta sua
armata per mare, e grande oste per terra, improvviso al re di Tunisi
fu addosso, e senza contasto, avendo il ricetto d’Alesbi, entrò
nella città, e prese il re, e di presente il fece morire. E avendo la
signoria, non attenne i patti ad Alesbi, il quale partito di Tunisi,
e aggiuntosi grande copia d’Arabi del reame, venne verso Tunisi. Il
re Balase accolta grande oste andò contro a lui, e commissono insieme
mortale battaglia, nella quale morì la maggiore parte della gente del
re Balase, ed egli sconfitto si fuggì in Carvano, suo forte castello;
e assediato in quello dagli Arabi, per danari s’acconciò con loro, e
tornossi a Tunisi. Alesbi da capo co’ gli Arabi tornò sopra Tunisi: ma
Balase si tenea la guardia delle terre, sicchè gli Arabi non potendo
combattere si tornarono in loro pasture. Avea Balase quando si partì
di suo reame lasciato nella città reale di Fessa Maumetto suo nipote,
e in Tremus Buevem suo figliuolo. Costoro avendo sentito come Balase
era sconfitto e assediato dagli Arabi, senza sapere l’uno dell’altro,
catuno si rubellò e fecionsi fare re: il figliuolo in Tremus, e il
nipote in Fessa. E sentendo Buevem che Maumetto s’era levato re in
Fessa, parendogli ch’egli avesse occupata la sua eredità, propose
nell’animo suo d’abbatterlo, e così gli venne fatto, come innanzi al
suo debito tempo racconteremo.

CAP. XVI.
_Come per la partita del re d’Ungheria del Regno i baroni e’ popoli si
dolsono._
Sentendo gli uomini e i baroni del Regno la subita partita del re
d’Ungheria si maravigliarono forte, non ne avendo di ciò conosciuto
alcuno indizio. E molte comunanze e baroni ch’amavano il riposo del
Regno, e portavano fede alla sua signoria ne furono dolenti; perocchè
non ostante che fosse nato e nutricato in Ungheria, e avesse con seco
assai di quella gente barbara, molto mantenea grande giustizia, e non
sofferia che sua gente facesse oltraggio o noia a’ paesani, anzi gli
puniva più gravemente: e fece de’ suoi Ungheri per non troppo gravi
falli aspre e spaventevoli giustizie. E le strade e i cammini facea
per tutto il Regno sicure. E avea spente le brigate de’ paesani, delle
quali per antica consuetudine soleano grandi congregazioni di ladroni
fare, i quali sotto loro capitani conturbavano le contrade e’ cammini:
e per questo pareva a’ paesani essere in istato tranquillo e fermo da
dovere bene posare. E alquanti altri baroni che male si contentavano,
e gentili uomini di Napoli, per la morte del duca di Durazzo, e per
la presura de’ reali a cui e’ portavano grande amore, e perchè il
re non facea loro troppo onore, gli volevano male, e furono contenti
della sua partita. Gli altri se ne dolsono assai, e parve loro che il
Regno rimanesse in fortuna e in male stato, e che il peccato commesso
della morte del re Andreasso, e l’aggravamento de’ peccati commessi
per la troppa quiete de’ paesani, e per la soperchia abbondanza in
che si sconoscevano a Dio, non fosse punita, e meritasse maggior
disciplina e spogliamento di que’ beni, dai quali procedeva la viziosa
ingratitudine, come avvenne, e seguendo nostra materia diviseremo.

CAP. XVII.
_Come si reggeva la sua gente nel Regno partito il re._
Partito il re d’Ungheria del Regno, la cavalleria dei Tedeschi e
degli Ungheri, governata per buoni capitani, con le masnade de’ fanti
a piè toscani che aveano con loro, si manteneano chetamente senza
villaneggiare i paesani. E rispondea l’una gente all’altra tutti
ubbedendo a M. Currado Lupo, cui il re avea lasciato vicario, il quale
manteneva giustizia ov’egli distrignea. E gli uomini del Regno benchè
si vedessono in debole signoria, non si ardivano a muovere contro
ai forestieri, e non parea però loro bene stare. Ma i baroni che non
amavano il re d’Ungheria, volevano che la reina e M. Luigi tornassono
nel Regno; e l’università di Napoli, co’ gentiluomini di Capovana e di
Nido, d’un animo deliberarono il simigliante; e mandarono in Proenza,
dicendo che di presente dovessono tornare nel Regno, e fare capo a
Napoli ove sarebbono ricevuti onorevolemente, mostrando come i paesani
si contentavano male della signoria de’ Tedeschi e degli Ungheri, e che
in brieve tempo col loro aiuto sarebbono signori del reame. Aggiugnendo
che i soldati Ungheri e Tedeschi si rammaricavano forte, che il re
d’Ungheria non mandava danari per le loro paghe, ond’eglino erano di
lui malcontenti; e il doge Guernieri colla sua compagnia de’ Tedeschi
ch’era in Campagna s’offeria d’essere colla reina e con M. Luigi contro
alla gente del re d’Ungheria, in quanto il volesse conducere al suo
soldo: promettendo fedelmente per se e per le sue masnade d’aiutarli
riacquistare il Regno.

CAP. XVIII.
_Come messer Luigi si fe’ titolare re al papa, e mandò nel Regno._
Messer Luigi trovandosi in corte di papa marito della regina Giovanna,
e non re, gli parve, avendo diliberato di tornare nel Regno, che li
fosse di necessità avere titolo di re: acciocchè avendo a governare
colla reina le cose del reame, e a fare lettere da sua parte e della
reina, il titolo non disformasse, perocchè ancora la santa Chiesa
non avea diliberato di farlo re di Cicilia, si fece titolare il re
Luigi d’altro reame, il quale non avea, nè era per poter avere. E
d’allora innanzi cominciarono a scrivere le lettere intitolandole in
questo modo: _Ludovicus et Ioanna Dei gratia rex et regina Hierusalem
et Ciciliae_. E d’allora innanzi M. Luigi fu chiamato re. Il detto
re Luigi e la reina Giovanna avendo il conforto del ritornare nel
Regno, come detto è, senza soggiorno procacciarono di ciò fare. E
trovandosi poveri di moneta, richiesono d’aiuto il papa e i cardinali,
il quale non impetrarono. Allora per necessità venderono alla Chiesa
la giurisdizione che la reina avea nella città di Vignone per fiorini
trentamila d’oro. E nondimeno richiesono baroni, e comunanze, e
prelati, limosinando d’ogni parte per lo stretto bisogno. E con
molta fatica feciono armare dieci galee di Genovesi, e pagaronle
per quattro mesi. E in questo mezzo il re Luigi mandò innanzi a
se nel Regno M. Niccola Acciaiuoli di Firenze suo balio con pieno
mandato, il quale trovando la materia disposta al proponimento del suo
signore, incontanente condusse il doge Guernieri, ch’era in Campagna
con milledugento barbute di Tedeschi, ch’erano in sua compagnia. E
ordinato le cose prestamente, mandò sollecitando il re e la reina che
senza indugio venissono a Napoli con le loro galee: che essendo nel
Regno le loro persone, con l’aiuto di Dio e de’ baroni del Regno, che
desideravano la loro tornata, e de’ Napolitani, e del doge Guernieri,
cui egli avea condotto con buone masnade, e con le sue galee e’
sarebbono a queto signori del Regno, e non conoscea che la gente del
re d’Ungheria a questo potesse riparare, sicchè in brieve al tutto
sarebbono signori.

CAP. XIX.
_Come il re e la reina ritornarono nel Regno._
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