Cronica di Matteo Villani, vol. 1 - 12

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Brandagli con loro seguito, che allora erano i maggiori cittadini,
intesono a campare Messer Piero con gli altri prigioni che i cavalieri
di Perugia aveano ritenuti, come gente che aveano l’animo corrotto
alla tirannia della loro città, come poco appresso dimostrerò. Campato
messer Piero e’ suoi, gli Aretini si tornarono dentro senza aiutare
que’ di Perugia, o dar loro la raccolta nella città. In questo, messer
Piero e’ suoi ripresono ardire, e feciono scendere della montagna
i fanti loro, traboccando addosso a’ Perugini con smisurato romore:
i quali non vedendo essere soccorsi, nè avere ricolta, non poterono
sostenere, ma chi potè fuggire campò, e gli altri tutti furono presi
nelle vie e negli alberghi. Messer Piero raccolta la preda dell’arme,
e de’ cavalli, e de’ prigioni, senza esser contastato dagli Aretini,
si raccolse colla sua gente a salvamento, menandone più di trecento
cavalieri prigioni, ventisette bandiere cavalleresche, e trecento
cavalli; e giunto in Bibbiena con questa vittoria i cavalli e l’armi e
l’altra roba partì a bottino, e i cavalieri prigioni poveri e mendichi
lasciò alla fede. A’ Fiorentini levò l’aiuto e la speranza d’uscire a
campo al soccorso della Scarperia, come ordinato era, e a’ nimici diede
maggiore baldanza di vincere il castello.

CAP. XXIII.
_Come i Fiorentini procuraro di mettere gente nella Scarperia._
Veggendo i Fiorentini mancato disavventuratamente l’aiuto de’ Perugini,
e cresciuta baldanza a’ nimici per quella vittoria di messer Piero
Tarlati, perderono al tutto la speranza del campeggiare, e quelli
ch’erano assediati addomandavano soccorso più sollecitamente. Avvenne
che uno valente conestabile della casa de’ Visdomini di Firenze, che
aveva nome Giovanni, con grande ardire elesse trenta compagni sperti
in arme, buoni masnadieri, e una notte si mise nel campo de’ nimici,
e per mezzo delle guardie, non pensando che gente de’ Fiorentini si
mettessono tra loro, virtuosamente si misono nella Scarperia; la
qual cosa fu agli assediati alcuno conforto, e più per la persona
del valente conestabile, che per la sua piccola compagnia, a cotanto
bisogno quanto aveano dì e notte, per gli assalti continovi de’ loro
nimici. E i conducitori dell’oste avendo sentito l’entrata di que’
masnadieri nella Scarperia, la feciono più strignere e più guardare il
dì e la notte. E tentato i Fiorentini per più riprese di mettervi anche
gente, e non trovando per niuno prezzo il modo, un altro conestabile
cittadino di Firenze della casa de’ Medici, di grande fama tra gli
uomini d’arme, per accrescere suo onore si fece dare cento fanti
masnadieri a sua eletta, e avendo con seco uno della Scarperia che
sapeva l’ore delle vegghie delle guardie, e le loro vie, presono il
cammino di notte per l’alpe di verso quella parte donde meno si potea
temere per quelli dell’oste, con la insegna levata co’ suoi compagni
stretti si mise arditamente per lo campo, dirizzandosi verso la
Scarperia. E in su l’entrata del campo le guardie s’avviddono, e levato
il romore, venti di quelli fanti rimasono addietro, e non poterono
ristrignersi co’ compagni, e tornaronsi nell’alpe, e camparono: e il
conestabile con ottanta compagni sanza fare arresto, innanzi che i
nimici il potessono occupare con la loro forza, sano e salvo co’ suoi
compagni entrò nella Scarperia; e così per virtù di due conestabili
fu fornito quello castello di quello che aveva maggiore bisogno. E per
questo soccorso gli assediati presono cuore e speranza ferma della loro
difesa; e tra capitani dell’oste n’ebbe ripitio e grande sospetto,
temendo che gli Ubaldini non gli avessono condotti, ma niuna colpa
v’ebbono. E soprastando alquanto allo infestamento de’ nimici sopra
questo castello, ci occorre alcune altre materie a cui ci conviene dare
luogo per debito del nostro trattato, e appresso ritorneremo con più
onestà alla presente materia.

CAP. XXIV.
_Come la reina Giovanna si fece scusare in corte di Roma._
Come addietro abbiamo narrato, quando l’accordo si fece dal re
d’Ungheria al re Luigi, ne’ patti venne fatta la commissione nel
papa e ne’ cardinali per catuna parte: che se la reina Giovanna si
trovasse colpevole della morte d’Andreasso suo marito, fratello del re
d’Ungheria, ch’ella dovesse essere privata del reame, e dove colpevole
non si trovasse, dovesse essere reina. A questo patto acconsentì il
re d’Ungheria, più per l’animo che avea di tornare in suo paese, che
per altra buona volontà che di ciò avesse, e però la commissione fu
avviluppata più che ordinato o spedito libello, e non vedendo i pastori
della Chiesa come onestamente potessono diliberare questa cosa, la
dilungarono. Essendo lungamente gli ambasciatori di catuna parte stati
in corte senza alcuno frutto dell’altre cose commesse per li detti re
nella Chiesa, vedendo che questo articolo non terminandosi portava
infamia e pericolo alla reina, con ogni studio vollono che il suo
processo si terminasse. E perocchè assoluta verità del fatto non poteva
scusare la regina, levare il luogo della dubbiosa fama proposono;
che se alcuno sospetto di non perfetto amore matrimoniale si potesse
proporre o provare, che ciò non era avvenuto per corrotta intenzione o
volontà della reina, ma per forza di malíe o fatture che le erano state
fatte, alle quali la sua fragile natura femminile non avea saputo nè
potuto riparare. E fatta prova per più testimoni come ciò era stato
vero, avendo discreti e favorevoli uditori, fu giudicata innocente
di quello malificio, e assoluta d’ogni cagione che di ciò per alcun
tempo le fosse apposto, o che per innanzi le si potesse apporre di
quella cagione: e la detta sentenza fece divulgare per la sua innocenza
ovunque la fede giunse della detta scusa.

CAP. XXV.
_Come i Genovesi e i Veneziani ricominciarono guerra in mare._
Seguita di dar parte intra le italiane tempeste della terra a quelle
che in que’ tempi concepute ne’ nostri mari Tirreno e Adriatico
da superbe presunzioni di due comuni, in Grecia e poi nelli stremi
d’Europa partorirono gravi cose, come seguendo nostro trattato si potrà
trovare. I Genovesi infestati dalla loro alterezza, ricordandosi che
i Veneziani l’anno passato aveano soperchiato in mare le undici loro
galee, avvegnachè per l’aiuto de’ loro di Pera si fossono felicemente
vendicati, vollono per opera mostrare loro potenza a’ Veneziani, e per
comune consiglio, essendo a quel tempo catuna casa de’ loro maggiori
cittadini tornata con pace in Genova, ordinarono di fare armata, la
quale fosse fornita per più eccellente modo che mai avessono armato.
E comandarono a’ grandi e a’ popolani mercatanti, e agli artefici
minori e ad ogni maniera di gente, che di due l’uno s’acconciassono ad
andare in quell’armata, e simigliante comandamento feciono fare per
tutta la loro riviera, e certo la volontà vinse il comandamento, che
più volentieri s’acconciavano d’andare che di rimanere: i corpi delle
galee furono per numero sessantaquattro, e ammiraglio fu fatto messer
Paganino Doria; i soprassaglienti furono sopra ogni galea doppi, armati
nobilmente, e doppi i balestrieri e i galeotti, tutti forniti d’arme,
e tutti si vestirono per compagne chi d’un’assisa e chi d’un’altra, e
comandamento ebbono dal loro comune d’abbattere la forza de’ Veneziani
in mare e in terra giusta loro podere: e fornite le galee di panatica
e di ciò ch’aveano bisogno, e pagati per ordine di mercatanzia e’
dazii, senza trarre danari di comune, per sei mesi, del mese di
luglio, gli anni di Cristo 1351, si partirono da Genova, ed entrarono
nel golfo di Vinegia facendo danno assai a’ navili e alle terre de’
Veneziani, e senza lungo soggiorno si partirono di là e andaronne
all’isola di Negroponte. I Veneziani non provveduti della subita armata
de’ Genovesi, aveano mandate venti loro galee armate in Romania, le
quali erano nell’Arcipelago, delle quali i Genovesi ebbono lingua, e
seguitandole, le sopraggiunsono all’isola di Scio: le quali vedendosi
di presso l’armata de’ Genovesi, con la paura aggiunsono forza a’ remi,
e avendo aiuto d’alcuno vento alle loro vele, essendo seguitate da’
Genovesi, fuggendo le diciassette ricoverarono nel porto di Candia, e
le tre presono alto mare per loro scampo.

CAP. XXVI.
_Come l’armata genovese andò a Negroponte e assediò Candia, e quello
che ne seguì._
L’armata de’ Genovesi seguendo quella de’ Veneziani giunsono a
Negroponte, ove i Veneziani con grande studio e paura erano arrivati, e
avendo da’ terrazzani aiuto, appena aveano compiuto di tirare le loro
diciassette galee in terra, lasciando le poppe in mare per poterle
difendere, e in aringo l’aveano messe l’una a lato all’altra a modo
di bertesca per poterle meglio di terra difendere, ove giunta l’armata
de’ Genovesi, senza arresto l’assalirono con aspra e folta battaglia, e
prese l’avrebbono, se non fosse che tutti gli uomini d’arme di quella
terra furono alla loro difesa, e a guardare la marina che i Genovesi
non potessono scendere in terra: e in quello assalto la feciono sì
bene, che i Genovesi s’avvidono per forza non poterle guadagnare nè
scendere in terra nel porto: e però presono loro consiglio d’assediare
la città di Candia per mare e per terra, e procacciare di Pera e
dell’altre parti di loro amici legni grossi, e gente e dificii di
legname per combattere e vincere la terra, se per loro virtù e forza
fortuna l’assentisse. E allora lasciarono guardia delle loro galee
sopra il porto, e con l’altre girarono alquanto, e misono in terra loro
campo, attendendo gente e fornimenti che procacciavano per combattere
la terra, e que’ d’entro s’afforzavano alla difesa, e dì e notte
intendeano a fare buona guardia, avendo mandato a’ Veneziani per loro
soccorso.

CAP. XXVII.
_Come i Veneziani feciono lega co’ Catalani, e di nuovo armarono
cinquanta galee._
Stando l’armata de’ Genovesi per mare e per terra all’assedio della
città di Candia, il comune di Vinegia ebbe le novelle, ed essendo
tanti loro grandi e buoni cittadini, e le loro galee e la loro
città assediata, ebbono grande dolore, nondimeno con franco animo
deliberarono di fare ogni loro sforzo per soccorrerli: e ricercando
la gente che allora poteano fare di loro distretto, non trovarono che
bastasse a potere fornire loro armata, tanto era mancata per la passata
mortalità, e però elessono di loro cari cittadini solenni ambasciadori,
i quali mandarono prima a Pisa, e appresso in Catalogna, per recarli a
loro lega, e averli in loro aiuto, con ogni largo patto che volessono:
e di ciò diedono agli ambasciadori piena libertà e balìa, con ispendio
di grande somma di moneta. I Pisani essendo in pace co’ Genovesi,
avvegnachè poco s’amassono, per promesse o patto che fosse offerto
loro non si vollono muovere contro a’ Genovesi, ma alquanto più che ’l
consueto s’inamicarono con loro, ricevendo grazie da’ Genovesi per la
fede mantenuta a quel punto. I Catalani per grande odio che aveano a’
Genovesi, per ingiurie e danni ricevuti da loro in mare, di presente
s’allegarono co’ Veneziani, e promisono di dare armate di loro uomini
quelle galee che i Veneziani volessono, dando i Veneziani loro i corpi
delle galee e i debiti soldi a’ Catalani. E ferma la lega, i Veneziani
incontanente misono il banco, e cominciarono a scrivere e a soldare la
gente, e mandarono a Venezia che vi mandassono i corpi delle galee e’
danari, i quali senza indugio vi mandarono ventitrè corpi di galee, e
danari assai, e fecionle armare di buona gente. I Veneziani a Venezia
prestamente n’armarono ventisette, e mentre che l’armata si facea
in Catalogna e a Venezia, i Veneziani mandarono una galea sottile
bene armata a portare novelle del loro grande soccorso, e mandarono
in quella danari per fare apparecchiare le galee ch’erano là, che di
presente al tempo della venuta della loro armata fossono apparecchiate,
sicchè contra a’ loro nimici fossono più possenti. Questa galea per
scontro di fortuna s’abbattè in una galea di Genovesi, e combattendo
insieme, la veneziana fu vinta e presa in segno del futuro danno.
I Genovesi ebbono i danari, e le lettere e l’avviso dell’armata de’
Veneziani e de’ Catalani per potersi provvedere; il corpo della galea
aggiunsono alle loro, e gli uomini ritennono a prigioni, con gran festa
di questa avventura.

CAP. XXVIII.
_Come la imperatrice di Costantinopoli col figliuolo si fuggì in
Salonicco._
Avvenne che in questi medesimi tempi che l’armata de’ Genovesi era a
Negroponte, che Mega Domestico del lignaggio imperiale, il quale si
faceva dire Cantacuzeno, cioè imperadore, essendo rimaso balio del
figliuolo dell’imperadore di Costantinopoli a cui succedea l’imperio,
governava tutto per lui, gli diè la figliuola per moglie, ingannando
la giovanezza del suo pupillo, senza consentimento della madre.
L’imperatrice sentendo quello che Mega Domestico avea fatto, prese
sospetto, e fatto le fu vedere che ’l figliuolo sarebbe avvelenato,
perchè l’imperio come era in guardia rimanesse libero al detto Mega,
balio dell’imperio e del giovane, onde l’imperadrice col figliuolo,
di furto e improvviso a Mega s’erano fuggiti di Costantinopoli, e
andati nel loro reame di Salonicco, ivi mostrando manifesto sospetto
del balio dell’imperio, si dimorarono in grande guardia. E Mega
Domestico, come è detto, vedendosi rimaso nella forza dell’imperio,
si fece dinominare imperadore: e senza fare guerra al giovane, si
fortificava nell’imperio, e aveasi confederato l’amistà de’ Veneziani.
L’imperadrice avendo sentita l’armata de’ Genovesi a Negroponte,
mossa da femminile furia e sprovveduto consiglio, mandò a trattare
co’ Genovesi, in cui prendeva confidanza, perocchè era figliuola
del conte di Savoia, assai presso di vicinanza a’ Genovesi, e sapea
ch’elli erano nimici de’ Veneziani, amici di Mega Domestico suo
avversario; il trattato fu fermo co’ Genovesi, e le promesse furono
grandi ove rimettessono il figliuolo in signoria dell’imperio di
Costantinopoli. I Genovesi per questo si pensarono di passare il verno
alle spese del’imperadrice, e abbattere molto della forza degli amici
de’ Veneziani, e d’essere più agresti e più forti contro alla loro
armata, e però si dispuosono a lasciar l’assedio con loro onore, ove
poco profittavano, e a prendere il servigio dell’imperadrice. Lasceremo
al presente questa materia per riprenderla al suo debito tempo, e
torneremo a’ fatti di Firenze.

CAP. XXIX.
_Come la Scarperia sostenne la prima battaglia dal Biscione._
Tornando all’assedio della Scarperia, il capitano dell’oste col suo
consiglio vedendo che la Scarperia era fornita per la sua difesa di
valorosi masnadieri, e che dentro era bene fornita di vittuaglia,
e sentendo che i Fiorentini non si curavano di loro, e continovo
accresceva loro forza, ed essendo mancata la ferma de’ loro soldati:
per non partirsi con vergogna di non avere vinto per forza uno piccolo
castello, rifermarono i loro cavalieri, e avuti danari dall’arcivescovo
tutti gli pagarono, e promisono paga doppia e mese compiuto a coloro
che combattendo vincessono la Scarperia. Il tempo era già all’entrata
d’ottobre, e la vittuaglia cominciava a rincarare, e questo più gli
spronava a volere vincere la punga. I dificii da combattere la terra
erano apparecchiati, scale assai, e grilli e gatti e torri di legname,
le quali aveano condotte presso al castello al tirare della balestra,
o poco più. E così apparecchiati, una domenica mattina, ordinati
i combattitori, da più parti con molti balestrieri assalirono il
castello, e conduceano i dificii e le scale alle mura con gran tempesta
di loro grida. Quelli del castello ordinati dentro alla difesa co’ loro
capitani, si teneano coperti e cheti, e lasciarono valicare i nimici il
primo fosso e entrare nel secondo, che non v’avea acqua, e accostare
molte scale alle mura innanzi che si movessono: allora dato il segno
da’ loro conestabili, con grande romore sollecitamente cominciarono
dalle mura a percuotere sopra i nimici colle pietre, lance e pali, e
a traboccare loro legname addosso, e i balestrieri saettare da presso
e da lungi senza perdere in vano i loro verrettoni. In questo primo
assalto fediti e magagnati assai di quelli che s’erano accostati
alle mura e agli steccati per forza ne furono dilungati: nondimeno
i capitani per straccare di fatica quelli delle mura, rimutavano
spesso la loro gente dalla battaglia, rinfrescando gente nuova, e non
lasciando prendere lena nè riposo a que’ delle mura e della guardia
degli steccati, ma i franchi masnadieri si difendeano virtudiosamente,
avendo in dispregio il riposo, e confortando l’uno l’altro per modo,
che per forza nè per rinfrescamento di loro battaglia, da innanzi terza
all’ora di nona, per molte riprese di battaglie non ebbono podere
d’accostarsi alle mura, nè agli steccati ove le mura non erano. Nel
primo fosso condussono sessantaquattro scale, e nel secondo accosta
del muro tre, le quali abbandonarono, non potendo avanzare; e con poco
onore di questa prima battaglia, e con alquanti morti rimasi nel fosso,
e con molti fediti e magagnati, si ritrassono dalla battaglia, e que’
d’entro intesono al riposo e a medicare i loro fediti, che ne aveano
gran bisogno.

CAP. XXX.
_Come la Scarperia riparò alla cava de’ nimici._
Nonostante l’ordine delle battaglie, i conducitori dell’oste con gran
costo e con molto studio conducevano una cava sotterra per abbattere
le mura della Scarperia, e molto grande speranza aveano in quella di
vincere la terra. Que’ d’entro pensando e temendo che così dovessono
fare i loro avversari, provvidono al rimedio, e feciono un fosso dentro
intorno alle mura, il quale era braccia quattro e mezzo largo in bocca,
e braccia tre largo in fondo, e andava di sotto al fondamento delle
mura braccio uno e mezzo, acciocchè se le mura cadessono, si trovassono
l’aiuto del detto fosso alla loro difesa. E nondimeno provvidono di
cavare di fuori de’ fossi per ritrovare la cava de’ nimici innanzi che
giugnesse alle mura. E a fornire questo misono grande sollecitudine,
ma i loro avversari adoperarono grande forza per ritrarli da quello
lavorio: e condussono un castello di legname in sul primo fosso, sì
presso, che con le pietre combatteano coloro ch’erano tra l’uno fosso
e l’altro alla guardia de’ loro cavatori, e avvenne che a questa si
rivolse grande parte dell’oste, e tutta la forza di quelli d’entro.
Quelli di fuori combattendo con le pietre e con le balestre, e
rinnovando d’ora in ora i freschi combattitori, quelli del fosso colle
fosse delle parate e co’ palvesi francamente s’atavano, con le loro
balestra e con quelle del loro aiuto dalle mura, e diputati a questa
punga trecento di que’ d’entro, sostennono l’assalto de’ nimici il
lunedì e ’l martedì molto francamente, non lasciando impedire i loro
cavatori: i quali lavorando con grande sollecitudine pervennero alla
cava de’ nimici, la quale era venuta innanzi centottanta braccia, e
presso alle mura a venti braccia: la quale di presente affocarono, e
cacciarono i cavatori, e guastarono loro la cava. Essendo da catuna
parte molti fediti, que’ del campo abbandonarono l’assalto con loro
vergogna; e i valenti masnadieri alla ritratta de’ nimici presono e
arsono il castello del legname ch’era sopra il fosso, e stesonsi ad
assalire un altro ch’era più di lungi, e per forza l’affocarono, e
tornaronsi sani e salvi nel castello, avendo presa grande baldanza
della loro difesa, per la vittoriosa punga di quella cava.

CAP. XXXI.
_Del secondo assalto dato alla Scarperia._
Vedendo il capitano dell’oste e il suo consiglio essere di ogni assalto
fatto con vergogna ributtato da que’ della Scarperia, e vedendosi
venire addosso il verno e non avere vinto il castello, e che lo strame
mancava, pensavano che la partita sarebbe con loro grande vergogna:
però vollono ancora da capo cercare la fortuna, innanzi che da quello
assedio si partissono. E per avere apparecchiato da riempiere i
fossi, feciono tutto il legname e’ frascati che aveano ne’ loro campi
conducere presso a’ fossi: e il giovedì mattina innanzi dì, essendo
l’oste armata, e le battaglie ordinate, e più torri di legnami condotte
presso a’ fossi, con ordine di palvesari e di loro balestrieri, senza
contasto riempierono di frascati il primo fosso, e le torri condussono
sopr’esso fornite di molti balestrieri. I cavalieri smontarono de’
cavalli con gli elmi in testa, e cominciata la battaglia a un’ora da
ogni parte, i cavalieri si sforzarono di conducere gatti, grilli e
scale alle mura. Que’ d’entro che aveano preso maggiore ardire per gli
altri assalti, lasciarono fare molte cose innanzi che alla battaglia
si scoprissono, ma ordinato da’ loro conestabili, al segno dato si
mostrarono alla difesa, e con tanto impeto cominciarono a caricare di
pietre, e di pali aguti e di legname i loro assalitori, con l’aiuto
de’ loro buoni balestrieri, che per forza gli ributtarono addietro
del primo fosso. E avendo a quelli ch’erano nelle torri ordinato
di loro i migliori balestrieri, gli strinsono per modo, che non si
poteano scoprire, nè dare a loro utile aiutorio. E in questo assalto
alcuni conestabili d’entro ebbono ardire con certi loro compagni
eletti d’uscire fuori della terra, e con le lance e con le spade in
mano fediano per costa i combattitori, e incontanente si ritraevano:
e questo feciono più volte danneggiando i nimici, e ritraendoli dalla
battaglia dov’erano ordinati, senza ricevere impedimento. Ed essendo
durata la battaglia infino a nona, senza avere que’ dell’oste fatto
alcuno acquisto, feciono sonare la ritratta. E di presente quei del
castello misono fuori de’ loro masnadieri, i quali presono le torri
e’ dificii e arsonli, che i nimici aveano condotti, e dato opera
infino alla notte a mettere dentro il legname utile, tutto l’altro co’
frascati arsono nel fosso. E intesono a medicare i loro fediti, e a
farsi ad agio d’alcuno riposo, del quale aveano gran bisogno per quella
giornata.

CAP. XXXII.
_Del terzo assalto dato._
Avendo i capitani dell’oste quasi perduta ogni speranza di potere
vincere la Scarperia, vollono tentare l’ultimo rimedio con danari e
con ingegno; e in quello rimanente del dì feciono venire a loro tutti
i conestabili tedeschi con i più nomati cavalieri di loro lingua, i
quali nelle battaglie date al castello poco s’erano travagliati altro
che di vedere, e dissono loro: se a voi desse il cuore di vincere con
forza e con ingegno questa terra, l’onore sarebbe vostro, e oltre alla
paga doppia e mese compiuto, a catuno daremo grandi doni. I conestabili
e i loro baccellieri si strinsono insieme, e mossi da presuntuosa
vanagloria e da avarizia, rispuosono: che dove e’ fossono sicuri
d’avere di dono sopra le cose promesse fiorini diecimila d’oro, che
darebbono presa la Scarperia: e questo dava loro il cuore di fornire
con l’aiuto dell’altra oste, ove fosse fatto quello che direbbono
in quella notte. I capitani promisono tutto senza indugio, sicchè
rimasono contenti, e di presente feciono fare comandamento a tutti
i conestabili delle masnade da cavallo e da piè, che colà da mezza
notte fossono apparecchiati dell’arme e de’ cavalli; e fatto questo,
andarono a cenare e a prendere alcuno riposo. Venuta la mezza notte,
e armata l’oste chetamente, il tempo era sereno e bello, e la luna
faceva ombra in quella parte della Scarperia che i Tedeschi aveano
pensato d’assalire: e fatto tra loro elezione di trecento baccellieri,
a loro commisono tutto il fascio della loro intenzione; i quali bene
armati, separati dall’altra gente, con le scale a ciò diputate e con
altri utili argomenti, senza alcuno lume, s’addirizzarono verso quella
parte della terra ove l’ombra gli copriva. Tutta l’altra oste con
innumerabili luminarie, e con ismisurato romore e suoni di tutti gli
stromenti dell’oste, colle schiere fatte e colle battaglie ordinate
si cominciarono a dirizzare dall’altre parti verso la Scarperia. I
fanti della Scarperia, che appena aveano ancora dell’affanno del dì
preso alcuno riposo, sentendo lo stormo, e vedendo l’esercito venire
con ordine di loro battaglie a combattere la terra, cacciata la paura
e invilito il riposo, di presente furono all’arme: e con l’ardire
delle loro difese apparecchiati, andò catuno alla sua guardia delle
mura e de’ palancati; e stando cheti e senza mostrare i loro lumi
attesono tanto, che le schiere e le battaglie s’appressarono alle mura,
e cominciato fu l’assalto con suoni di tanti stromenti e con grida
d’uomini, che riempieva il cielo e tutto il paese molto di lungi.
Quest’asprezza delle grida era maggiore che dell’arme, per attrarre
l’aiuto da quella parte di que’ d’entro, e mancarlo ov’era l’aguato.
Quelli della terra maestri di cotali cose delle grida non si curavano,
e quelli che si appressavano, francamente colla balestra e colle pietre
gli faceano risentire e allungare, e niuno non si partiva o mosse dalla
sua guardia. I trecento baccellieri riposti presso della terra sentendo
il romore e l’infestamento di quelli dell’oste, chetamente colle scale
in collo passarono il primo e il secondo fosso, che non v’avea acqua,
e condussono e dirizzarono alle mura più e più scale, vedendolo e
sentendolo que’ della terra ch’erano a quella guardia, e lasciandogli
fare, finchè cominciarono a salire sopra esse, e aveano già i loro
aiutori a piede; allora quelli della guardia cominciarono a gridare,
e a mandare sopra loro grandi pietre e legname e pali, percotendoli e
facendoli traboccare delle scale nel fosso l’uno sopra l’altro. E in
un punto gli ebbono sì storditi e fediti e magagnati, che in caccia si
partirono da quello assalto, e tornaronsi all’altra oste. Dall’altra
parte fu maggiore il grido che l’assalto, ma per li buoni balestrieri
molti ve ne furono fediti in quella notte. E facendosi dì, in sulla
ritratta uscirono della terra un fiotto di buoni briganti, e dieronsi
tra’ nimici, e per forza ne presono e ne menarono tre di loro cavalieri
nella Scarperia, e gli altri ritornarono al campo perduta ogni speranza
d’avere la Scarperia. Que’ di dentro uscirono fuori un’altra volta
quella mattina, e arsono più dificii di legname ch’erano presso, e uno
castello ch’era più di lungi, e contamente senza impedimento sani e
salvi si ritornarono nella Scarperia.

CAP. XXXIII.
_La partita dell’oste dalla Scarperia._
Vedendo il capitano dell’oste e i suoi consiglieri aver fatta la loro
oste ogni prova per vincere la Scarperia, ed esserne con vergogna
ributtati per la virtù de’ buoni masnadieri che dentro v’erano, e
tornando l’oste piena di molti fediti, e che la vittuaglia venia
mancando l’un dì appresso l’altro fortemente, e che già lo strame per i
cavalli al tutto venia loro meno, e il tempo ch’era stato fermo e bello
lungamente s’apparecchiava di corrompere all’acqua, prese per partito
d’andarsene a Bologna; e al segno dato d’una lumiera alzata sopra
ogni lume molto, il sabato notte, a dì 16 d’ottobre, l’oste si dovesse
partire, e ogni uomo si dovesse riducere verso l’alpe di Bologna, i cui
passi erano tutti in loro signoria, e il cammino era corto e il passo
aperto, e la gente volonterosa di levarsi da campo, per la qual cosa
subito ebbono passato il giogo dell’alpe. I Fiorentini avendo sentito
che i nimici erano per partirsi dall’assedio, aveano mandati in Mugello
i cavalieri che aveano per danneggiarli, se potessono, alla levata:
ma gli avvisati capitani dell’oste la domenica mattina innanzi che la
loro gente s’avviasse feciono una schiera di duemila buoni cavalieri,
i quali tennero ferma in sul piano, insino che seppono che tutta la
loro gente e la salmeria erano valicati il giogo e passati in luogo
salvo; la schiera della guardia passò, non vedendo apparire alcuno
nimico, girò e prese il suo cammino verso la montata dell’alpe, ch’era
presso a due miglia di piano: ed ebbono passato prima il giogo, che
la cavalleria de’ Fiorentini si assicurasse di stendere per lo piano,
temendo d’aguato: e così sani e salvi si ricolsono a Bologna senza
impedimento per lo senno de’ loro capitani. Quest’oste mossa con tanto
ordine e aiuto di tutti i ghibellini d’Italia, venuta di subito sopra
la nostra città sprovveduta d’ogni aiuto, stette ottantadue dì sopra
il nostro contado senza potere vincere per forza niuno castello, e de’
quali, sessantuno dì consumarono all’assedio del piccolo castello della
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