Cronica di Matteo Villani, vol. 1 - 04

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della quale rimasono quattro figliuoli maschi, che ’l primo nomato
Carlo fu duca di Normandia, e il secondo messer Luigi conte d’Angiò,
e il terzo messer Giovanni conte di Pittieri, e il quarto minore
messer Filippo: e tre figliuole, che la maggiore fu reina di Navarra,
la seconda monaca del grande monasterio di Puscì, e un’altra piccola
nominata Lisabetta. Ed essendo catuno senza moglie, il duca Giovanni
trattava di torre per moglie la sirocchia del re di Navarra, ch’era
delle più belle giovani e di maggiore pregio di virtù che niun’altra
di que’ paesi, e tenevane bargagno. Il re Filippo suo padre sapendo
che il figliuolo trattava d’avere questa damigella per moglie, un dì
che ’l duca suo figliuolo era cavalcato fuori del paese, mandò per
questa giovane: e come fu venuta, senza fare altro trattato la tolse
per moglie, perocchè ’l piacere della sua bellezza non gli lasciò
considerare più innanzi. Tornato il figliuolo se ne indegnò forte, e
alla festa delle nozze del padre non volle essere. Ma passato alcuno
tempo, richiamato dal padre, venne a lui. E riprendendolo il re
dolcemente, gli disse: caro figliuolo, se voi amavate avere a donna
questa damigella, voi non dovevate tener bargagno. Onde egli conoscendo
suo difetto, rimase contento. E allora il padre gli diè per moglie
un’altra nobile dama della casa di Bologna su lo mare, ch’era stata
moglie del duca di Borgogna: della qual cosa i Borgognoni furono mal
contenti, essendo rimaso un picciolo fanciullo della detta donna, il
quale dovea essere loro duca. E per lo detto maritaggio vendè la donna
il governamento del figliuolo con la forza del re, e il re occupò
parte della giuridizione di Borgogna, onde i baroni e’ paesani forte si
sdegnarono contro al loro re. Ma perocchè il re di Francia per troppa
giovinile vaghezza avea offeso il figliuolo e se, poco tempo stette
con la sua giovane e vaga donna, che sforzando la natura già senile
nella bellezza della damigella, raccorciò il tempo della sua vita,
come appresso al debito tempo racconteremo, narrando prima com’egli fu
ingannato dagl’Inghilesi.

CAP. XXXIII.
_Come il re di Francia fu ingannato del trattato di Calese con gran
danno._
Il re Filippo avendo l’animo curioso di trarre del suo reame la forza
del re d’Inghilterra, il quale teneva il forte castello di Calese in su
la marina, non potendo per forza farlo, pensava fornirlo per danari con
trattato. Alla guardia di Calese era uno gentile uomo d’Inghilterra,
con sue masnade di cavalieri e di sergenti. Il re di Francia il fece
tentare se per danari gli rendesse il castello. L’Inghilese avveduto
diede orecchie al fatto, e senza indugio il fece segretamente sentire
al suo signore; il quale confidandosi nella fede di costui, gli
diede per comandamento che menasse saviamente il trattato infino al
fatto. Costui seguitò con molta astuzia, tanto, che per la sfrenata
volontà che il re di Francia avea di racquistarlo, s’indusse a dare
i danari innanzi, attenendosi alla fede del castellano, e dielli,
come era il patto, seimila scudi d’oro, di ventimila che per lo patto
gli dovea dare, e del rimanente gli fece quelle fermezze che volle,
che mettendo dentro nel castello quella gente che il re volesse, in
sul ponte compierebbe il pagamento. E così data la fede da catuna
parte, il re di Francia commise la bisogna ad alquanti suoi baroni:
i quali incontanente forniti di cavalieri e di sergenti d’arme in
grande quantità, cavalcarono al castello; e come ordinato era per
lo castellano, aperta la porta, e calato il ponte, mise dentro nel
castello coloro cui i Franceschi vollono, perchè vedessero a loro
sicurtà che dentro non vi fosse altra gente che la sua alla guardia,
acciocchè si assicurassono a fare il rimanente del pagamento; e a
costoro, com’egli avea provveduto, fece sì vedere, che del nascoso
aguato non si avvidono. Onde i Franceschi vinti dalla sprovveduta
baldanza, s’affrettarono a fare sul ponte il pagamento del rimanente
fino ne’ ventimila scudi d’oro al castellano, ed egli mise dentro nel
castello una parte de’ Franceschi, mostrando di volere assegnare loro
la fortezza del castello, e l’altra oste s’attendea di fuori. Il re
d’Inghilterra, che avea fatto menare questo trattato, era di notte
venuto nel castello egli e il figliuolo con buona compagnia di gente
eletta e fidata, come a quello affare gli parve competente, i quali
si stettono riposti per modo, ch’e’ Franceschi non se ne poterono
avvedere. I Franceschi che si credettono senza inganno essere signori
del castello, da più parti furono subitamente assaliti dal re e da sue
genti. E bene che gl’Inghilesi fossono pochi a rispetto de’ Franceschi,
per lo improvviso e subito assalto i Franceschi ch’erano nel castello
sbigottirono, e temettono, vedendosi a stretta, e non essendo usi
di cotali baratti, per sì fatto modo, che poco feciono resistenza.
Gl’Inghilesi di presente, come ordinato fu, presono le vie e le porti,
e ’l castellano che si mischiava al cominciamento co’ Franceschi
d’entro si rivolse contro a loro. E vedendo i Franceschi che non
aveano l’uscita libera della terra, lasciarono l’arme, e arrenderonsi
prigioni al re d’Inghilterra. E fatto questo, a’ Franceschi di fuori
fu la cosa sì maravigliosa, che fortemente spaventarono. E sentendo
questo il re e’ suoi presono ardire, e uscirono fuori addosso agli
spaventati, con grandi strida e ardire. E non ostante che i Franceschi
fossono presso a dieci per uno degl’Inghilesi, tanta paura gli vinse,
che si misono in fuga, e abbandonarono il campo. Ed essendo seguitati
alquanto dagl’Inghilesi, che non gli poterono troppo seguitare perchè
aveano pochi cavalli, presine e morti alquanti, con doppia vittoria si
ritornarono nel castello.

CAP. XXXIV.
_Come messer Carlo eletto imperadore fu presso che morto di veleno._
Nella cronica del nostro anticessore è fatta memoria, come la santa
Chiesa di Roma, sappiendo come Carlo figliuolo del re Giovanni di
Boemia era di virtù e di senno e di prodezza il più eccellente prenze
della Magna, morto il Bavaro, che lungo tempo in discordia colla Chiesa
avea occupato lo ’mperio, non ostante che il re Giovanni vivesse,
ordinò di farlo eleggere allo ’mperio. Ed essendo in discordia gli
elettori, perocchè l’arcivescovo di Maganza non gli volea dare la boce
sua, papa Clemente trovando ch’egli era stato de’ fautori del Bavaro,
il privò dell’arcivescovado, ed elessene un altro; il quale avendo il
titolo, non ostante non avesse la possessione, come il papa volle diede
la sua boce al detto Carlo, e così ebbe piena la sua elezione. Costui
eletto era impotente di cavalleria e di moneta a potere mantenere campo
ad Aia la Cappella quaranta dì, a rispondere con la forza dell’arme
a chi lo volesse contastare, secondo la consuetudine degli eletti
imperadori: e però santa Chiesa dispensò con lui questa ceremonia,
e levollo dal pericolo e dalla spesa. E in questo servigio la Chiesa
prese saramento da lui, che venendo alla corona egli perdonerebbe a’
comuni di Toscana ogni offesa fatta all’imperadore Arrigo suo avolo
e agli altri imperadori, e tratterebbegli come amici senza alcuna
oppressione. Dopo questo, morto il padre nella battaglia del re di
Francia, come detto è, a costui succedette, e fu chiamato re di Boemia.
E cercando d’accogliere forza per potere venire alla corona dello
imperio, ed essendo poco pregiato e meno ubbidito dagli Alamanni,
tenendosi gravati della sua elezione, egli umile si stava chetamente
in Boemia aspettando suo tempo. La reina con femminile consiglio
volendo attrarre l’amore del marito dall’altre donne, ch’era giovane,
avvegnachè assai onesta, gli fece dare a mangiare certa cosa, la quale
mangiata dovea crescere l’amore alla sua donna. Nella qual cosa, o erba
o altro che mescolato vi fosse che tenesse veleno, come presa l’ebbe,
ne venne a pericolo di morte; e per aiuto di grandi e subiti argomenti,
pelato de’ suoi peli, ricoverò la salute del suo corpo. Della qual
cosa facendo condannare a morte due suoi siniscalchi per giustizia,
la reina, parendo che per sua semplice operazione, più che per colpa
che avessono, i famigli del loro eletto imperadore fossono per morire
innocenti, s’inginocchiò dinanzi al re dicendo, come que’ cavalieri non
aveano colpa di quello accidente, ma se colpa c’era, era sua: perocchè
per femminile consiglio, volendo più attrarre a se il suo amore, non
credendo far cosa che offendere il dovesse, li fece dare quella cosa a
bere, ovvero a mangiare: e però, se giustizia se n’avea a fare, ella
era degna per la sua ignoranza d’ogni pena, e non coloro ch’erano
innocenti. Il discreto signore udite queste parole, considerò la
fragilità e la natura delle femmine, e colla sua mansuetudine inchinò
l’animo all’errore dell’amore femminile, e con molta benignità perdonò
alla reina dolcemente, e liberò i suoi siniscalchi, rimettendogli ne’
loro ufici e onori. Alcuni dissono, che messer Luchino de’ Visconti
di Milano il fece avvelenare per tema di perdere la sua tirannia. Ed
essendo lo eletto imperadore nel pericolo della morte, si disse che
promise a Dio se campasse, che perdonerebbe a chi l’avesse offeso e
non ne farebbe alcuna vendetta; e quale che fosse la cagione, l’effetto
seguitò, che vendetta nessuna fece.

CAP. XXXV.
_Come il re Luigi prese più castella._
Tornando a’ fatti d’Italia, il re Luigi fatto cavaliere, e dato alcuno
ordine a’ fatti del Regno che l’ubbidia, avvedutosi de’ baroni che
teneano col re d’Ungheria, innanzi che volesse procedere a fare altra
impresa attese a volere racquistare le castella di Napoli. E prima
cominciò al castello di Santermo sopra la detta città, e quello per
viltà di coloro che l’aveano a guardia, temendo delle minacce più
che della forza della battaglia ch’era loro cominciata, essendo da
potersi bene difendere, s’arrenderono al re. E avendo vittoriosamente
acquistato questo castello, se ne venne a quello di Capovana, che
è all’entrata della città, fortissimo, da non potersi vincere per
battaglia. Coloro che dentro v’erano alla difesa cominciarono a
resistere al primo assalto; ma inviliti per la presura di quello
di Santermo, e più perchè non vedeano apparecchiato loro soccorso,
trattaron la loro salvezza, e renderono il castello al re. Avuto il
re questi due forti castelli con poca fatica, s’addirizzò al castello
dell’Uovo fuori di Napoli sopra il mare, il quale per battaglia non
si potea avere, ma era agevole ad assediare, che tutto era in mare,
salvo d’una parte si congiungeva con una cresta del poggio, in sul
quale il re fece fare un battifolle. Que’ del castello sappiendo che
il loro soccorso non potea essere d’altra parte che per mare, e in
quello mare non era alcuna forza del re d’Ungheria, innanzi che si
volessono recare allo stremo patteggiarono col re, e renderongli il
castello. Avute il re prosperamente queste tre castella in poco tempo,
fece molto rinvigorire gli animi de’ Napoletani. E vedendo che non
v’era rimaso altro che il castello Nuovo a capo alla città, dove era
l’abitazione reale, il quale era sopra modo forte e bene fornito, tanto
era cresciuta la baldanza, che nel fervore del loro animo con molto
apparecchiamento si misono a combatterlo da ogni parte, con aspra e
fiera battaglia. Ma dentro v’era Gulforte fratello di Currado Lupo,
cui il re d’Ungheria avea lasciato vicario suo, ed era accompagnato
di buona masnada, e bene fornito alla difesa, sicchè per niente si
travagliarono della battaglia. E certificati che per forza non lo
potevano avere, e che Gulforte era fedele al suo signore, presono
consiglio d’abbarrare tra il castello e la città, e così fu fatto, e
misonvi buona guardia; sicchè fuori che dalla marina il castello era
assediato. E poi senza combattere o assalirlo, l’una gente e l’altra si
stettono lungamente.

CAP. XXXVI.
_Come il re Luigi prese il conte d’Apici._
Avendo il re Luigi vittoriosamente racquistato tre così forti castelli,
e lasciando il quarto assediato per terra e per mare, con la sua
cavalleria, e con le masnade del doge Guernieri si mise a cavalcare
sopra i baroni che teneano col re d’Ungheria, e in prima andò sopra il
conte d’Apici, figliuolo del conte d’Ariano. Il conte vedendosi venire
il re addosso con gran forza d’uomini d’arme, si racchiuse in Apici,
e ivi s’afforzò alla difesa come potè il meglio. Il re faceva spesso
assalire la terra. Vedendo il conte che non attendea soccorso, e che
il castello non era forte da poter fare lunga difesa, s’arrendè alla
misericordia del re: il quale trattò d’avere di suoi danari trentamila
fiorini d’oro, e rimiselo nel suo stato, riconciliato alla sua grazia.

CAP. XXXVII.
_Come il re Luigi assediò Nocera._
Prosperando la fortuna il re Luigi nelle lievi cose, gli dava speranza
di prendere le maggiori, e però si mise di presente con tutta sua
gente nel piano di Puglia, e dirizzossi a Nocera de’ saracini, che
si guardava per la gente del re d’Ungheria. Ma perocchè la città era
grande, e guasta e male acconcia a potersi difendere, sentendo gli
Ungheri che dentro v’erano l’avvenimento del re con la sua gente,
abbandonarono la terra, e ridussonsi nella rocca di sopra, ch’era
larga, e molto forte alla difesa, e ivi ridussono tutte le loro
cose. E sopravvenendo il re Luigi, senza contasto con tutta sua gente
entrarono nella città: e trovando il castello sopra la terra forte e
bene guernito alla difesa, conobbono che non era da potersi vincere per
forza di battaglie, e però non tentarono di combatterlo: ma avendo la
città in loro balía, afforzarono in ogni parte intorno alla rocca, e
puosonvi l’assedio, sperando d’averla, poichè gli Ungheri e i Tedeschi
erano per la mortalità malati e mancati, e molti se n’erano iti per
lo mancamento del soldo, e non era loro avviso che a tempo potessono
avere soccorso; e però tenendo que’ del castello di Nocera assediati,
cavalcarono tutto il piano di Puglia infino presso a Barletta; e
avendo cominciato a prendere ardire, trovando che Currado Lupo vicario
del re d’Ungheria non avea forza d’entrare in campo col re Luigi, nè
di soccorrere gli assediati di Nocera, era assai possibile al re di
mantenere l’assedio, e di fare tornare l’altre terre di Puglia a sua
volontà, cavalcando con la sua forza il paese. Ma il fallace duca
Guernieri, ch’avea milledugento cavalieri tedeschi in sua compagnia,
conoscendo il tempo che far lo potea signore e trarlo di guerra, si
mise a fargli quistione, e non lo lasciò muovere dall’assedio, nè
andare all’altre terre per lungo tempo: dando luogo a Currado Lupo
avversario del re di potersi provvedere al soccorso, e il re non era
potente da se di cavalleria nè di moneta che senza il doge potesse
fornire le sue bisogne, e però convenia che seguisse più la volontà
corrotta del doge Guernieri che la sua. E non avea ardimento di
mostrare sospetto di lui, per paura che peggio non gli facesse, e da se
nol potea partire senza peggiorare sua condizione, e crescere la forza
e ’l vigore a’ suoi nimici. Ed essendo così intrigato e male condotto,
per avere un capo a tutti i suoi soldati, perdè tempo più di cinque
mesi al disutile assedio, e diede tempo a’ nimici di procacciare aiuto
e soccorso, come fatto venne loro, come appresso racconteremo.

CAP. XXXVIII.
_Come Currado Lupo liberò Nocera._
Mentre che l’assedio si manteneva per lo re Luigi a Nocera, Currado
Lupo, ch’era rimaso alla guardia del reame per lo re d’Ungheria, intese
a sollicitare il re, tanto che gli mandò una quantità di danari per
ristorare la gente che per la mortalità gli era mancata: il quale di
presente cavalcò in Abruzzi, e condusse de’ cavalieri tedeschi ch’erano
in Toscana e nella Marca, tanti, che co’ suoi si trovò con duemila
barbute: e lasciatine una parte alla guardia delle terre che per lui si
teneano, e eletti milledugento cavalieri in sua compagnia, si propose
di soccorrere gli assediati del castello di Nocera. Il re Luigi avendo
sentito come Currado Lupo avea accolta gente per venire contra lui,
di presente mandò il conte di Minerbino, e il conte di Sprech Tedesco,
con ottocento cavalieri a impedire i passi, che Currado Lupo co’ suoi
cavalieri non potesse entrare nel piano di Puglia. Ma il detto Currado,
come franco capitano e sollecito, la notte si mise a cammino, e fu
prima, partendosi da Guglionese, valicato i passi ed entrato nel piano
di Puglia, che la gente del re fosse a impedirlo, e senza arresto,
co’ suoi cavalieri in quello dì cavalcarono quaranta miglia, e la sera
giunsono a Nocera in sul tramontare del sole; e perocchè erano molto
affaticati della lunga giornata, e i cavalli stanchi e l’ora tarda,
se n’entrarono nel castello senza fare altro assalto, o riceverlo
dalla gente del re Luigi. E questo avvenne, imperciocchè del subito
avvenimento sbigottì forte la gente del re, e specialmente essendo
assottigliato l’oste, e non sappiendo che della loro gente andata
a’ passi si fosse avvenuto. Il re veggendo la sua gente sbigottita,
prese l’arme e montò a cavallo, e confortò francamente i suoi: e
sopravvenendo la notte, in persona ordinò buona e sollecita guardia,
attendendo il ritorno de’ suoi cavalieri. I nimici ch’erano stanchi
intesono a mangiare, e a confortare la loro gente, e dare riposo a’
loro cavalli, per essere la mattina alla battaglia.

CAP. XXXIX.
_Come il re Luigi rifiutò la battaglia con Currado Lupo._
La mattina seguente, Currado Lupo innanzi che scendessono del castello
nel piano, mandò a richiedere il re Luigi di battaglia, e per segno
di ciò gli mandò il guanto per lo suo trombetta; il re ricevette il
guanto, e con dimostramento di franco cuore e d’ardire, senza tenere
altro consiglio promise la battaglia: perocchè la notte medesima il
conte di Minerbino e ’l conte di Sprech erano tornati con la loro
gente al soccorso del re. Currado avendo la risposta dal re, come
accettava di venire alla battaglia, non ostante che il re avesse assai
più gente di lui, confidandosi nella buona gente che avere gli pareva,
e conoscendo la condizione del doge Guernieri, e forse intendendosi
con lui, scese del castello con tutta sua cavalleria, e ancora con gli
Ungheri ch’erano nel castello a cavallo, e valicato per una parte della
città ch’era in loro signoria, con dimostramento di grande ardire si
schierò nel piano dirimpetto alla città, aspettando che il re venisse
con la sua gente alla battaglia. E vedendo che non venia, un’altra
volta il mandò a richiedere di battaglia. Il re avendo volontà di
combattere sommovea i suoi baroni e gli altri cavalieri a ciò fare,
con grande istanzia: il doge Guernieri, quale che cagione il movesse,
che dubbia era la sua fede, vedendo il re acceso alla battaglia, fu a
lui, e con dimostramento di savio e buono consiglio, e con belle parole
il ritenne, mostrandogli che folle partito era a quel punto prendere
battaglia, allegando che per due cose sole si dovea combattere, l’una
per necessità, e l’altra per grande avvantaggio, e quivi non era nè
l’una nè l’altra. E forse che il consiglio suo fu più salutevole che
malvagio a quel punto, il re vedendo il consiglio del duca, e temendo
di non essere seguito nella battaglia da lui nè da’ suoi cavalieri, si
ritenne in Nocera, ontosamente schernito da’ suoi avversari, i quali
schierati in sul campo faceano vergogna al re, perchè non usciva alla
battaglia come promesso avea; e avendo aspettato infino al mezzodì,
e trombato e ritrombato per attrarre la gente del re alla battaglia,
e veggendo non erano acconci a uscire della terra, si partì di là
ordinatamente con le schiere fatte, e dirizzossi verso la città di
Foggia, ch’era ivi presso nello piano di Puglia, e in quella, ch’era
senza guardia e senza sospetto, s’entrò di cheto, senza trovare alcuno
riparo. E trovandola piena d’ogni bene, quivi s’alloggiarono, facendo
delle case, e delle masserizie, e della vittuaglia, e delle donne
maritate e delle pulzelle la loro sfrenata volontà, e ogni sustanza
di quella terra si recarono prima in uso, e poscia in preda. E quivi
in prima si cominciò ad assaggiare la preda dello avere del Regno da’
Tedeschi e dagli Ungari, la quale assaggiata vi attrasse da ogni parte
i soldati, come gli uccelli alla carogna, in grave danno di tutto il
paese, come procedendo per li tempi in nostra materia dimostreremo.

CAP. XL.
_Della materia medesima._
Essendo Currado Lupo con la sua gente in Foggia, con grande baldanza
presa contro al re Luigi, intendendosi col duca Guernieri, afforzò
la città di Foggia, per potere contastare al re il ritorno per la
via del piano in Terra di Lavoro. E così fece lungamente, crescendo
continuamente la sua gente di cavalleria e masnadieri, perchè viveano
di prede, e avanzavano sopra i paesani non usi di guerra, nè provveduti
alla loro difesa. Il re avendo scoperto come dal duca Guernieri non
potea avere servigio che utile gli fosse, e che fidare non se ne potea,
stato due mesi a Nocera senza alcuno frutto, con grande abbassamento
di suo stato e onore, poichè Currado Lupo entrò in Puglia, prese suo
tempo, e girando la Puglia, dilungandosi da’ nimici ch’erano in Foggia,
entrò in Ascoli, e ivi stato pochi dì se ne venne a Troia, e di là per
Terra beneventana si tornò a Napoli senza contasto.

CAP. XLI.
_Come morì il re Alfonso di Castella._
In questo anno, del mese di marzo, morì il re Alfonso di Castella,
lasciando Pietro suo figliuolo legittimo, nato della reina sirocchia
del re di Portogallo, d’età di quindici anni, e sette suoi fratelli
nati di donna Dianora, grande e gentile donna di Castella, la quale il
detto re amò sopra la reina, e tennela ventiquattro anni. Morto il re,
don Pietro fu coronato del reame, ed essendo troppo giovane, i maggiori
baroni per tre anni ebbono a governare il reame. E venuto il re Pietro
in età di diciotto anni, con malizia, e con senno e con ardire, di
gran cuore prese il governamento di suo reame, e trassene i baroni, e
cominciò aspramente a farsi ubbidire; perocchè temendo de’ suoi baroni,
trovò modo di fare infamare l’uno l’altro, e prendendo cagione, gli
cominciò a uccidere colle sue mani, e in breve tempo ne fece morire
venticinque: e tre suoi fratelli fece morire e la loro madre, e gli
altri perseguitò: ed eglino valenti e di gran seguito e ardire si
ridussono in loro castella, e feciono al re aspra guerra. E ora fu, che
l’uno di loro, ch’era conte di... in uno abboccamento ebbe prigione il
re, e consentì che si fuggisse per grande benignità, e in fine si partì
di Spagna, e tornossene col fratello in Araona.

CAP. XLII.
_Come il doge Guernieri fu preso in Corneto dagli Ungheri._
Tornato il re Luigi a Napoli, non avendo potuto acquistare in Puglia
alcuna cosa, ma peggiorata la sua condizione, acciocchè le terre
e’ baroni di sua parte non prendessono troppo sconforto della sua
partita, mandò in Puglia il doge Guernieri con quattrocento cavalieri,
e commisegli la guardia di coloro che teneano con esso lui, e che
raffrenasse la baldanza de’ suoi avversari. Il duca si mosse con sua
compagnia, e con lui mandò il re alquanti confidenti toscani, tra’
quali fu messer Iacopo de’ Cavalcanti di Firenze, pro’ e valente
cavaliere. Costoro entrati in Puglia si ridussono in Corneto. Il
fallace duca pensava, che stando dalla parte del re non potea predare
nè avanzare come l’animo suo desiderava, e vedendo la materia acconcia,
e già cominciata per Currado Lupo e per gli Ungheri, trovò modo,
volendo coprire il suo tradimento, come fatto gli venisse senza sua
palese infamia. E per venire a questo, essendo presso a nimici più
possenti di lui, si stava senza alcuno ordine e senza fare guardia
il dì e la notte, anzi non lasciava serrare le porti della città,
e andavasi a dormire con tutta la sua masnada. Onde avvenne, come
si crede ch’egli avesse ordinato, che Currado Lupo con parte di sua
gente una notte vi cavalcò, e trovate le porte aperte, e senza difesa
e guardia, s’entrò nella città: e trovando il doge e’ suoi cavalieri
dormire ne’ loro alberghi, tutti senza dare colpo di lancia o di spada
ebbe a prigione, loro e’ loro cavalli e arnesi, senza che niuno ne
fuggisse; e avuti i forestieri a prigioni furono signori della terra, e
fecionne, come di Foggia, la loro volontà: e il dì seguente con grande
gazzarra ne menarono i prigioni e la preda a Foggia, dove faceano
loro residenza. Ed essendo il duca Guernieri prigione in Foggia, si
fece porre di taglia trentamila fiorini d’oro; e mandò al re che ’l
dovesse ricomperare in fra certo tempo, e dove questo non facesse,
disse gli conveniva essere contro a lui in aiuto del re d’Ungheria: e
però gli protestava, che se il riscatto non facesse, non gli farebbe
tradimento venendo contro a lui dal termine innanzi. Il re Luigi avendo
conosciuto per opere i suoi baratti, avvegnachè conoscesse che per
cupidità di preda e’ sarebbe contro a’ suoi agro nimico, innanzi il
volle suo avversario, potendo contro a lui scoprirsi alla sua difesa,
che averlo traditore dalla sua parte, e però nol volle riscuotere. Onde
egli trasse a se tutti i Tedeschi di sua condotta, e da Currado Lupo
fu fatto il terzo conducitore della sua oste, renduto a lui e a’ suoi
l’armi e’ cavalli e gli arnesi. Messer Iacopo de’ Cavalcanti, perocchè
altra volta era stato preso, e lasciato alla fede, fu ritenuto, e
ultimamente per mandato del re d’Ungheria, per corrotto saramento,
vituperevolemente fu impiccato.

CAP. XLIII.
_Come i Fiorentini presono Colle._
I Colligiani avendo ripreso in loro giuridizione il reggimento libero
della loro terra, poichè ’l duca d’Atene fu cacciato di Firenze,
che per lo detto comune n’era signore, volendo mantenere la loro
libertà, non lo seppono fare, anzi cominciarono a setteggiare, e
volere cacciare l’uno l’altro, e alcuna parte trattava coll’aiuto di
grandi e possenti vicini d’esserne tiranni. E scoperto tra loro il
trattato, si condussono all’arme: e stando in combattimento dentro,
il comune di Firenze per paura che tirannia non vi si accogliesse,
subitamente vi mandò il capitano della guardia che allora tenea in
Firenze, con trecento cavalieri e con assai fanti a piè, e improvviso
vennono a’ Colligiani in su le porti e intorno alla Prateria, del mese
d’aprile gli anni 1349. E sentendo i Colligiani la gente de’ Fiorentini
alle porti, e tra loro grave discordia dentro, viddono, che volere
a’ cittadini di Firenze, che ivi erano mandati per loro bene, fare
resistenza era impossibile, e il loro peggiore, perocchè se l’una setta
si fosse messa alla difesa, l’altra si sarebbe fatta forte col comune
di Firenze, e arebbono abbattuta la setta contraria, sicchè per lo
loro migliore, di comune concordia apersono le porti, e misono dentro
la gente del comune di Firenze. E come dentro vi furono, i terrazzani
lasciarono l’arme che aveano prese per la loro divisione, e ragunati al
consiglio, conobbono, che il comune beneficio della loro comunità era
di dare la guardia di quella terra al comune di Firenze, e altrimenti
non vedeano di potere vivere in pace e in riposo senza sospetto l’uno
dell’altro. E però diliberarono solennemente tutti d’uno animo e d’una
concordia, che ’l comune di Firenze avesse in perpetuo la guardia di
quella terra; e il comune la prese, e ordinò dentro senza quistione
i loro ufici, comunicandoli discretamente tra’ loro terrazzani, a
contentamento di catuna parte; e appresso di tempo in tempo v’ordinò il
comune di Firenze la guardia de’ suoi cittadini, e i rettori di quella,
mandandovegli da Firenze ogni sei mesi successivamente.

CAP. XLIV.
_Come i Fiorentini ebbono Sangimignano a tempo._
Nel detto anno e mese d’aprile, recata la terra di Colle a guardia
del comune di Firenze prosperamente, innanzi che il detto capitano
con sua gente a piè e a cavallo tornasse a Firenze, essendo il comune
di Sangimignano per simile modo in grande divisione per cagione del
loro reggimento, onde forte si temea non pervenisse a tiranno, il
comune di Firenze vegghiando con sollecitudine a mantenere la libertà
di Toscana, fece comandamento al capitano e a’ cittadini consiglieri
ch’erano con lui ch’andassono a Sangimignano, e senza fare alcuno
danno, o atto di guerra, domandassono per lo comune di Firenze la
guardia di quella terra, acciocchè il comune loro e ’l nostro vivessono
di ciò più sicuri, che non si potea vivere vedendogli in setta e in
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