Cronica di Matteo Villani, vol. 1 - 05

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divisioni. Il capitano con quella gente se n’andò a Sangimignano, e
fece il comandamento del comune di Firenze, standosi fuori della terra
senza fare danno niuno. E fatta la richesta, quegli di Sangimignano
ebbono sopra ciò diversi consigli, e dibattutosi fra loro più giorni,
che l’uno volea e l’altro no, in fine avvedendosi che le loro discordie
erano pericolose, e che non erano potenti a mantenere libertà; vedendo
il pericolo delle divisioni e sette che aveano tra loro, e che lo
sdegno del comune di Firenze potea risultare in loro maggiore pericolo,
per comune consiglio diedono per tre anni a venire il governamento e la
guardia di quella terra al comune di Firenze, con patto che il comune
vi mandasse di sei mesi in sei mesi uno cittadino popolano di Firenze
per capitano della guardia, e un altro per podestà alle loro spese; e
così deliberato, misono di gran concordia dentro la gente del comune di
Firenze. E ricevuti i rettori, cominciarono a vivere tra loro in molta
concordia e pace, e catuno intendeva a fare i fatti suoi, dimenticando
le cittadine contenzioni e gli altri sospetti che gli conturbavano, e
il capitano co’ suoi cavalieri e col popolo tornò a Firenze ricevuto a
onore, del detto mese d’aprile.

CAP. XLV.
_Di tremuoti furono in Italia._
In questo anno, a dì 10 di settembre, si cominciarono in Italia
tremuoti disusati e maravigliosi, i quali in molte parti del mondo
durarono più dì, e a Roma feciono cadere il campanile della chiesa
grande di san Paolo, con parte delle loggi di quella chiesa, e una
parte della nobile torre delle milizie, e la torre del conte, lasciando
in molte altre parti di Roma memoria delle sue rovine. Nella città di
Napoli fece cadere il campanile, e la faccia della chiesa del vescovado
e di santo Giovanni maggiore, e in assai altre parti della città fece
grandi rovine, con poco danno degli uomini. Nella città d’Aversa,
essendo i caporali de’ Tedeschi e degli Ungheri, con molti conestabili
e cavalieri, a consiglio nella chiesa maggiore, non determinato il
loro consiglio uscirono della chiesa, e come furono fuori, la chiesa
cadde, e per volontà di Dio a niuno fece male. La città dell’Aquila ne
fu quasi distrutta, che tutte le chiese e’ grandi difici della città
caddono, con grande mortalità d’uomini e di femmine; e durando per più
dì i detti tremuoti, tutti i cittadini, ed eziandio i forestieri, si
misono a stare il dì e la notte su per le piazze e di fuori a campo,
mentre che quello movimento della terra fu, che durò otto dì e più.
Ed erano sì grandi, che in piana terra avea l’uomo fatica di potersi
tenere in piede. A san Germano e a monte Cassino fece incredibili ruine
di grandi difici, e dell’antico monistero di santo Benedetto sopra il
monte del poggio medesimo, che pare tutto sasso, abbattè buona parte;
il castello di Valzorano del poggio rovinò nella valle, con morte
quasi di tutti i suoi abitanti. Nella città di Sora fece degli edifici
grandissime ruine, e così in molte altre parti di Campagna e di terra
di Roma, e del Regno e di molte altre parti d’Italia, che sarebbono
lunghe e tediose a raccontare. Per li quali terremuoti si potea per li
savi stimare le future novità e rivolgimenti di que’ paesi, le quali
poi seguitarono, come il nostro trattato seguendo si potrà vedere.

CAP. XLVI.
_Come sommerse Villacco in Alamagna._
In questo medesimo tempo, essendo all’entrare della Magna sopra una
valle una città che ha nome Villacco, in sul passo, con alquante
villate e castella che teneano bene dodici miglia, a’ confini della
Schiavonia, questa terra con le sue ville e castella per gli terremuoti
s’attuffò nella valle, con grande danno di morte de’ suoi abitanti.
E perocchè il luogo è sul passo del Friuli e Schiavonia, e paese
ubertuoso, e i suoi alberghi tutti si fanno di legname, che ve n’ha
grande abbondanza, fu tosto rifatto e abitato. Innanzi che l’anno fusse
compiuto dal suo rifacimento, per fuoco arse tutta la terra, che fu a
pensare non piccolo giudicio de’ suoi abitanti. Ma per lo fertile luogo
e utile per lo passo, in brieve tempo fu redificata la terra più bella
che prima.

CAP. XLVII.
_De’ fatti del Regno._
Del mese di maggio del detto anno, sentendo il re Luigi crescere
fortemente nel Regno la forza del re d’Ungheria, fece comandamento a
tutti i suoi baroni che teneano con lui che si sforzassono d’arme e di
cavalli, e ragunassonsi in Napoli per resistere a’ loro avversari, che
aveano per la presa di Foggia e di Corneto presa superchia baldanza
in Puglia, e accolti molti Tedeschi d’Italia, per vaghezza delle
prede del Regno, più che per soldo ch’elli avessono. I baroni vedendo
il comune pericolo di loro stato e di tutto il Regno, feciono gente
d’arme, e ragunaronsi a Napoli più di tremila cavalieri ben montati
e bene armati; e ancora non era venuto il conte di Minerbino, che
avea con seco trecento barbute. Currado Lupo, che avea con seco il
duca Guernieri, e ’l conte di Lando, e messer Giovanni d’Arnicchi,
Tedeschi grandi maestri di guerra, e con grande seguito di soldati
tedeschi, avieno accolti tutti gli Ungheri del Regno, ch’erano più di
settecento, in grande fede al loro signore: e ancora erano ragunati
con loro masnadieri italiani assai, tratti per guadagnare, sentendo
che la forza del re era ragunata a Napoli, di presente fornì di
guardia tutte le terre sue, e co’ sopraddetti caporali, e co’ loro
cavalieri tedeschi e ungheri, milleseicento o più, e con briganti
a piè, acconci a guadagnare, sperando abboccarsi co’ ricchi baroni
del Regno, si partirono di Foggia, e senza fare soggiorno o trovare
resistenza se ne vennero infino ad Aversa, città di Terra di Lavoro,
presso a Napoli a otto miglia, la quale in quel tempo non era murata:
e per mala provvedenza non era guardata, avvegnachè malagevole fosse a
guardare, perchè era molto sparta, ma avea il castello molto grande e
forte. Currado Lupo con la sua cavalleria senza contasto s’entrò nella
terra, la quale era doviziosa e piena d’ogni bene. Ed essendo altra
volta stata all’ubbidienza del re d’Ungheria, non si pensarono essere
trattati in ruberia e in preda dal vicario del re, e però si trovarono
ingannati. I Tedeschi e gli Ungheri come furono dentro cominciarono a
fare delle cose, vi trovarono da vivere a comune con i cittadini, con
più temperanza e ordine che fatto non aveano in Foggia, perocchè vi
aveano più a stare. E incontanente cavalcarono per lo paese e per li
casali dintorno per farsi ubbidire, e recare il mercato derrata per
danaio; e chi non gli ubbidia di recare della roba ad Aversa sì la
rubavano e ardevano. E in fine, ora per una cagione, ora per un’altra,
tutti erano rubati, e cominciarono a cavalcare fino presso a Napoli,
ed a non lasciare a’ foresi portare alcuna roba in quella terra, che
a giornata solea abbondare della molta roba delle terre e casali di
fuori, ed ora niuno v’andava, che d’ogni parte erano rotte le strade e
i cammini, onde la città cominciò ad avere carestia, e convenia che per
mare si fornisse. Il re Luigi avea baroni e cavalieri assai in Napoli,
ma per buono consiglio riteneva i suoi baroni con il volonteroso popolo
che non uscissono contro a’ nimici a loro stanza, e attendea maggiore
forza di sua gente di dì in dì, e pensava che i nimici per le ruberie
fatte a’ paesani venissono in soffratta, e volea a sua stanza e a
suo tempo andare sopra i suoi nimici e a suo vantaggio, e non alla
loro richiesta, e questo era salutevole e buono consiglio. Ma dove la
fortuna giuoca più che ’l senno, la gente vi corre.

CAP. XLVIII.
_Come la gente del re d’Ungheria sconfisse i baroni del Regno._
Vedendo i capitani della gente del re d’Ungheria che la baronia del
Regno era accolta a Napoli contro a loro, e non si movea nè mostrava
in campo per le loro cavalcate, si feciono loro più presso a Meleto
quattro miglia presso a Napoli; e quivi stando, cominciarono a dare
voce che discordia fosse tra’ Tedeschi e gli Ungheri, e seguendo
loro malizia s’armarono, e acconciarono il campo come se dovessero
combattere insieme; e avendo tra loro mezzani gli Ungheri, come
malcontenti d’essere con Currado Lupo, dierono voce di volersene
tornare in Puglia. I giovani baroni che sentivano di presso le novelle
de’ loro nimici, e’ baldanzosi cavalieri napoletani credendo che la
discordia fosse tra gli Ungheri e’ Tedeschi come la boce correa, non
accorgendosi del baratto, e parendo loro che per difetto di vittuaglia
e’ non potessono più stare nel paese, quasi come la preda uscisse
loro tra le mani aspettando, fremivano nell’animo d’uscire fuori, e
correre sopra i nimici; e contradicendo il re e ’l suo consiglio la
furiosa presunzione de’ giovani baroni e de’ pomposi Napoletani, in
furia s’apparecchiarono dell’arme. E montati sopra i loro destrieri e
buoni cavalli, che n’erano bene forniti, e con ricchi arredi e nobili
sopransegne, colle cinture dell’oro e dell’argento cinte, in grande
pompa, avendo fatto loro capitani messer Ruberto di Sanseverino,
e messer Ramondo del Balzo, valenti baroni, e il conte di Sprech
Tedesco, e messer Guiglielmo da Fogliano, ordinate loro battaglie,
contradicendolo il re in persona, uscirono di Napoli, e addirizzaronsi
a’ nimici. Il cammino era corto, e il paese piano, sicchè in poca d’ora
furono giunti al campo, ove trovarono di costa a Meleto nella spianata
schierati i nemici, i quali aveano sentito il furioso movimento de’
ricchi baroni e cavalieri del Regno, e aveano con savio provvedimento
fatte tre schiere. Vedendo la folle condotta de’ loro avversari,
s’allegrarono, e’ baldanzosi regnicoli sì diedono francamente nella
prima schiera, la quale, per ordine fatto a maestria, s’aperse, e
lasciò valicare, e mescolare tra loro la cavalleria del Regno, non
ostante che assai fussono più di loro; e reggendo a testa la seconda
schiera e intrigata la battaglia, il conte di Lando, ch’era da parte
colla sua schiera, tornò un poco di campo, e venne loro alle reni,
e combattendoli dinanzi e didietro, avvegnachè v’avesse di valorosi
cavalieri, per la loro mala provvedenza in poca d’ora con non troppa
asprezza di battaglia gli ebbono vinti, e sbarattati e richiusi tra
loro per modo, che la maggior parte co’ loro capitani furono presi,
e pochi ne morirono. Quelli che poterono fuggire ne fuggirono, e
non furono incalciati, perchè erano presso alla città, e i loro
nemici n’aveano assai tra le mani a guardare, sicchè non si curarono
d’incalciare gli altri. Questa propriamente non si potè dire battaglia,
ma uno irretamento da pigliare baroni e cavalieri di grandi ricchezze.
I presi furono tra conti e baroni venticinque de’ maggiori del Regno,
con molti ricchi cavalieri napoletani di Capovana e di Nido, e nobili
scudieri e grandi borgesi e baroncelli del Regno, i quali erano tutti
bene montati. E come i capitani de’ Tedeschi e degli Ungheri ebbono
raccolti insieme i prigioni e la preda, con grande festa e sollazzo
d’avere acquistato grande tesoro senza fatica, gli condussono ad
Aversa; e messi i baroni e’ cavalieri in sicure prigioni, l’altra preda
divisono tra loro. E questo fu a dì sei di giugno 1349.

CAP. XLIX.
_Come i Napoletani ricomperarono la vendemmia da’ nimici._
Dopo la detta sconfitta la gente del re d’Ungheria avendo presa grande
baldanza, cavalcavano ogni dì infino a Napoli per tutte le contrade
circostanti alla città, senza trovare alcuno contasto. Ch’e’ cavalieri
ch’erano in Napoli, e quelli che scamparono della sconfitta, tutti
tornarono in loro paese, e i Napoletani non ebbono più ardire di
montare a cavallo contra i nimici; per la qual cosa assai picciola
gente spesso entravano con grande ardire tra santa Maria del Carmino
e il Santolo, rubando e facendo preda in sul mercato; e per questo
avvenne che per terra non v’entrava alcuna vittuaglia, e però convenne
che per mare vi venisse d’altre parti, e montasse ogni cosa, fuori
del vino, in grande carestia. Vedendo i Napoletani nella forza de’
loro nemici tutto il loro contado, temendo delle loro vendemmie,
e per avere alcuna posa, diedono a Currado Lupo e a’ suoi compagni
ventimila fiorini d’oro, e messer Ramondo del Balzo, e messer Ruberto
da Sanseverino, e il conte di Tricario anche della casa di Sanseverino,
e il conte di santo Angiolo, e un altro barone, ch’erano presi, si
ricomperarono fiorini centomila d’oro, e gli altri baroni del Regno
e cavalieri si ricomperarono fiorini cinquantamila, e’ cavalieri e
scudieri di Napoli si ricomperarono altri cinquantamila fiorini: e
il conte di Sprech Tedesco, e M. Guiglielmo da Fogliano e’ soldati
forestieri, tolto loro l’arme e’ cavalli, furono lasciati alla fede. E
trovandosi questa gente del re d’Ungheria fornita d’arme e di cavalli,
e pieni d’arnesi, e abbondante d’ogni bene, questi danari, e molti
gioielli d’oro e d’ariento, riposono nel castello d’Aversa senza
partire, acciocchè niuno avesse cagione di partirsi del paese. E per
accogliere maggiore tesoro, i danari del riscatto, e del tempo della
vendemmia, furono pagati, e queto il paese mentre che le vendemmie
durarono, secondo la loro promessa, e passato il tempo ricominciarono
la guerra come prima, aspettando danari freschi dal re e da’
Napoletani, come appresso seguendo si potrà trovare.

CAP. L.
_Come si fe’ triegua nel Regno._
Il papa e’ cardinali avendo sentita la rotta de’ baroni del Regno,
e che ’l paese si guastava, mandarono nel Regno M. Annibaldo da
Ceccano cardinale legato di santa Chiesa, a procacciare di conservare
il reame, acciocchè la discordia de’ due re non guastasse quello
ch’era di santa Chiesa. Il cardinale giunto a Napoli trovò il re e’
Napoletani in male stato, e i paesi di Terra di Lavoro guasti, rubate
le castella, le ville, i casali, e vedendo che la forza de’ Tedeschi
e degli Ungheri guastava tutto, si mise a cercare via d’accordo, e
andava dall’una parte all’altra, ma poco frutto di concordia seppe
fare. Onde il re e’ Napoletani avvedendosi che il cardinale non facea
loro profitto, si condussono a cercare eglino con loro confidenti. E
mandarono a Currado Lupo e agli altri caporali ad Aversa, e in fine
vennono con loro a concordia, che dovessono lasciare in mano del
cardinale Aversa e Capova, e tutte le terre e castella che teneano
dal Volturno di Tuliverno in verso Napoli, per tutta Terra di Lavoro
e di Principato, e facendo questo avessono contanti centoventimila
fiorini d’oro. Le terre furono lasciate nella guardia del cardinale,
e i danari furono pagati del mese di gennaio 1349. Allora vidono il
conto de’ danari che aveano raunati, e trovaronsi in contanti più di
cinquecento migliaia di fiorini d’oro, i quali di molta concordia si
divisono a bottino. E’ caporali dividitori furono, Currado Lupo, e il
doge Guernieri, e il conte di Lando, e M. Gianni d’Ornicchi, e alcuni
altri. E oltre a questo tesoro, e oltre a molti destrieri, e ricchi
arnesi e armadure che catuno avea, ebbono parte di molte vasellamenta
d’argento, e di croci e di calici e d’altri ornamenti delle chiese che
avieno spogliate, e ornamenti delle donne, e drappi e vestimenta di
grandissima valuta, de’ quali erano pieni, avendone spogliate parecchie
città, come detto abbiamo. Costoro sopra modo ricchi, passato il
Volturno, si diliberarono di partirsi del Regno, e tutti, fuori che
Currado Lupo, e fra Moriale e gli Ungheri, che si ritennono per lo
re d’Ungheria nel Regno, si partirono e menandone molte donne rapite
a’ loro mariti, e molte altre che non aveano marito, cosa strana e
disusata tra’ fedeli cristiani; e ricchi delle loro rapine, quali
si tornarono in Alamagna, e altri si sparsono nell’italiane guerre:
e per questo modo il Regno ebbe alcuno sollevamento dalle ruberie
e dalla guerra, che catuno si posava volentieri. E dandoci alquanto
triegua le novità dello sviato Regno, ci s’apparecchia nuova e lieve
cagione, della quale surse come di picciola favilla fuoco di smisurata
grandezza.

CAP. LI.
_Di novità di barbari di Bella Marina._
Tornando alquanto nostra materia a’ fatti de’ barbari, in questo tempo
Buevem figliuolo di Balese della Bella Marina, a cui come addietro è
narrato, il detto Buevem avea rubellato il regno di Tremusi, sentendo
che Maometto suo cugino gli avea rubellato Fessa e il suo reame, liberò
di servaggio mille cristiani, e misegli a cavallo e in arme, e accolse
suo oste di quindicimila cavalieri, e di gran popolo di Mori a piè,
e andonne verso Fessa, contro a Maometto, il quale trovò provveduto
con venticinquemila cavalieri e di grande popolo, e fecelisi incontro
fuori della città di Fessa, e non troppo lungi della città commisono
aspra battaglia, nella quale morirono grandissima quantità di saracini
da catuna parte; in fine, come piacque a Dio, per virtù de’ cristiani
Maometto fu sconfitto, colla sua gente morta e sbarattata, ed egli
si rifuggì nel castello di Villanuova, ove Buevem il tenne assediato
sei mesi senza speranza di poterlo avere per la grande fortezza; e
però argomentò di fare fuggire da se un grande caporale de’ cristiani
con sua masnada, e mostrando di perseguirlo per uccidere, si fuggì
a Maometto nel castello, il quale conoscendo la prodezza e senno de’
cristiani, pensò di difendersi meglio, avendo costui dal suo lato, e
però gli fece onore e grandi promesse, perchè avesse materia d’aiutarlo
e d’esser leale. Costui mostrandosi agro nimico di Buevem, alcuna volta
uscì fuori percotendo il campo, e ritornando con onore. Il re Buevem
mostrando che onta gli fosse cresciuta per la fuggita del malvagio
cristiano, ordinò di volere combattere il castello. Maometto sentendo
ciò s’ordinò alla difesa: e avendo presa confidenza nel conestabile
cristiano, gli accomandò la guardia d’una porta del castello. E venendo
il re alla battaglia, il traditore gli aperse la porta, ed entrato
dentro con grande sforzo, preso Maometto, e incarcerato, in pochi dì
il fece morire. E andato a Fessa, fu ricevuto come re e loro signore,
e fu coronato re di Morocco, e della Bella Marina e di Tremusi in
poco tempo, essendo il padre a Tunisi, il quale tornando poi contro al
figliuolo per lo regno, gli avvenne quello che a suo tempo diremo.

CAP. LII.
_Come Balase tornando per lo suo reame contro al figliuolo ebbe grande
fortuna, e poi fu avvelenato._
Balase avendo acquistato il reame di Tunisi, e perduto quello di Bella
Marina e di Tremusi, di che Buevem suo figliuolo s’avea fatto coronare,
fece in Tunisi re un altro suo figliuolo, e con sei galee armate, e
una nave di Genovesi carica di grande tesoro ch’avea tratto di Tunisi,
del mese d’ottobre del detto anno, si mise in mare per tornare nel
suo reame: confidandosi, che essendo con sua persona nel paese, i
suoi sudditi l’ubbidirebbono, non ostante che il figliuolo avesse la
signoria. E avendo lasciato il suo nuovo re in Tunisi, poco appresso la
sua partita gli Arabi entrarono in Tunisi, e uccisono questo figliuolo
rimaso, e fecionne re il nipote del re di Tunisi, cui Balase avea
morto; e ’l detto Balase essendo in mare, una fortuna il percosse,
e tutte e sei le sue galee ruppe, e tutti gli uomini perirono, salvo
il re con alquanti compagni che camparono in su uno scoglio: e indi
levato da certi pescatori fu portato a Morocco, ove riconosciuto, fu
ricevuto come loro signore. La nave col suo tesoro messasi in alto
pelago arrivò in Ispagna, e il re Pietro s’appropiò il tesoro. Balase
essendo ubbidito in Morocco e nel paese, di presente accolse di suoi
baroni, e con grande oste andò contro a Buevem suo figliuolo, inverso
Fessa; e cominciato a guerreggiare, veggendo Buevem che i suoi baroni
cominciavano a ubbidire al padre, disperandosi della difesa, argomentò
con incredibile tradimento. Egli avea seco una sua sirocchia giovane
fanciulla figliuola di Balase, costei ammaestrò di quello ch’egli
volle ch’ella facesse: la quale si partì da lui, mostrando mal suo
volere, e tornò al padre, il quale la vide allegramente, ed ella lui,
come caro padre, e commendatola della sua venuta, la tenea intorno a
se come figliuola. Ma la corrotta fanciulla osservando la malizia del
fratello, ivi a pochi dì avvelenò il padre. Finito Balase il corso
della sua vita, e delle sue grandi fortune prospere e avverse, Buevem
suo figliuolo rimase re della Bella Marina, e di Morocco e di Tremusi;
ma poco appresso i Mori gli rubellarono Tremusi, ma egli di presente
vi mandò grande oste, e racquistò tutto. E montato in grande potenzia,
per forza si sottomise il reame di Buggea e quello di Costantina, e’
loro re mise in prigione. E incrudelito, per ambizione di reggere la
signoria con meno paura, in brieve tempo fece morire venticinque suoi
fratelli di diverse madri. Ed esaltato sopra tutti i Barberi, cominciò
a usare senza freno la sua lussuria, e gli altri diletti carnali, ove
si riposa la gloria di quelli saracini; e a un’otta avea trecento mogli
e grande novero di vergini, le più nobili e le più belle de’ suoi
reami: e quando gli piaceva, usava con quella che l’appetito della
sua concupiscenza richiedeva, e quella mettea nel numero delle sue
mogli. Uomo fu ridottato sopra gli altri signori, e aspro punitore di
giustizia; e con grande guardia e con molto ordine governava i suoi
reami. A’ cristiani mercatanti facea grande onore, e volentieri gli
ricettava in suo reame.

CAP. LIII.
_Come per lievi cagioni suscitò novità in Romagna._
Essendo conte di Romagna messer Astorgio di Duraforte di Proenza,
il quale avea per moglie una nipote di papa Clemente sesto, o che
più vero fosse sua figliuola, il papa l’amava, e intendeva a farlo
grande. Costui il dì della Pasqua di Natale del detto anno, mostrando
familiarità co’ gentiluomini di Faenza, gli fece invitare a pasquare
seco. Ed essendo a desinare, riscaldati dalla vivanda e dal vino,
messer Giovanni de’ Manfredi dimestico del conte gli disse: in cotale
mattina per cagione di padronatico, ci è debitore il vescovo di Faenza
di mandare una gallina con dodici pulcini di pasta, e con carne cotta:
e quando questo e’ non fa, a noi è lecito mandare alla sua cucina,
e trarne la vivanda, e ciò che in quella si trova. La gallina non è
venuta, e però piacciavi che con vostra licenza noi possiamo usare
la ragione del nostro padronatico. La domanda fu indiscreta, essendo
in casa altrui, che non era certo che il vescovo avesse fallato;
e il conte con poco sentimento, non considerando il pericolo della
novità, concedette quella licenza follemente. Il vescovo avea fatto
suo dovere, e avea mandata a casa messer Giovanni d’Alberghettino la
gallina e i pulcini, a cui l’anno toccava quello onore, e la donna
per un suo scudiere l’avea mandata al marito al palagio del conte;
ma per comandamento fatto a’ portieri per lo conte che alcuno non
vi lasciassero entrare, se n’era tornato a casa. Nondimeno messer
Giovanni, ch’avea avuta la licenzia dal conte, disse a’ suoi famigli:
andate, e chiamate de’ nostri amici, e dite loro rechino le scuri, ed
entrate nel vescovado: e se le porti non vi sono aperte, colle scuri
l’aprite, e della cucina del vescovo gittate fuori vivanda, e ciò
che vi trovate dentro. Costoro andando agli amici di messer Giovanni
diceano: togliete le scuri, e venite con noi. Coloro ch’erano invitati
che togliessono le scuri non sapendo la cagione, pigliarono anche
l’altre armi, e l’uno confortava l’altro: e così armati traevano a
casa messer Giovanni. Le masnade del conte a piè e a cavallo che il
dì avieno la guardia, temendo di questa novità, trassono a casa messer
Giovanni, e cominciarono mischia contro a coloro vi trovarono armati.
I terrazzani si difendeano non sappiendo la cagione del fatto: la
gente traeva da ogni parte a romore. Sentendosi la novità al palagio
dov’erano i convitati, facendosi il conte alle finestre, vidde a piè
del palagio uno Franceschino di Valle, grande amico di messer Giovanni
Manfredi, a cui commise che andasse da sua parte a comandare alla sua
gente e a’ cittadini che lasciassono la zuffa e non contendessono
insieme. Costui disarmato andò a fare il comandamento da parte del
conte. La gente del conte, che conosceano costui amico di messer
Giovanni, presono maggiore sospetto, e rivolsonsi contro a lui, e
volendogli uno dare della spada in sulla testa, parando la mano al
colpo gli fu tagliata: e seguendo i colpi contro a lui, fu morto, e in
quello stante tre altri amici di messer Giovanni vi furono tagliati e
morti. Per la qual cosa, al matto movimento aggiunto la vergogna e il
danno, generò fellonia e sdegno in messer Giovanni, e conceputo nel
petto, propose nella mente di tentare cose quasi incredibili a poterli
venire fatte, secondo il suo piccolo e povero stato, le quali per molto
studio copertamente, come vedere si potrà appresso, condusse al suo
intendimento.

CAP. LIV.
_Come messer Giovanni Manfredi rubellò Faenza alla Chiesa._
Messer Giovanni Ricciardi de’ Manfredi avendo conceputo il tradimento
ch’egli intendea fare, cominciò segretamente a dare ordine al fatto:
e avvennegli bene, che il conte sopraddetto andò a corte a Vignone.
E per alcuno sentimento di gelosia, per sicurtà menò con seco messer
Guglielmo fratello carnale del detto messer Giovanni, come per grande
confidenza di sua compagnia, e lasciò vececonte un Provenzale di poca
virtù, con trecento cavalieri a sua compagnia. E oltre a ciò, lasciò
fornite le fortezze della città e le castella di fuori. Messer Giovanni
de’ Manfredi con molta stanzia tenea grande familiarità col vececonte,
e con singulare studio traeva a se l’amore e la benivoglienza de’
cittadini. E come gli parve tempo, cominciò a mettere copertamente
fanti in Faenza a pochi insieme, e feceli ricettare a’ suoi confidenti.
E seppe sì fare, che in poco tempo ebbe nella città cinquecento
fanti forestieri a sua petizione, innanzi che il vececonte o alcuno
se ne fosse accorto. Ma discordandosi da lui messer Giovanni dello
Argentino suo consorto, per via di setta, sentì come in certa contrada
nel contado, gli amici di messer Giovanni di messer Ricciardo non si
trovavano, e non si sapea dove fossono. E per questo sospettando di
tradimento, fece sentire al vececonte, com’egli sapea che gli amici di
messer Giovanni di messer Ricciardo in cotale e in cotale parte non
si ritrovavano, perchè temea che in Faenza non apparisse novità; il
visconte avendo con messer Giovanni singolare amicizia e confidenza,
non volea intendere di lui alcuno sospetto, ma provvedea al riparo. E
appressandosi il tempo che il fatto si dovea muovere, la cosa si venia
più scoprendo. Allora il visconte ingelosito mandò a fare richiedere
degli amici di messer Giovanni: costoro andarono prima a messer
Giovanni a sapere quello ch’avessono a fare. Messer Giovanni disse
loro: tornatevi a casa, e armatevi co’ vostri parenti e amici, e levate
il romore. Ed egli co’ cittadini con cui egli si confidava, e co’ fanti
che avea messi in Faenza s’andò ad armare, e accolto il suo aiuto, uscì
delle case armato, e fecesi forte a’ suoi palagi. Levato il romore, il
visconte fu a cavallo co’ suoi cavalieri e con fanti appiè soldati, e
dirizzossi alle case di messer Giovanni, ove sentiva la gente armata.
E giunto al luogo, trovando messer Giovanni co’ suoi armati cominciò a
combattere con loro fortemente. Messer Giovanni co’ suoi si difendeva
virtudiosamente, sostenendo il dì e la notte, senza perdere della
piazza. La mattina messer Giovanni prese una parte della sua gente, e
misesi sul fosso della città, onde attendea soccorso da alcuni suoi
amici di fuori, e sforzandosi il visconte di levarlo di quel luogo,
non ebbe podere. La gente venne, e misono un ponte, ch’aveano fatto
però, sopra il fosso, e atati da quelli d’entro valicarono senza
contrasto, e furono trecento fanti di Valdilamone, e altri amici di
messer Giovanni, e due bandiere di quaranta cavalieri che vi mandò il
signore di Ravenna. Il Provenzale sbigottito per codardia, avendo la
maggior parte de’ cittadini in suo aiuto, e tutte le fortezze della
città in sua guardia, e l’aiuto delle masnade di santa Chiesa a cavallo
e a piè, ed essendo vincitore, standosi fermo, tanta viltà gli occupò
la mente, ch’egli abbandonò le fortezze della terra, e la libera
signoria ch’egli avea nelle sue mani, e tutto il suo onore, e non stato
cacciato, abbandonò la città, e fuggissi a Imola colla sua gente, ove
per reverenzia di santa Chiesa fu ricevuto, e raccettato mansuetamente.
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